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Mi piace tornare al mio paese. Quel luogo me lo porto dentro in qualsiasi Paese o città in cui ho vissuto. È il mio “cerchio caldo”, davanti agli amici di sempre e chi mi conosce da quando sono nato, non debbo giustificare nulla, ogni volta li aggiorno vagamente sulla mia vita e sul mio lavoro.

Vagamente, appunto, senza mai scendere in dettagli che non posso dire, in fin dei conti poco interessano ai miei interlocutori. Sono andato via che avevo appena 19 anni. Università a Pisa, laurea e dottorato in matematica. I miei compaesani un po’ per celia e un po’ seriamente mi chiamano “il professore”, benché non abbia mai fatto un’ora di lezione. Costruisco algoritmi per la società per cui lavoro. Quando ho scoperto come venissero utilizzati ho avuto crisi di coscienza, ma mi giustificai con me stesso ripetendomi che se non li elaboravo io qualcun altro li avrebbe fatti. Mi pagano bene. Soldi che mi permettono una vita agiata e tornare al “borgo natio” ogni qual volta lo voglia.

Biddafraigada, il mio paese, lo amo in ogni stagione dell’anno, quella che preferisco di più però è la primavera. Cammino la mattina per quelle campagne, mi immergo nei colori e nell’erba umida, mi lascio stordire dai profumi che celebrano il miracolo eterno della vita. Quelle scarpinate sono una provocazione per la mia vita intrisa di razionalità. Sono ateo? No, sarebbe come affermare una credenza speculare, la fede nell’esistenza o non esistenza di Dio pari sono, un dato non supportato da alcuna spiegazione scientifica. Mi definisco agnostico. Ogni volta che le cerco mi accorgo che le dimostrazioni mi lasciano più problemi di quanti ne vorrebbero risolvere. Ci vuole ben altro. Oddio! Anche la mia fiducia nel metodo scientifico potrebbe essere equiparata a una fede, ma la scienza è scienza, tutto l’indimostrabile diventa sfida e ogni ricerca integra o supera le precedenti.

Una mattina di maggio camminavo in S’aza de sas Majas, il crinale delle maghe, toponimo evocativo per una giornata singolare. Raccoglievo asparagi selvatici di cui vado ghiotto, mi trovavo in un terreno di un mio amico d’infanzia, in mezzo all’erba alta vidi una macchia fulva, mi avvicinai, era il suo cavallo. La sera prima Giovanni mi aveva raccontato del suo nuovo acquisto, avevamo festeggiato insieme e mi aveva invitato ad andare a vederlo. Ero lì principalmente per lui, oltre che per gli asparagi. L’animale giaceva steso con tutto il corpo. Mi avvicinai cautamente parlandogli con quei vezzeggiativi che danno fiducia alle bestie, che indicano che l’uomo è amico. Il linguaggio dell’uomo con gli animali è antico quanto il loro rapporto, più che di parole si nutre di toni di voce, suoni, schiocchi di lingua, fischi; risponde a grammatiche non indagate. Il cavallo non diede segno, giaceva morto. Però non lo era, respirava, misi una mano nella giugulare e il cuore batteva lento. Mi allontanai di pochi passi presi il cellulare e chiamai Giovanni.

È morto? Chiese ansioso.

No- risposi- respira, sembra in un stato catatonico, quasi paralizzato.

Aspettami, tra un quarto d’ora, mezz’ora, sarò lì.

Non furono trenta ma quaranta minuti, vidi il fuoristrada di Giovanni scendere per una mulattiera, pochi secondi dopo si arrestò davanti a me. Non era solo, con lui un uomo sulla trentina, piccolo, un fascio di muscoli. “Per la miseria- pensai- si è portato dietro il mago”. Luciano lo conoscevamo tutti in paese, si raccontava che fosse depositario di un’arte arcaica che gli era stata tramandata da suo zio Pietro. L’uomo “curava” gli animali, solo loro, gli umani invece erano pertinenza delle donne.

Non hai trovato il veterinario?

La mia domanda doveva avere un qualche scetticismo di troppo perché Giovanni con un sorriso a mezza bocca quasi piccato:

Non serve, qui occorrono sapienze antiche.

Salutai Luciano il quale trasse da una tasca del giaccone una bottiglietta, quella delle bibite, prese un pezzo di cotone e lo imbevé di un liquido che all’apparenza sembrava acqua. Passò quella garza sulle narici dell’animale, sugli occhi, le orecchie e sulla fronte su cui campeggiava una stella di pelo candido. Lo fece pronunciando per tre volte formule incomprensibili. Il Brebus, il Verbus, la parola sacra, quella che guarisce e che solo gli iniziati possono conoscere. Così viene definito quel rito; lo osservavo con distacco pensando che alla fine un buon veterinario avrebbe risolto il problema con i farmaci, senza invocare nessuna pratica sciamanica.

A quel punto l’uomo:

Adesso recitiamo insieme per tre volte il Padre Nostro.

Veramente io sono un miscredente. Replicai.

Non me ne importa nulla se credi o non credi, recita con noi, il catechismo l’hai frequentato anche tu, non credo ti sarai dimenticato della preghiera.

Era così, pregammo.

Alla fine del rito il cavallo sollevò la testa, sbruffò e in un attimo fu sulle sue gambe; partì in un galoppo sfrenato scalciando e impennandosi, la sua allegria ci contagiò, Giovanni a malapena nascondeva la sua commozione. L’animale ritornò da noi e pose il suo muso sulle mani di Luciano. Il ringraziamento era evidente. L’uomo rise sonoramente e poi rivolto a me:

Professo’ non ti tornano i conti?

Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci avrei creduto.

Luciano fattosi riflessivo:

Nella natura esistono cose nascoste, gomitoli di cui noi di tanto in tanto riusciamo a coglierne qualche bandolo, il più però è mistero.

Volevo saperne di più. Chiesi a Giovanni:

Che cosa è successo al cavallo? Hai una spiegazione?

Quando mi hai raccontato il fatto, l’ho ricollegato a quanto capitato ieri sera. Mentre rientravo ho incontrato Fulanu, lo conosci, è brava persona però ha un’invidia che se lo mangia vivo. Ha visto il cavallo, l’ha ammirato, ma è stato più forte di lui, gli ha gettato l’occhio.

Un caso di malocchio? – Scoppiai in un riso che voleva essere di difesa- Il malocchio, ajò, non può essere!

“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Giovanni mi rispose citando l’Amleto di Shakespeare.

Nell’anno 2019 come si poteva credere a simili superstizioni? Come avrebbe agito l’occhio cattivo su di un animale, senziente sì ma non fino al punto di cogliere le energie negative di uno sguardo desiderante. Pensai che quella guardata avesse mosso chissà quali potenze, poi mi di dissi che quella possibilità non rispondeva a nessuna scienza conosciuta. Eppure la guarigione era avvenuta davanti al mio scetticismo, alla mia ragione infranta. Cercavo una rassicurazione e non la trovavo.

Loro andarono via e io ripresi la mia strada pieno di inquietudini e domande. Mi resi conto che la somma dei Pater recitati più le misteriose orazioni di Luciano, davano come risultato il numero 12. Dodici come i mesi dell’anno. Mi ricordai che nella numerologia quella cifra viene considerata la più sacra tra tutte. Dodici erano gli dei dell’Olimpo, dodici le fatiche di Ercole, la somma dei due numeri che lo compongono da il 3. Il numero perfetto. Dodici come ricomposizione della totalità e dell’armonia originari. Il mio turbamento crebbe. Avevo sempre saputo che la medicina magica ha bisogno che ci si creda, come per i placebo, invece in questo caso aveva agito su di un animale. Ero scosso nelle mie certezze, cercavo risposte che rientrassero in una qualche ragione e non le trovavo. A quale strano fenomeno avevo assistito? Come può agire la parola su di un essere che manco ne conosce il significato? Ripensai al principio di indeterminazione di Heisenberg, alla realtà che muta mentre la si osserva. Mi proposi di riprendere i miei studi di fisica quantistica, lì forse avrei trovato una risposta. Mi convinsi che la verità, qualsiasi essa fosse, era sotto i miei occhi, solo che non riuscivo a coglierla.

Nota dell’autore. Il fatto raccontato è avvenuto realmente, mi è stato riferito da persona di sicura fede che per vita e formazione culturale è lontana da qualsiasi superstizione. Il suo domandarsi è anche il mio.

1 thought on “La parola che cura

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