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La Sardegna è un’isola al centro del Mediterraneo, una posizione strategica che ha sempre attirato l’attenzione e le mire esterne. L’isola ha una storia plurimillenaria che ha avuto con la terra un rapporto speciale, molto più del mare. Il titolo di un libro di Marcello Fois dice “In Sardegna non c’è il mare”, una provocazione che però centra nel segno. I sardi hanno sempre considerato il mare come una coincidenza, un dato di fatto non fondamentale, se non quando si ha necessità di muoversi verso l’esterno. La Sardegna è un continente, altra definizione letteraria che fotografa un’isola che contiene tante nazioni quante sono le micro-regioni che la compongono, ma anche in questo caso si parla di una situazione terrestre, non in relazione con il mare.
La terra, dunque, è considerata l’unica ricchezza.
La morfologia dell’isola ha sempre attirato i diversi colonizzatori che nei secoli hanno sfruttato le potenzialità della terra e la sua posizione strategica. Per i romani era diventato il “granaio dell’impero”, gli spagnoli rimasero quattro secoli per sfruttare le ricchezze del territorio, così i piemontesi e tutti i coloro che hanno occupato l’isola. Chiunque ha riconosciuto le potenzialità del territorio. Oggi si parla continuamente di ritorno alla terra, a quella condizione di vicinanza alla natura, ai suoi ritmi e alla sue regole. Dal virtuale al reale si dice, ma soprattutto alla realtà di un reddito possibile. Si manifestano, oggi più che mai, le occasioni per trasformare l’economia fallita delle miniere e delle industrie in qualcos’altro, la direzione sarà quella ambientale e agricola?

Parliamo di “ritorno alla terra” con Gesuino Muledda, ex assessore all’agricoltura in una storica, e unica, giunta a guida sardista della Regione Sardegna con Mario Melis. Oggi leader del partito indipendentista sardo Rossomori.

Oggi si parla molto di ritorno alla terra. Durante un’intervista la responsabile nazionale dei giovani di Coldiretti ha dichiarato che l’Italia sta tornando all’agricoltura. Il 4% del PIL nazionale deriva dalla produzione agroalimentare e le nuove aziende agricole gestite da giovani aumentano del 30%. Sono dati che la confortano? E in Sardegna cosa succede?

Iniziamo a delimitare il contesto generale. Siamo passati da un modello di sviluppo che aveva alla base la produzione, alla società dei servizi. Solo alcuni dati significativi per intenderci: in Sardegna ci sono circa 540 mila occupati, di questi circa 390 mila lavorano nei servizi (compresa la pubblica amministrazione), 150 mila nelle attività produttive, di queste ultime solo una parte riguarda l’agroalimentare. Quando si dice che il futuro è nell’agroalimentare bisogna stare attenti. Può una nazione avere come asse portante della sua economia le produzioni agricole? In Sardegna non è un fenomeno rilevante. I posti pubblici sono pieni e molti giovani tornano all’agricoltura, di questi molti sono laureati in agraria e veterinaria, si occupano di quello per cui hanno studiato, ed è qui che può nascere una rivoluzione con la competenza delle nuove leve. Sono giovani che non vogliono emigrare, non vogliono abbandonare le aziende di famiglia e creare qualcosa di nuovo, ma sono sempre piccoli numeri.

Si parla del 30% di nuove aziende agricole gestite dai giovani, una percentuale che non prende in considerazione le aziende che passano dai genitori ai figli, e le aziende che chiudono. Ad ogni modo rimane un settore che finalmente ritorna nell’agenda politica nazionale, spinto dai dati in leggero aumento sull’export, e forse dal fenomeno Expo, ma anche dalla crisi economica che fa preferire il ritorno alla terra alla disoccupazione. L’agroalimentare resta un argomento ancora da sviluppare.
Si dice che una parte del mondo produce troppo e un’altra muore di fame, ma possiamo solo immaginare che un prodotto sardo possa essere acquistato da un paese africano?

Quali sono i problemi veri dell’agricoltura? Abbiamo creato le dighe, un lavoro immane e investimenti veramente cospicui. Abbiamo 400 mila ettari “dominanti”, ma utilizzati circa 150mila. Abbiamo un territorio che è servito, ma non lo si utilizza in rapporto a quanto si è investito.
Cosa bisogna fare? Sicuramente un’agricoltura che leghi l’aspetto della qualità alla tradizione, puntando ad una nuova igiene nel lavoro. Il prodotto lo si lavora seguendo la tradizione, ma usando le innovazioni necessarie perché sia anche sicuro, una sorta di “arcaicità moderna”. Sfruttare le innovazioni disponibili e iniziare a ragionare a lungo termine.

Innovazione vuol dire anche una diversa organizzazione del lavoro e una migliore presentazione sul mercato. L’attuale Assessore all’agricoltura della Regione Sardegna vuole investire molto sul mondo del vino, sul Cannonau in particolare. C’è un problema di identità, come spiega anche Jo Ahearne, giornalista e master of Wine, che riconosce l’importanza delle differenze ma afferma anche che all’estero non si riesce ad apprezzare il vino nelle sue qualità generali. Per l’assessorato è importante che il vino sia presentato come Cannonau di Sardegna, concetto che ha scatenato alcune critiche a difesa delle differenze territoriali.

Sono interpretazioni errate, l’Assessore non voleva appiattire il Cannonau ad un unica tipologia o territorio, bisogna però pensare ai consorzi che ne rappresentino il nome. Pensa alla Sardegna che vuole esportare i suoi vini in Cina, come ci presentiamo? Che cos’è la Sardegna nella geografia mondiale? Non esistiamo, se non legati al mito della Costa Smeralda.
Un grande errore, oggi riparabile con una buona comunicazione, è il non aver raccontato il mito dell’intera Sardegna. Non riusciamo a costruire una comunicazione efficace sulla nostra storia, e non dobbiamo inventare nulla a differenza di altri territori che dal nulla costruiscono un’economia. Pensiamo ai semi di vite trovati recentemente in uno scavo archeologico (semi di vernaccia e malvasia risalenti a circa tremila anni fa ritrovati nel pozzo che faceva da ‘frigorifero’ a un nuraghe nelle vicinanze di Cabras). Si è dimostrato che la produzione della vite esiste dal tempo dei nuragici, quindi si potrebbe dire la più antica del Mediterraneo. Quello che si dovrebbe fare è sfruttare il nostro mito, costruire un’epopea della comunicazione. Favorirebbe anche una conoscenza interna, i sardi che inizierebbero finalmente ad interessarsi alla storia della propria terra.

Infatti, l’immagine che noi abbiamo della Sardegna è falsata proprio dalla non conoscenza della nostra storia, che ha il privilegio di essere plurimillenaria. Il rapporto con la nostra terra è sempre stato conflittuale, ma non si è mai abbandonata l’idea che fosse un settore strategico, da punto di vista culturale ma anche economico, almeno fino al Piano di rinascita. Si inizia a ragionare oggi di difesa del suolo, tutela del paesaggio, ritorno alla terra in genere che favorirebbe anche un ripopolamento delle campagne.

Non dobbiamo denigrare troppo il Piano di rinascita. Se pensiamo che oggi tutti i paesi hanno l’acqua e i servizi essenziali. Le condizioni di base per uno sviluppo ragionevole ci sono. Mancano le autostrade ma spero non arrivino mai, spero si rafforzino invece le ferrovie. A cosa servono le autostrade se non ci sono le macchine?
Il fallimento del Piano di rinascita è stato quello del modello di sviluppo adottato: un modello esterno alle condizioni sociali e territoriali della nostra isola e, ancora più grave, completamente dipendente dall’esterno. Abbiamo abbandonato l’ambizione della “lavorazione a valle”, abbiamo prodotto materia prima e semilavorati, ma non prodotti finiti. Noi ci siamo tenuti l’inquinamento, e mai il valore aggiunto. Le lavorazioni a valle sono tutte fatte fuori, ancora oggi.
Ai giorni nostri, la stessa cosa si sta facendo con il progetto Matrìca a Portotorres, l’esatta copia di altri progetti che in Sardegna non daranno valore aggiunto.

E’ mancata una visione politica a lungo termine.

Ti racconto un altro episodio per far capire il fallimento del modello di sviluppo. Nel 1989 al governo c’era Bettino Craxi, all’industria c’era Altissimo, spuntammo una contrattazione incredibile negli anni del governo regionale di Mario Melis. Si trattava di molti miliardi di lire, una cifra doppia rispetto al primo piano di rinascita. Noi avevamo proposto di creare il “giardino d’Europa” nel Sulcis, ancora oggi la regione più povera della nostra isola. Ricevemmo un’opposizione totale proprio dal Pci, si continuava a pensare all’industria o alle miniere come panacea di tutti i problemi, sbagliando.
Si destinò la gran parte dell’investimento sulla “discenderia” di Nuraxi Figus costata 70 miliardi di Lire, appaltata alla ditta Torno, che doveva assumere le settanta persone che lavoravano alla costruzione, e neanche quelle vennero sistemate. Si capisce bene la sproporzione tra investimenti e posti di lavoro.

Per un sistema economico già in crisi ai tempi del fascismo, e subito dopo nei primi anni cinquanta quando il carbone sardo venne reso antieconomico per accordi che l’Italia fece con la Comunità Europea Carbone e Acciaio (C.E.C.A.) favorendo di fatto il Belgio. E i successivi sessant’anni hanno dimostrato che le miniere sono state letteralmente un pozzo senza fondo, ingoiando circa mille miliardi di lire per costruire e mantenere in vita macerie senza futuro.

Da Assessore all’agricoltura ero fermamente contrario ad impegnarci ancora nel settore. Dicevo che era necessario investire sul territorio, sulle sue vere potenzialità. Creare un’agricoltura di altissima qualità, sfruttando le ottime condizioni climatiche.

“Facciamo diventare il Golfo di Palmas il più grande porto del Mediterraneo”, dicevo. I miei compagni di partito non volevano collaborare con il governo Craxi, anche se quelle idee erano le migliori da mettere sul tavolo in quel momento. Cambiando il modello economico, e quindi aumentando il valore del territorio, potevamo anche sperare di eliminare i militari da Teulada. Prevalse invece il modello “operaista”, determinando di fatto un sistema sociale corrotto. Non per colpa degli operai, ma dal fatto di essere antieconomico. Poi certo, si è preferito dichiarare il territorio inquinato, ormai insanabile per continuare a spingere sempre sullo stesso piano. Non si può fare altro che miniere, e successivamente le industrie. E poi richiedere i sussidi e gli aiuti di Stato. Il modello economico a cui ci si era ispirati si stava chiudendo quando c’eravamo noi. Abbiamo tentato a quel punto di dare davvero una svolta, ma non ce l’abbiamo fatta. Noi innovatori abbiamo perso.

Non si è avuto il coraggio di dichiarare il sistema fallito.

Si dice che il prodotto sardo è “buono per natura”, poi vai a dichiarare che 450 mila ettari di territorio sardo è inquinato. In quest’area però c’è anche casa nostra, una cifra assurda. Per quale motivo si fanno circolare queste idee?
Il mercato, al contrario degli opinionisti, ragiona in modo diverso. Quando siamo andati in Germania a vendere il nostro pecorino loro hanno voluto controllare di persona lo slogan che proponevamo. Si sono trasferiti in Sardegna e hanno controllato le nostre aziende e tutti i processi produttivi per settimane, dopo hanno comprato certi di vendere quello che promettevano ai loro consumatori: la qualità.
Se noi facciamo il contrario, ossia comunichiamo che la Sardegna è inquinata per la gran parte del suo territorio e poi cerchiamo di vendere lo slogan “buono per natura” c’è qualcosa che non va. C’è una logica in tutto questo?

C’è un aspetto che mi ha sempre incuriosito delle politiche reali della sinistra italiana e sarda in particolare, ossia il rapporto con il mondo dell’agricoltura. Nell’iconografia classica, nelle strategie comunicative, negli studi sociali e perfino nei romanzi, il mondo rurale, inteso come comunità lavoratrice, non è mai stata presente come quello operaio delle grandi fabbriche urbane. Certo, ci sono i numeri che aiutano l’analisi politica. Ossia, in una fabbrica o grande azienda in genere, ci sono concentrate decine, centinaia e migliaia di lavoratori come nel caso della Fiat, mentre le aziende agricole sono nella gran parte familiari, piccole e medie. Ma è solo una questione elettorale? Un grande dirigente del Pci del dopoguerra Emilio Sereni, se ne occupò in modo approfondito, oggi se ne occupa l’Istituto Cervi, e poco altro.

Allora, io sono stato il primo assessore del Pci ad essere entrato in una giunta regionale, a guida sardista. Ti dico, c’è una debolezza teorica di fondo nella sinistra italiana rispetto all’agricoltura, e allargando il concetto, rispetto all’impresa privata. Se l’impianto teorico è sempre stato quello della lotta di classe tra dipendente e imprenditore, è difficile trovare una soluzione teorica che sia coerente con l’ideologia. Lo slogan migliore della nostra storia era quello che proponeva un’alleanza tra i produttori e i ceti medi.

Poi certo, la difficoltà in Sardegna di individuare il ceto medio…

Il pastore era ceto medio, era un lavoratore autonomo come l’agricoltore. Nella nostra società non c’era l’immagine dell’agricoltore come lavoratore dipendente, non ci sono aziende come in Puglia o Campania che formavano una vera e propria comunità bracciantile che poteva essere considerata come classe operaia. In Sardegna la battaglia era stata fatta per ottenere la terra, ma una volta ottenuta, il bracciante diventa imprenditore e da lavoratore autonomo si è ritrovato a non essere sostenuto più da nessuno, a non avere nessuna assistenza, soprattutto quella sanitaria.
I lavoratori della terra non hanno mai sofferto la fame, ma non avevano un capitale monetario, l’agricoltura non produceva surplus di reddito, condannando le aziende a rimanere sempre piccole e medie al massimo.

A quel punto diventare operaio diventava una conquista.

Assolutamente, essere operaio ad Ottana era un privilegio. Portare a casa lo stipendio sicuro tutti i mesi, con tutti i benefici e aiuti vari. Ma soprattutto l’istruzione media, che era necessaria per lavorare in fabbrica. Ci fu un periodo di grande alfabetizzazione in Sardegna, anche grazie al Piano di Rinascita. Insieme alle storture del modello di sviluppo che è stato effettivamente realizzato (perché nei progetti iniziali i modelli di sviluppo erano legati alla tradizione e ricchezza dei territori ndr), ci sono stati grandi benefici: le strade, un sistema portuale discreto, la rete idrica e fognaria avanzata per quegli anni, la costruzione delle dighe, ma soprattutto l’istruzione per tutti. C’è stata per la prima volta la possibilità per tutti di costruire un futuro diverso da quello di nascita, la scalata sociale era possibile, anche più di oggi.

Quindi molte aziende chiusero a causa del nuovo lavoro in fabbrica?

No, si continuava a gestire e lavorare la terra, anche se le generazioni invecchiavano e si procedeva per successivi invecchiamenti. Diminuivano gli addetti, ma non si abbandonò mai completamente il settore. Si assistette al fenomeno di rientro, nel senso che molti tentavano altri lavori: autista, artigiano o muratore, ma non riuscendo a concludere nulla, tornavano poi a lavorare in agricoltura a 40 anni.
In quel periodo si cerco poi di incentivare il ritorno alla terra con contributi a tassi bassissimi, attraverso la legge sulla piccola proprietà. Si concedevano prestiti per costituire aziende a tassi dell’1%, e considerata l’inflazione a due cifre, praticamente ci guadagnavi, restituendo meno della cifra richiesta. Ci fu infatti una capitalizzazione enorme, la creazione di grandi aziende anche nel Sulcis, ma soprattutto nel Campidano, dove alcune famiglie riuscirono a creare aziende di centinaia di ettari. L’aspetto straordinario di questa legge è che fu approvata trasversalmente da tutti, compreso il Pci, che non capì che così facendo rafforzava il lavoro autonomo, senza pensare di formare un ceto dirigente che potesse gestire quella partita, che poteva davvero creare una nuova classe media produttiva, lasciando il campo ad altre sigle sindacali o politiche. La sinistra, è vero, fu sempre schizzinosa verso gli agricoltori o i pastori, considerandoli imprenditori. Ma uno che aveva dieci ettari non poteva considerarsi ricco, anche se così erano considerati nelle sezioni del partito.
Lo slogan di allora era “la terra a chi la lavora”, in questo modo incentivando l’idea che il bracciante rimanesse tale per sempre. La terra a chi la lavora non era un problema fondante, io avrei usato “l’agricoltura più ricca”, questo doveva essere l’obiettivo: rendere questo settore redditizio.

Soprattutto indipendente dall’esterno. Ieri come oggi l’agricoltore produce e poi aspetta il prezzo della merce, che viene deciso dai vari grossisti.

Certo. Guarda, quando io fui nominato assessore mi trovai in mano una riforma dell’agricoltura intonsa, c’era la possibilità di tracciare una nuova strada per il settore. Si trattava di 300 miliardi di Lire, ma non andava avanti. I vecchi democristiani non sopportavano la riforma agraria, perché rimetteva in discussione un modello economico a cui tenevano.
L’aspetto più importante, forse la chiave di volta di tutto il sistema era il prezzo del latte. Per risolvere questa evidente ingiustizia, affermavo che era inutile creare cooperative che si rapportavano con ogni singolo pastore e non si pensava invece a diventare concorrenti diretti di un sistema industriale, contribuendo così a decidere il prezzo del latte nel mercato.
Si tendeva, ancora una volta, a voler restringere il campo agricolo a quello dei piccoli produttori, divisi e deboli di fronte ad un mercato che creava multinazionali e alleanze globali.

Quindi c’è sempre stato un rapporto complicato tra la sinistra e la terra, la classe operaia invece era l’interlocutore privilegiato.

Si, c’era un problema culturale, purtroppo mai affrontato davvero. La classe operaia era protagonista nella cultura e nelle scelte politiche. La classe operaia che diventa mito, fino a scomparire del tutto, diventando un’immagine sbiadita.

Perlomeno nel Sulcis è stato un continuo cammino verso la scomparsa definitiva. Si è cercato di mantenere in piedi un modello economico che produceva solo perdite. Le continue minacce di chiusura da parte delle diverse aziende che si installavano a Portoscuso hanno prolungato l’agonia, usando gli operai come testa di ponte per chiedere aiuti allo stato. E qui viene in mente la canzone di Battiato “le barricate in piazza le fai per conto della borghesia”.

Se ne parla da decenni di riconversione, di usare le ricchezze del territorio, e certamente non continuare con il carbone. Quello è un sistema assistito, completamente dipendente. Il contrario di quello che pensiamo noi di Rossomori.

Se poi pensiamo ad altri esempi nel Mediterraneo, ci accorgiamo di quanto le cose possano essere diverse. In Spagna due esempi plastici di un modello di sviluppo equo e redditizio per l’agricoltura: Marinaleda, un comune della Andalusia che con la cooperativa comunale garantisce un lavoro e un reddito a tutti, producendo alimenti biologici di alta qualità; sempre in Spagna, l’esempio catalano del Moianès, dove sempre tramite cooperative si è riusciti a riconvertire aziende uscendo fuori dal circuito della grande distribuzione e puntando alle colture autoctone di qualità. Non si può combattere la concorrenza delle grandi multinazionali o produrre brevetti ad esempio, forse la strada è difendere la produzione locale?

Noi come Regione Sardegna abbiamo anche prodotto brevetti. Abbiamo centri di ricerca di eccellenza, guardati con rispetto anche da altri paesi come la Francia. I nostri centri di ricerca regionali sono sani, tanto da voler essere inglobati in quelli universitari. Dispiace ad esempio, la chiusura del centro sperimentale di Villasor, anch’esso un’eccellenza. Le aziende hanno comunque a disposizione la tecnologia necessaria per innovare.
Quello a cui bisognerebbe puntare è la filiera dell’agroalimentare, in questo ambito si può lavorare molto, come negli esempi che hai citato.
La filiera a km 0 ad esempio non vuol dire solo filiera corta, bisogna anche cambiare modo di produrre, ossia produrre tanto quanto consumiamo. Dobbiamo progettare con cura le quantità di prodotto, in modo da realizzare solo qualità. Per esempio la Sardegna non produce ortivo e frutta, importiamo il 70% dall’esterno. Una follia.

Com’è possibile questo paradosso?

C’è una spiegazione storica. Ci furono decisioni politiche ben precise che ostacolarono la scelta di investire sulle alcune colture al posto di altre. Stiamo parlando degli anni ottanta, c’era in ballo a livello italiano un piano di riconversione nazionale sul settore agrumicolo, frutteti da industria e da fresco finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno. In Sardegna, si è investito in altre colture come l’erba per alimentare gli animali. Colture che però consumavano molta acqua ed energia. In quel periodo risalgono anche i finanziamenti per l’estirpazione dei vigneti a cui mi ero opposto fermamente, ma non potevo fermare una libera decisione degli agricoltori. Si finanziarono serre a tassi molto bassi, ma non hanno prodotto i risultati sperati. Avevamo invece la possibilità di investire in coltivazioni in asciutto, grano e altri cereali, gli spazi e le condizioni erano ideali, invece si è preferito investire in altri settori.

Insomma l’agricoltura non è mai stata interpretata come parte essenziale per uno sviluppo economico dell’isola.

Ancora oggi c’è difficoltà a vedere la soluzione di questa crisi. La strada è quella di fare rete, come in ogni altro settore. Fare consorzi, immagina un consorzio del Cannonau che difenda ogni produttore, conservando le specificità ma presentandosi ai mercati esteri con un nome riconoscibile.
Bisogna che si creino le zone dei vitigni, ogni cantina coltivi le sue specificità.

Forse la Regione dovrebbe dare delle indicazioni.

Non si può sempre aspettare la Regione che risolva i problemi dei produttori.

Già, ma torniamo all’attualità e ai problemi da affrontare dall’amministrazione regionale. Qual è la vostra posizione riguardo l’attribuzione dei terreni agricoli dell’amministrazione pubblica ai privati che vogliono investire nel settore?

Ci sarà a breve un bando per l’assegnazione di molti ettari di proprietà pubblica, anche se io nutro alcuni dubbi sull’operazione. Mi ricordo che attraverso la riforma agro pastorale fu fatta la più grande assegnazione di terre pubbliche in Italia, favorendo di fatto però i grandi proprietari. In ogni caso, oggi c’è il pericolo di disfarsi di appezzamenti preziosi che potrebbero essere utilizzati dalla Regione per attività vivaistica ad esempio, sperimentazione da parte dell’Università.
Io vorrei che ci fosse una sola condizione necessaria: che siano i giovani a richiederle, e poi creare le condizioni perché le imprese si sviluppino.
Vorrei anche evitare il “cannibalismo della pecora” anche se il prezzo del latte è aumentato ed è remunerativo, non usare i terreni solo per pascolo. Il contadino migliora i terreni anche per i pastori.
Noi dobbiamo puntare ad una coltura intensiva di qualità, che presupponga però molta preparazione, che produca lavoro. Che tutti gli enti legati all’agricoltura facciano da assistenti all’impresa che nasce e cresce.

Un altro settore a cui teniamo molto è il bosco. In Sardegna non si investe più sulla ricchezza delle foreste, dobbiamo fare coltura del bosco, preservarlo e coltivarlo. Preservarlo dando anche incentivi ai pastori, custodi del territorio, perché non partano gli incendi.
La foresta che crea anche posti di lavoro, investire nella coltivazione e sfruttamento della foresta. Sappiamo che pur essendo la regione con più ettari di foresta, la Sardegna importa legna da ardere e pellets per le caldaie, è un controsenso. Investire nelle foreste non comporta spese rilevanti per la Regione, con un ritorno dal punto di vista economico e lavorativo molto ingente. Lavorare il sottobosco limiterebbe anche gli incendi, migliora la salute generale degli alberi ecc.
Creare un circuito virtuoso che protegga la natura e crei economia, tutto questo si traduce in un risparmio enorme per la Regione. Una parte del progetto potrebbe riguardare la cura e coltivazione del bosco, un’altra la produzione di legna per energia o per riscaldamento, tutto questo tenendo conto delle quote pubbliche da assegnare.

Tutto sembra far parte di un discorso più ampio, presuppone un incentivo per il ripopolamento delle zone rurali?

Certo, ma oltre a finanziamenti per la creazione di impresa, assegnazione di terreni, aiuti per comprare una casa, bisogna che si offrano servizi che possano garantire una vita dignitosa ai giovani. E’ impensabile che i piccoli paesi possano sopravvivere se non si investe in questo senso. La chiave sta nel modello di sviluppo per attirare giovani.

Ci sono così tante ricchezze archeologiche ad esempio che potrebbero attirare un turismo di qualità, attento alla cultura, l’ambiente e le tradizioni. Creare un sistema di ospitalità diffusa che offra la possibilità di vivere il territorio. Tante piccole economie che si affiancano, si intersecano che convivono e producono una pluralità di iniziative che creano una società evoluta. Questo è il sistema che immagino. Non abbandonare le piccole provincie come Nuoro, che rischia di diventare “una bidda con i semafori”. Ma se invece si pensa davvero ad investire in cultura, si potrebbero usare le strutture già esistenti. Per esempio per fare mostre itineranti del patrimonio artistico bancario sardo e nazionale, unire insomma cultura e mondo rurale. Questa è la mia ricetta per il futuro.

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