Il Cristo Morto di Mantegna
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L’Umanesimo cinquecentesco, Rinascimentale, affonda le sue lunghe radici due secoli addietro, nel cuore del Medioevo.I caratteri distinguibili nell’accezione Umanesimo, quali i valori positivisti di fiducia nell’uomo e nel progresso, ricalcano e convergono in un antropocentrismo recuperato dalle tradizioni greche e romane.

Il tessuto artistico Medioevale, irrorato dalle acute nervature dell’architettura gotica, solo successiva al gusto romanico, viene ripetutamente scosso dai prepotenti influssi orientali: echi e riverberi di dispute condotte più in alto, da imperi e religioni.

L’iconoclastia e l’aniconismo, sebbene originariamente riconducibili al Cristianesimo in veste di proibizione biblica delle immagini (Esodo 20,4) e lotta antiidolatrica contro il paganesimo, viene ferocemente combattuta proprio dai papati d’Occidente, fino a giungere all’estrema condanna per mano di Gregorio II che ne dichiara l’ereticità. La raffigurazione rinascerà sotto Teodora, indebolita però dalla sintesi e dall’astrazione bizantine, che priveranno la pittura della sua immanenza, per ricondurla idealmente a luoghi aurei e/o “celesti”.

Sarà difatti la scultura, con Nicola Pisano, a riabbassare l’Arte a una conditio volumetricamente percepibile, umana e non più sovrannaturale: proveniente dai regni meridionali dell’Imperatore svevo Federico II, l’artista trascina con se l’eredità della volontà di recupero delle antiche tradizioni e al contempo della sperimentazione promossa dal sovrano. Rispettivamente con Bacone e Giotto si rivaluterà la realtà terrena e scomparirà progressivamente l’astrazione. L’eredità giottesca sarà poi recuperata dagli olandesi, in quelle terre lontane in cui il Cristianesimo è solo un’eco, e che lentamente si stanno avvicinano al protestantesimo.

Il tardivo allontanamento dalle rappresentazioni trascendentali conduce verso l’umanizzazione del sacro, rappresentato come quotidiano, inserendo i suoi aurei personaggi all’interno di contesti architettonici borghesi, del tutto immanenti e terreni.

E’ plausibile pensare che la graduale corrente digradante delle rappresentazioni sacre segua di pari passo gli sviluppi sociali: se l’iconoclastia nacque per combattere il paganesimo, ora riaffiora uno spirito gnostico, insito nel Cristianesimo, che ripone la salvezza nella conoscenza.

Alla sua nascita, lo gnosticismo (dal greco gnósis (γν?σις), conoscenza) si appropriò del Cosmo autoregolamentato dall’Anima Mundi, o Principio Regolatore, tradotto dagli avi in una moltitudine di dei, semplici trasposizioni della volta celeste. Gli gnostici proposero Dio come loro candidato eletto alla salvazione del mondo e degli uomini e il fato venne demonizzato: cosmo e destino crollarono negli inferi e ad essi si sostituì la Provvidenza del Dio buono.

Il sogno di salvezza dal tempo (ora mortale e non più ciclico) viene riposto nell’osservazione delle leggi divine, nella preghiera e nello studio: Ora et labora.
L’equilibrato rapporto tra preghiera e lavoro articolava le giornate nelle comunità religiose di ordine monastico che nacquero nel Medioevo; l’intelletto, forse più della preghiera, sembrava elevare l’uomo a fini sovraumani1.

Forse è tutto questo insieme a costituire le ragioni che spinsero l’uomo e gli artisti, già fin dal 1300, verso gli studi sulla prospettiva. Il punto di fuga (PF), punto astratto nel quale tutte le linee prospettiche convergono, costituisce idealmente la salvazione dell’Uomo e la sua “liberazione”: dall’astrattismo trascendentale di uno sconfinato cielo blu ricoperto di stelle o dai mosaici aurei riflettenti la luce divina che conducevano l’Uomo a una dimensione ultraterrena, la prospettiva intuitiva delle architetture giottesche e la riacquisita tridimensionalità della scultura lo riportano a una dimensione immanente e tangibile, all’interno della quale ricaviamo una fuga in grado di condurci lontano, nello spirito, nella “salvezza”.

Lo spirito scientifico è immune al fato, scrive de Santillana, e difatti il positivismo progressista che ritroveremo nell’ 800 e che già scorgiamo in tutto quell’insieme d’indagini scientifiche che ancor prima del rinascimento potremmo collocare entro i chiostri o giardini monastici medioevali, si contrapporrà naturalmente allo spiritualismo coevo di matrice Agostiniana.

La rivoluzione copernicana e molte altre ricerche condotte a cavallo tra il medioevo e il rinascimento inebrieranno l’Uomo con l’adrenalina del progresso: la potenza della conoscenza umana che si apre (prospetticamente) verso l’infinito (punto di fuga) libera l’uomo dall’assoggettamento dogmatico divino. Il libero arbitrio si traduce in una nuova padronanza del mondo per mezzo della scienza; il punto di vista (PV) prospettico opera sulla raffigurazione una scelta in base alla quale si articola l’intera rete di relazioni tra gli elementi: la rappresentazione geometrico-matematica prende il posto della vacuità spaziale e del decorativismo; scompone lo spazio aureo e (ri-)umanizza le icone religiose collocandole tra colonne e arcate; la scultura dona loro plasticità vibrante.

La deposizione del Cristo Morto del Mantegna, simbolo noto del Rinascimento Italiano, celebre per la vertiginosità dello scorcio prospettico, in primo piano mostrerà i piedi ( e non casualmente): la parte meno divina del Salvatore, la più terrena e forse la più “disonorevole” del dio. Quale altra opera, in virtù dello scorcio che con tale violenza assoggetta perfino Cristo, è designata a segnare in maniera così netta, molti secoli prima di Nietzsche, la morte di Dio?

Con la Scienza tornammo ad essere protagonisti della Storia, e quando ogni dettaglio religioso, come anche la rappresentazione del Sacro, fu relegata entro specifici confini stabiliti, abbracciammo sereni la fede nel progresso, fidenti nella nostra libertà recuperata.

E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

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