Siliqua
(Provincia di Cagliari) – L’ombra delle rovine del castello di Acquafredda si stende sulla verde pianura del Cixerri, mentre i raggi di un tiepido sole invernale scivolano all’interno del capannone.
Angelo è lì, intento a mondare i cavolfiori: l’indomani è lunedì e devono essere pronti per la vendita. I discorsi sono i soliti di un pomeriggio domenicale: politica, lavoro, valori, ecc.
Ogni tanto smette di lavorare le verdure per concentrarsi sul dialogo. Le mani, dopo anni di lavoro nei campi, si sono fatte forti e robuste. Le sue parole rivelano come quel duro lavoro non sia stato imposto dal destino già scritto, ma da una scelta di vita. I ragionamenti sono semplici, pacati ma pieni di significato: si parla di multinazionali, agricoltura intensiva e monocolture. Da lui, agricoltore biologico, si aspetterebbero parole di rabbia e frustrazione. Invece no :“Le multinazionali non sono il diavolo, fanno quello che il mondo gli chiede di fare: profitto. Sta a noi in quanto uomini imporgli nuovi obiettivi”.
Dietro le sue semplici affermazioni si celano anni di lavoro e riflessioni, solo recentemente tradotte in quella che può essere definita la rivoluzione copernicana di Carlo Petrini: il consumatore ritorna al suo ruolo primordiale e si responsabilizza, conscio del valore delle sue azioni.
Un concetto abilmente riassunto nel mantra: “Mangiare è un atto agricolo”.
Persone come Angelo rappresentano il lato “oscuro” dell’alta cucina. Oscuro in quanto tali individui non saranno mai sotto le luci dei riflettori come i loro clienti, nuovi sacerdoti della religione gastronomica: gli chef.
Offuscati nei menù da termini suggestivi come “verdure croccanti”, “broccoletti” e “pomodorini freschi”, si ritrovano silenziosi giorni, settimane e mesi di duro lavoro, spesso mal retribuito e sottovalutato.
Pure quando si parla dell’EXPO 2015: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, evento che dovrebbe esser loro dedicato o che almeno dovrebbe vederli come protagonisti, si evince dai giornali e dai loro articoli come il ruolo che gli aspetta sarà nell’ingrata ombra.
Per questo si è resa necessaria la creazione di un secondo Expo, parallelo a quello ufficiale: L’ “Expo dei popoli”, che darà voce soprattutto ai rappresentanti dell’agricoltura a conduzione familiare e di piccola scala. Esclusi dall’Expo ufficiale, nonostante producano il 70% degli alimenti consumati a livello globale. Al forum, infatti, parteciperanno importanti movimenti contadini di tutto il mondo come La Via Campesina, l’International Planning Committee for Food Sovereignty, e la Rete delle comunità del cibo Terra Madre.
Ma di tutto questo Angelo non prova alcun rancore, dai suoi occhi e dalle sue parole traspare l’amore per ciò che fa. E lì, in mezzo alle tante cassette nere prosegue calmo nel pulire i cavolfiori che le riempiono, quasi come se con quel gesto firmasse la sua opera.
Racconta di come il pomodoro San Marzano, elemento “sine qua non” della cucina italiana, sia a rischio d’estinzione. Per la sua bassa resa e le numerose malattie, è stato ormai soppiantato dai più convenienti “tipo San Marzano”, che sono sì resistenti ad alcune malattie e idonei a una produzione meccanizzata, ma con caratteristiche qualitative e sensoriali nettamente inferiori.
Purtroppo la cinica razionalità economica dell’industria alimentare non si ferma alla distruzione della biodiversità. Costantemente alla ricerca di maggiori guadagni, tale meccanizzazione impoverisce gli agricoltori, causando un paradosso: loro, produttori del cibo muoiono letteralmente di fame.
Questa dinamica ci permette di avere sulla nostra tavola ogni tipo di vegetale tutto l’anno, trovando come soluzione ai costi di trasporto lo sfruttamento degli agricoltori del Terzo mondo. Attraverso false opere filantropiche raggruppate dall’altisonante nome “Green revolution”, obblighiamo questi ad abbandonare le loro sementi tradizionali, per approcciarsi all’innaturale sistema delle monocolture, con la relativa dipendenza dalle sementi “brevettate” e i loro pesticidi. Dunque, la scelta di non seguire la stagionalità dei prodotti non riguarda soltanto una decisione puramente gastronomica, ricade direttamente su aspetti ambientali ed etici.
In Italia la situazione appare migliore. Ma se si osservano i dati, ci si rende conto di come gli agricoltori che fatturano più di € 7000 siano solo 400.000 nel paese, a fronte del milione e mezzo censito dall’Istat.
Noi italiani guardiamo indignati e disgustati questo atteggiamento, sino a svoltare l’angolo e reputare sufficiente l’impegno di organizzazioni come Slow Food e Seed Freedom, dimenticandoci di come ogni nostra scelta influenzi il mondo in cui viviamo.
Siamo tutti consci che la leggerezza con cui ci stiamo distaccando dalla Terra stia impoverendo la nostra cultura gastronomica. Pensiamo basti difenderla con le parole e con le definizioni, ma ci allontaniamo sempre più da essa, spingendoci verso la deriva del vituperato modello culinario anglosassone.
Per questo diventa fondamentale la scelta del “Km 0”, non come moda ma come modo di vivere.
Vivere a Km 0 rappresenta un’impresa, una nuova tipologia di sciopero della fame, in cui l’uomo, divenuto consumatore cerca di riappropriarsi della libertà di scelta.
La scelta del Km 0 significa soprattutto reimpostare la comunità in modo che si basi solo sulle risorse ambientali, economiche e culturali locali, scontrandosi con l’impostazione attuale della dipendenza dalle risorse altrui.
Queste misure comprendono grandi sacrifici, specialmente se si considera l’eliminazione o riduzione dell’uso di prodotti tropicali un tempo rari e ora divenuti scontati, quali caffè e cacao. Gli sforzi che si nascondono dietro questa strada sono frutto della nostra assuefazione a un modo di vivere che ci ha cullati per decenni.
Oltre le difficoltà, vi è la prospettiva di costruire un mondo più etico e meno inquinato. Infatti, ci appare ovvia la possibile riduzione delle emissioni di CO2 generate dai trasporti degli alimenti, ribadita dai recenti studi della Società Italiana di Economia dei Trasporti e della Logistica. Eppure, tale decrescita dei trasporti porterebbe anche vantaggi puramente economici, come la riduzione del prezzo dei prodotti, grazie all’assenza di intermediari.
Il valore primario di cui potremmo riappropriarci è quello di una cultura agricola collettiva, ormai persa nella modernità. Col reinvestimento totale nella nostra microeconomia contribuiremmo al benessere delle persone che abitano intorno a noi. Inoltre, ripristinando un dialogo interrotto con l’ambiente, ritorneremmo a vedere il passare delle stagioni attraverso i colori dei mercati, primi e veri centri culturali della cucina italiana.
In esso sarebbe fondamentale il contatto diretto col produttore, che potrebbe spiegarci come l’alimento è stato creato, e come nel rispetto del suo sudore questo vada curato e cucinato. Tali indicazioni, che tuttora alimentano i menù dei ristoranti, sono ciò che originariamente ha reso capaci gli chef di ammaliarci e sedurci con i loro manicaretti.
Purtroppo tanti ristoratori nella provincia di Cagliari, che beneficerebbero della collaborazione con i piccoli agricoltori, hanno voltato le spalle a questi potenziali vantaggi. Preferendo i più economici prodotti esportati, non dimostrandosi consapevoli del loro reale costo in termini ambientali ed etici.
Mentre sistema le ultime cassette, Angelo spiega tali meccanismi, non riuscendo a nascondere quanto questa deriva lo amareggi.
Le parole volano come il tempo, i tenui raggi di luce si fanno lentamente più deboli, sino a essere sostituiti dalle fredde luci al neon.
Sono le otto, e la cena è pronta in tavola.
Pure nella stanchezza e nel languore di quel momento, Angelo si ferma e prega con la sua famiglia, ringraziando Dio per il pasto.
Questo antico gesto, superato nell’ingordigia odierna, ritorna oggi come pratica da recuperare in chiave laica.
E davanti al piatto colmo fermarsi, lasciandosi avvolgere dal profumo e contemplando il lavoro delle persone che lo hanno reso possibile, e domandarsi: “Stiamo facendo abbastanza per ringraziarle?”.