Fila di disoccupati
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Articolo di Milena Fadda

“Gli economisti sono sulla terra per far fare bella figura agli astrologi”, così Albert Einstein liquidava quella disciplina, che da Adam Smith in poi, negli ultimi tre secoli è stata posta a salvaguardia delle umane sorti e alterne vicende.

I resoconti più recenti proposti dalla UE agli stati membri, non smentiscono l’ aforisma del fisico tedesco, laddove non si riesce a sollevarsi dalla crisi.
Le cifre sono drammatiche e parlano chiaro. La disoccupazione in Europa vola al 10,2%, dato Eurostat relativo all’ ultimo trimestre 2011 (luglio-agosto-settembre) con un’ impennata di mezzo punto percentuale registrato in settembre.

Ancora una volta, a fare le spese di investimenti azzardati, crolli borsistici e inflazione monetaria, sono gli under 30, dato che ormai disoccupazione maschile e femminile dal 2008 convergono, mentre il picco di disoccupati e inoccupati si riscontra tra i minori di 25 anni: uno su tre (29,3%) nel 2011.
L’ Europa a 27, infatti, dal 2007 vede una diminuzione costante del numero degli occupati, e del loro livello retributivo.
in Italia ci accontentiamo di un 8,3%. che equivale ad avere sei milioni di persone “a casa”.
Si sa che con la moneta unica, l’ usuale soluzione di immettere più valuta nel mercato, per dare una smossa all’ occupazione, non è fattibile. Il tasso di disoccupazione, infatti è in crescita proprio nei paesi dell’ Eurozona. Che la BCE tagli i tassi d’ interesse dello 0,25% rappresenta nei fatti, agli occhi dei più (i cittadini) l’ estremo tentativo per arginare un fallimento.

Quale? Certo non l’ introduzione dell’ euro, avvenuta a gennaio 2002.
La risposta è da cercarsi nei propositi inseriti nell’ agenda europea per il 2020.
Se Strasburgo e Bruxelles, spingono i governi nazionali almeno a una regolamentazione del lavoro flessibile (cosa difficile, viste le differenze e i vuoti legislativi esistenti tra uno stato e l’ altro), dall’ altro lato, si schierano apertamente in favore di una flessibilità ancora maggiore.
L’ UE da sempre, punta gli indicatori economici sulla forza lavoro altamente qualificata.
L’ Europa intende arrivare a investire entro il 2020 il 3% del PIL nei settori di ricerca e sviluppo, puntando sulla manodopera ad alto costo.
Il tutto, delegando agli Stati Membri la responsabilità di una formazione continuativa del lavoratore.
In soldoni, ci toccherà vendere i nostri servizi alle economie emergenti. Speriamo bene.
Ma a preoccupare economisti e policymakers (coloro che attuano i piani politici ed economici, ndr) è la disoccupazione a lungo termine, che a quanto riportato dall’ agenzia Eurostat, influenza negativamente la coesione sociale e frena la crescita economica. Oltre che negare al lavoratore l’ accesso a quella formazione tanto caldeggiata in sede di Commissione UE. E fin qui, niente di nuovo.
La disoccupazione, però, trasversale ormai, dopo il crollo delle borse USA del 2009, rappresenta una minaccia ben più grave: la riduzione del prelievo fiscale. E conseguente stallo della produzione, nazionale e non.

Se al panorama poco consolante, aggiungiamo che per quanto riguarda le misure avviate dalla BCE (Banca Centrale Europea) i tassi di credito al consumo (per intenderci, il credito che si applica a chi chiede i soldi alla banca perché non ne ha, quindi piccole e medie imprese) potrà non subire variazioni, rimane fare affidamento sugli Eurobond.
Gli Eurobond non sono altro che titoli di stato obbligazionari. Però sono titoli di stato Europei. Simili ai nostri BOT, essendo emessi direttamente dalla tesoreria dell’ UE, garantiscono un po’ di afflusso monetario extra sul territorio dell’ Euro. Chiaramente, l’ Eurobond rappresenta una grave minaccia di indebitamento, per i paesi UE le cui economie non risentono della crisi finanziaria degli ultimi due anni. Perchè? Perchè l’ Unione Europea fa cassa comune, quindi, sarebbero Olanda, Austria, Finlandia, Francia e Germania, a dover garantire per i paesi più deboli (Grecia, Spagna, Italia). Inventati negli anni ’90, gli Eurobond sarebbero dovuti essere destinati alla creazione di infrastrutture in ambito europeo (in caso di forte stallo occupazionale, la manna dal cielo). Purtroppo i nostri Commissari Europei dell’ epoca, non avevano previsto la crisi attuale. Eh, già.
Inoltre, il ricavo garantito dall’ acquisto delle obbligazioni comunitarie, non supererebbe il 6%, il che, ovviamente non li rende un investimento appetibile, per quanti eventualmente interessati.

Nel tira e molla tra paesi dell’ Eurozona, Francia e Germania in testa, nel frattempo, a farne le spese è il contribuente/lavoratore.
Meno liquidità, meno euro sul mercato, equivale come sempre a minori investimenti (in risorse umane, in impiegati) da parte delle aziende.
Da qui, l’ idea di introdurre il concetto di flexicurity, in sede europea. Ossia tutta quella serie di “edulcoranti economici” volti a rassicurare il lavoratore all’ atto della perdita dell’ impiego, con, dall’ altro lato, maggiore libertà di licenziamento da parte dei datori di lavoro. E della flexicurity fanno parte la formazione tanto cara alla UE, e i centri per i servizi all’ impiego.
Un sistema precario che si fonda su basi precarie, insomma. Poiché non tiene conto della sfida accolta dai mercati cosiddetti “emergenti”. Cina come sempre in pole position, ma anche America Latina. Il fatto è che, nonostante le misure messe in moto da Bruxelles, non si rilevano miglioramenti del quadro complessivo. Tantomeno nelle aree europee fortemente depresse. Per il semplice fatto che sono i mercati del lavoro dei paesi emergenti, a non essere regolamentati. Un esercito di 5 miliardi di persone che cuciono, montano e smontano, imbustano, a orari impensabili e senza il “benefit” del minimo salariale.

Questa è la sfida su cui occorre interrogarsi, per un’ economia, quella occidentale, che punti a una ridistribuzione del reddito e a una collocazione globale.

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