La presenza della vite sul pianeta è riscontrabile già dal Miocene, e la diffusione seppur limitata dall’ultima glaciazione, dalle vicissitudini storiche e dalla fillossera, testimoniano quanta forza vitale e spirito di adattamento abbia questa straordinaria pianta e la sua inclinazione ad essere cosmopolita.
Pur con limitazioni in latitudine, altitudine e climatologiche, la vite si trova pressoché ovunque sulla Terra, attecchendo favorevolmente in tutto il bacino mediterraneo. Non a caso l’Europa vanta alcuni primati: il 40% d’ettari deputati alla viticultura, il 65% della produzione ed il 57% del consumo di vino a livello mondiale. Ma è l’Italia a possedere l’ampelografia più vasta con le sue 350 specie di Vitis vinifera autoctona ed altri 250 vitigni internazionali, adattatisi alle diverse caratteristiche territoriali della nostra penisola. Seicento e più specie varietali accolte nelle nostre vigne hanno assunto nel tempo l’accento e il sapore delle terre ove hanno eletto domicilio, grazie alla domesticazione da parte dell’uomo e della natura.
Per comprendere quanto il concetto di cittadinanza e territorialità siano profondamente legati al mondo del vino, occorre percorrere il viaggio della vite europea a ritroso e ammettere quanto la storia sia maestra, spesso inascoltata, dell’umanità e quanto possa essere fonte di ispirazione nell’era moderna.
Reperti antichissimi in forma di viti fossilizzate, anfore e testi antichi riesumati in diverse zone del Mediterraneo hanno contribuito a ridisegnare la geografia della viticultura antica e a dimostrare che la cittadinanza per il vino è più che un vincolo legale di appartenenza ad una regione geografica o ad uno stato: è un diritto che la compagna di viaggio dell’uomo nel corso dei secoli si è guadagnata in quanto foriera di civilizzazione; un diritto che è vocazione per le terre che ha sposato ed evocazione nel nome dei grandi vini del passato e delle città da cui essa proveniva.
Pur certo nell’antichità, come tutt’ora, esistevano vini più o meno di qualità con altisonanti nomi di fantasia e lo scalpitante “Pedasos”, ad esempio, ispirava il proprio al cavallo del mirmidone Achille, mentre il vino “Pramnos” riconduceva già ai luoghi di produzione, Lesbo e Smirne; i vini che hanno avuto maggior fama e pregio hanno legato invece il loro appellativo al nome della loro città: “Histia”, “Epidauros” , “Knidos” ed il vino “Rhodos”, di consistenza imponente almeno quanto l’omonimo colosso, sono solo alcuni esempi. E ancora, quasi come un’enoica costellazione egea, i vini di “Thasos”, “Chios”, “Samos” e tanti altri ancora. Non si tralasci di citare il più illustre e leggendario dei vini: il “Maroneo”, vino prodotto ai tempi di Ulisse, servito al re di Itaca per ubriacare ed accecare poi il ciclope Polifemo; non a caso Omero raccomandava di aggiungere una quantità d’acqua 20 volte superiore al mitico vino proveniente dalla Tracia, precisamente dall’antica città di Maroneia (fondata dai coloni di Chios nell’VIII sec. A. C.), tanto era corposo, alcolico e possente.
Nel corso del tempo il vino ha ancora attestato la sua identità facendola coincidere con la stessa cittadinanza: lo sapevano bene gli inglesi quando festeggiavano col “victory wine” le imprese di Horatio Nelson… brindavano col nostro “Marsala”! E per comprendere quanto siano in errore i burocrati della comunità europea a dividere il mondo del vino in “varietale” e “denominazione geografica” basta analizzare quanto una filosofia di concepire il vino possa vivere in simbiosi con l’altra attraverso il connubio tra nome del vitigno e nome del luogo: Aglianico del Vulture, Malvasia di Bosa e Vernaccia di San Gimignano tanto per cominciare.
Si potrebbe apparentemente cadere nell’ambiguità dicendo “Freisa”? Alla domanda “di Asti o di Chieri?” ecco dissolto il dubbio. Semplicistico forse ma sicuramente non cervellotico e nocivo come certe riforme.
Le OCM, per intenderci, potrebbero avere delle gravi ripercussioni sul futuro della viticoltura del nostro Paese e dell’enologia europea; la realtà è che la cittadinanza di un vino, e lo abbiamo visto, è un concetto che si cerca di imbrigliare e sovvertire tra le parole “autoctono”, “internazionale”, “varietale” e “denominazione”. Bisogna sdoganare l’identità del vino da certi vincoli, bisogna sdoganare la qualità del vino da certe logiche di mercato e bisogna evitare di pensare che la globalizzazione enologica e la concorrenza dei vini varietali degli altri continenti debbano essere affrontate arroccandosi dietro leggi lesive che porterebbero solo vantaggi economici provvisori ai produttori, sovrapproduzione, delocalizzazione delle viti nelle poche denominazioni d’origine funzionanti davvero ed un forte crollo dei prezzi. La realtà è che tutto ciò va a danno del territorio e del consumatore.
La globalizzazione diventa un’opportunità solo quando consente la conoscenza tra culture diverse ed il confronto tra le espressioni produttive di ogni singolo territorio. E tradotto significa che in Europa i vini dovranno confrontarsi con le altre realtà del Nuovo Mondo mantenendo stabili gli standards qualitativi ed iniziare a proporre il vino ad un prezzo più equo, per consentire e non imporre le scelte al consumatore.
E’ indispensabile non tralasciare di ricordare la differenza tra identificazione ed identità, tra collocazione geografica ed appartenenza storico-geografica; Leggi e disciplinari, mappe enografiche ed etichette aiutano ad identificare ubicazione e parametri previsti attualmente per 60 d.oc.g. , 333 d.o.c e 118, parametri che dovrebbero aiutare a comprendere anche l’identità ed il diritto di appartenenza dei vini ad un terroir. Purtroppo non è così: è ormai dato oggettivo che non sempre alle denominazioni di origine corrispondano vini autentici e di qualità superiore rispetto alle i.g.t. ; qualità che certi regolamenti frenano piuttosto che promuovere depauperando le viti italiche della loro cittadinanza attraverso i così detti vitigni “migliorativi” . Le viti che si sono adeguate faticosamente a integrarsi in un determinato habitat non possono essere soppiantate dalle viti che secondo le recensioni di certe riviste di settore andrebbero di moda quest’anno. Ci sono delle varietà che sono state scelte in funzione del loro adattamento a specifiche condizioni pedoclimatiche, a quanto il terreno sappia conferire al loro frutto la sua impronta inimitabile ed al loro comportamento rispetto ai parassiti e per fortuna la selezione non è avvenuta sempre grazie alle leggi dell’uomo ma attraverso un lungo processo di selezione naturale, secondo vocazionalità territoriale e climatologica appunto.
Bisogna rafforzare questa torre di Babele delle denominazioni di origine dalle base piramidale, prevenire i rischi della liberalizzazione dei diritti di impianto ( se vogliamo evitare che le colline trevigiane deputate alla produzione di Prosecco “scivolino” legalmente sino alla laguna veneta o magari che l’Asti spumante venga prodotto in futuro anche con Chenin Blanc) e combattere culturalmente l’omologazione del vino: l’insieme delle caratteristiche organolettiche che rendono un vino ciò che deve essere è l’identità (non l’identificazione in etichette che possano essere contraffatte), ossia l’insieme delle peculiarità che aiutano a contraddistinguerlo dagli altri vini. Non esiste varietà senza habitat, né qualità senza rispetto della vocazionalità e del territorio!