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Fa decisamente specie dover leggere, giusto qualche tempo fa, titoli come “vino, i super vitigni resistenti alle malattie bloccati dalla burocrazia” proprio su giornali che hanno fatto della difesa della burocrazia a tutti i costi un mestiere spesso scevro di deontologia professionale, veridicità e senso etico. Il tono con cui si cerca di fare apparire la burocrazia europea ed italiana, in questo specifico caso, retrograde nel non voler concedere il lasciapassare a quelle che vengono definite “innovazioni varietali” fa comprendere invece quanta pressione venga esercitata per scardinare gli ultimi pudori in fatto di coscienza ambientale e viticultura etica per far cadere l’ultima foglia di fico e disseminare allegramente nei vigneti le ultime trovate dei Vivai Cooperativi Rauscedo, creati in laboratorio in collaborazione con l’Università di Udine.

Perché le autorizzazioni all’allevamento sul campo delle dieci varietà resistenti ad oidio e peronospora possano passare si dovrà avere l’approvazione da parte di 19 regioni e due province autonome ed è questo il motivo per il quale VCR sta organizzando incontri mirati in tutta Italia presso importanti istituti agrari e centri di studio della viticultura con la partecipazione di associazioni di enotecnici, consorzi ed enti vari: ottenere il consenso di tutti gli operatori di filiera su vasta scala.

La condotta scellerata che ha portato per decenni all’inasprimento della fisiologia dei terreni fino a renderli sterili, l’aumento dei trattamenti per contrastare le malattie, rendendo i nemici della vite più forti ed il suo sistema immunitario più debole, sarebbero il pretesto mediante il quale favorire come cura da tutti i mali creati in precedenza l’introduzione di questi nuovi vitigni, di cui in realtà si teme già l’uso fuorilegge da parte di non poche cantine, sparse su tutta la penisola, ansiose di un certo tipo di innovazione, se la mutazione genetica così si possa chiamare, e all’insaputa del consumatore persino.

La cecità dei viticultori e delle grandi aziende agricole ha purtroppo favorito l’uso di formule sempre più comode, di impiego immediato, di apparente risoluzione ed economicamente vantaggiose ma assolutamente prive di ogni lungimiranza ed affetto per la terra; invece le vere risposte al problema, come è stato ampiamente dimostrato, sono insite proprio nelle soluzioni a lungo termine che tengono conto del fatto che quanto più un suolo è vocato alla viticultura tanto più la conversione al biologico sarà di semplice attuazione e costituirà il percorso economicamente più competitivo.

Infatti gli strumenti agronomici che hanno danneggiato maggiormente la viticultura, soffocando il senso stesso di terroir e di espressività della vite sono l’eccesso di irrigazione, concimazione e lavorazione del suolo, il ricorso alla chimica ed ai prodotti di sintesi, le forme di allevamento espanse e le basse densità; ma non è assolutamente logico e razionale immaginare che la risposta ai danni provocati all’ambiente possa essere costituita dall’ammissione di viti modificate per mezzo dell’introgressione di geni di resistenza presenti nel corredo di varietà non vinifere per ridurre i trattamenti: la sola mutazione del corredo genetico in un range del 5-10% resta comunque uno stravolgimento di ciò che la Vitis Vinifera è stata fino ad ora, comportandone irrimediabilmente l’estinzione o quantomeno l’estinzione di quanto ottenuto con la domesticazione e di ciò che è scampato agli ultimi tre secoli, tra malattie provenienti dal nuovo mondo, i conseguenti portainnesti ed i primi “miglioramenti” genetici portati a termine da Louis ed Henri Bouschet fino ai reincroci ed ibridi di nuova generazione.

Altrettanto preoccupante è l’introduzione nel Registro Nazionale delle Viti dei nuovi portainnesti M, creati dall’Università degli studi di Milano, frutto di un programma di incroci che, a partire dagli anni ’80, ha portato all’immissione sul mercato di ben quattro esemplari, capaci di maggior vigore, maggiore resistenza alla siccità ed all’assimilazione di calcare e salinità, con una capacità di utilizzo maggiore di ferro, potassio e magnesio e che promettono un forte dispendio idrico. Si stima che l’impiego di tali portainnesti comporterebbe un risparmio di ben 24.500 ettolitri di acqua per ettaro ogni anno.

Per quanto il valore complessivo dell’impronta idrica italiana (water footprint) sia al di sotto della media mondiale del 20%, se è vero da una parte che occorrono circa 670 litri di acqua per ottenere un litro di vino (di cui il 76, 60% di acqua verde, il 6,60% di acqua blu ed il 16,80 di acqua grigia) è altrettanto assodato che un’eccessiva disponibilità idrica accentua il vigore della pianta, un nemico per molti aspetti, e determina le condizioni di stress termo-idrico tanto temute nella stagione estiva.

Dunque, a questo punto, perché non lavorare sulla pianta per ridurre la domanda di acqua e favorirne l’autonomia mediante lo stimolo di un’attività radicale a maggiore profondità?

Purtroppo, piuttosto che fare ammenda ed assumere una condotta più responsabile, si preferisce sempre usare la scorciatoia suggerita dalle lusinghe di chi ha solo occhio per gli affari piuttosto che per la salvaguardia dell’ecosistema, quando invece bisognerebbe tenere in considerazione il fatto che zonazione parcellare, forme di allevamento contenute, alta densità di impianto, selezione massale, sovesci, inerbimenti e pacciamature, conferirebbero più sostegno alle piante e produzioni equilibrate.

Un grande vino è frutto di uve sane, generate da piante con poca vigoria e basse rese, impiantate su terreni collinari stenti in cui la presenza di ciottoli, buona ventilazione ed il sole fanno il resto.

Il clima influenza la crescita della vite affinando l’impulso energetico fornito dal terreno, fornendo così un valido aiuto all’uomo nell’interpretare le effettive esigenze delle piante, allertandolo sulle variabili meteorologiche che restano un rischio concreto e la vera incognita da prevenire.

La vite ha dato prova di riuscire perfettamente a resistere persino ai condizionamenti forzati da parte dell’uomo in terreni davvero ostici alla sua sopravvivenza ma senza aiuti chimici o genetici, quindi le sue possibilità di recupero, nelle aree che per clima, altitudine, latitudine e tessitura del terreno, risultano tipicamente più vocate, sarebbero quantomeno triplicate, specialmente se si desse lei il tempo di ripristinare la sua resistenza immunitaria, magari coadiuvandola col ricorso alla biodiversità pianificata e con un immediata bonifica dei terreni da pesticidi e con un uso più centellinato di rame e zolfo.

Vite ultra centenaria di Aglianico presso Taurasi

Bisogna, alla fine di tutte queste considerazioni, riconoscere la straordinaria opera dei Vivai Cooperativi Rauscedo nel promettere di lavorare in vigna in meno tempo, facendo guadagnare come se si lavorasse in più. Un’opera meritoria paragonabile a quel parafrasato campione in economia del professorone Prodi che consentirebbe finalmente agli affaristi del vino di andarsene a giocare a golf dopo aver mollemente strappato qualche filo d’erba o potato qualche ramo, posando per il consueto scatto domenicale a memoria di quelli che se la bevono. E tutto questo al modico prezzo di un ulteriore e progressivo stravolgimento della Natura e della sostituzione programmatica della memoria della Vite, vivente comparso sulla Terra nella sua forma selvatica qualcosa come appena 55 milioni di anni prima dell’uomo, suppergiù.

Auspichiamoci che questi intrepidi eroi, frementi di percorrere i moderni sentieri dell’enologia, vadano così fieri delle loro scelte da annotarle con altrettanto coraggio in etichetta di modo che siano i consumatori a fare opportune valutazioni e che le istituzioni tutte se ne guardino bene dal conferire qualsiasi autorizzazione se non, al massimo, quella di un disciplinare parallelo, con regolamenti ed aree di coltivazione restrittivi, visto che tutti i proclami vanno per la preservazione delle viti… o almeno è quel che vanno raccontando.

Solo un uso ragionevole e leale degli strumenti messi a disposizione dalla Natura e dalla Scienza potrà rendere la viticultura un’attività davvero competitiva e sostenibile, bandendo ingiurie al terroir, escamotages genetici e qualsiasi molecola di sintesi, in favore di una condotta agronomica basata su una più attenta osservazione della fisiologia e dei ritmi fenologici della vite. La Vitis Vinifera è tra le piante più intelligenti del mondo vegetale, capace di generare meccanismi di difesa, di distinguere i diversi stimoli provenienti dal suolo e dall’esterno, apprendendo e memorizzando mediante il suo impianto radicale. Rispettare il suolo, vera anima del terroir, ed avere maggior fiducia nelle capacità adattive della vite, il cui cervello risiede nel sottosuolo e non sopra, è l’unica vera prova di buona volontà alla viticultura sostenibile ed alla coscienza ambientale, ossia quei presupposti imprescindibili per l’applicazione dell’agroecologia, anello di giunzione tra pratiche tradizionali ed esigenze attuali.

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