Si deve all’andaluso Pablo Picasso, erede delle idee perseguite in arte da Cézanne e indubbio artista dal forte sentire mediterraneo, una interessante meditazione, fatta agli albori del XX secolo, su una delle funzioni più antiche e tradizionali svolte da una donna: l’allattamento. In un suo precoce disegno, quasi uno schizzo, una madre dalle forme antiche e generose, che ricordano quel le abbondanti della pagana e preistorica Venere di Willendorf, avvolge in un abbraccio protettivo e pieno di tenerezza il suo bimbo che, felice e appagato, mentre beve il latte dal suo seno, sembra fondersi con lei ricreando quell’unione indissolubile già presente tra di loro nei precedenti nove mesi di gestazione.
Mentre la forma dei due corpi, fusi in un unico gesto, è già di grande modernità, il profilo della madre sembra rimandare a una Madonna di Filippo Lippi che, come tante altre raffigurazioni di Maria, per secoli, avevano riempito tavole e tele con un gesto, quello dell’allattamento appunto, così femminile e, al contempo, così sacro che, a lungo, solo la Madre di Dio era stata ritenuta degna di essere ritratta mentre lo compiva.
Certo c’erano state in precedenza delle eccezioni memorabili come, ad esempio, quella presente nella “Tempesta” di Giorgione dove una madre qualunque, per giunta completamente nuda, allatta (quasi un “Déjeuner sur l’herbe” ante litteram) il suo piccolo sotto un albero. Con la rivoluzione apportata in pittura da Caravaggio, che aveva avuto l’ardire di rappresentare Maria sul suo letto di morte con le sembianze di una popolana affogata nel Tevere. Mattia Preti, uno dei maggiori Caravaggeschi, arrivò a dipingere una semplice contadina con il suo bimbo attaccato al seno con un verismo quasi ottocentesco. Nel XIX secolo, poi, con l’avvento degli Impressionisti sempre così attenti a descrivere la vita quotidiana, Mary Cassat (una donna, finalmente!) eseguì un carboncino da cui traspare tutta l’esclusiva intimità e la profonda dolcezza che solo una donna sa bene intercorrere tra una madre e il suo bambino nel momento in cui questo beve il suo latte.
Tornando a Picasso, nel 1906, in pieno “Periodo blu”, il tema dell’allattamento riappare nella sua opera. Il modo di trattarlo, però, è sicuramente diverso dal precedente. Qui anche il più piccolo accenno all’arte sacra è sparito: siamo, infatti, di fronte ad una donna moderna, pienamente consapevole della sua bellezza che cura dando attenzione alla pettinatura, ingentilita, come nella migliore tradizione spagnola, da una rosa, all’impalpabile scialle, probabilmente una ricca mantiglia, all’anello, piccolo ma prezioso, che orna il dito medio della sua lunga, curatissima mano. Siamo di fronte ad una donna figlia del suo tempo, sicuramente appartenente all’alta borghesia e non certo alla cultura contadina, che, pur guardando al futuro, non ha dimenticato e non disdegna le cose fondamentali della vita legate alla tradizione di cui l’allattamento è sicuramente uno dei gesti più nobili. Picasso, nella sua corsa verso la modernità, sembra voler invitare la donna, della cui emancipazione è pienamente consapevole, a perseguire i suoi giusti intenti di valorizzazione di se stessa senza però dimenticare l’importanza fondamentale ricoperta dai gesti più antichi.
E il suo messaggio, negli anni ’20, venne accolto, quasi incredibilmente, dalla sofisticata pittrice polacca Tamara de Lempicka che, recatasi a studiare pittura a Parigi dopo la rivoluzione bolscevica, era entrata in contatto con tutti i circoli culturali della capitale francese frequentati anche da Picasso. Le due versioni, una in azzurro e l’altra in rosa, della sua Maternità altro non sono che una diretta derivazione in chiave art déco del precedente dipinto del pittore spagnolo nonché un’aperta dichiarazione da parte di una donna così raffinata, emancipata e moderna del suo non voler rinunciare a valori sempiterni che ritiene fondamentali per il suo sesso.
Quasi cinquanta anni più tardi, nel 1952, Picasso tornerà a trattare il tema dell’allattamento nella vecchia cappella di Vallauris, un piccolo paese alle spalle di Cannes, famoso per la lavorazione della ceramica, dove, dopo i soggiorni nelle brume parigine, ritrovò il calore e il colore del suo Mediterraneo sempre portato nel cuore. La cappella verrà trasformata in un vero e proprio “Tempio della Pace” grazie a due grandi pannelli in legno, uno dedicato a La Guerra e l’altro a La Pace, appunto, che Picasso riempirà di simboli sempiterni. Ispirata dalla serena e felice vita familiare che l’artista conduceva in quel periodo proprio a Vallauris e nella vicina Antibes, La Pace presenta sulla sinistra un funambolo, espressione del fragile equilibrio del pittore, che regge un’asta ai cui estremi sono appese, da una parte, una boccia con dei pesci rossi e, dall’altra, una gabbia piena di rondini. Un Pegaso, condotto da un bimbo e attaccato ad un aratro lo affianca insieme a delle fanciulle che danzano al suono di un flauto sotto un sole smagliante, mediterraneo, che con il suo grande occhio, ornato di raggi/spighe, guarda serenamente la scena come fa, del resto, da sotto un albero di arancio, un gruppo familiare che si abbandona alla calma felicità data dallo svolgere attività vitali quali la lettura, la scrittura e l’allattamento. In questo lavoro, non troviamo più la ricercatezza della madre del “Periodo blu”, ma la fisicità, l’immediatezza e l’essenzialità del primo studio a matita fatto dall’artista sull’argomento che fanno assurgere il fondamentale e femminile gesto dell’allattare ad archetipo né più e né meno dei più maschili leggere e scrivere.
Dopo aver esplorato quanto succedeva in Spagna e, soprattutto, in Francia, ritenuta ormai la capitale dell’arte, ci si chiederà cosa accadesse negli stessi anni in Italia e come il tema dell’allattamento venisse trattato dagli artisti. Prima di affrontare il discorso artistico, c’è, però, da fare una premessa di ordine sociologico. Differentemente da quanto si possa pensare, infatti, all’inizio del XX secolo, nel nostro Paese, naturalmente nelle famiglie nobili e alto borghesi , di ceto sociale elevato dunque, la consuetudine dell’allattamento al seno, per esigenze non solo di salute, ma anche e soprattutto sociali ed estetiche, non veniva espletata dalle madri, ma dalle balie. La balia altro non era che una contadina o una rappresentante del personale di servizio che, dopo aver avuto un figlio suo, allattava insieme a questo il figlio dei suoi padroni. Caratteristici erano i vestiti che queste donne generose portavano come giustamente rilevato dalla pittrice inglese Augustine Fitzgerald in un suo dipinto del 1904, eseguito durante un soggiorno a Napoli.
Le suddette ragioni spiegano perché sia così difficile, in un Paese come il nostro, noto per il suo attaccamento alla famiglia, trovare nei dipinti dell’epoca una madre che allatti il suo bambino. Le rappresentazioni della maternità, in effetti, sono tante, come quella del 1921 di Achille Funi ad esempio, ma il bimbo, pur apparendo spessissimo tra le braccia della madre, quasi mai è raffigurato mentre prende il latte da lei.
Il ruolo della donna nella famiglia italiana era e rimase sempre centrale e lo divenne anche di più, se possibile, dopo l’avvento del Fascismo. Seppure originariamente si fosse presentato come progressista sotto il profilo della politica femminile, proponendosi di concedere il voto alle donne che non venne mai accordato, il regime fece di tutto per mantenere la già presente divisione tra i sessi a partire già dall’educazione scolastica dove le classi miste non furono mai ammesse. Il ruolo sociale femminile rimase, come nel secolo precedente, esclusivamente domestico e prevalentemente di madre di famiglia. Per realizzare l’Impero bisognava essere numerosi e giovani; la donna fascista ideale, quindi, doveva avere un fisico prestante che le permettesse di esplicare al meglio il suo ruolo principale, quello di essere madre di tanti figli sani.
Se, dopo la Grande guerra, l’avvento del Fascismo non fosse bastato, un generale “ritorno all’ordine”, riscontrabile anche in arte, legò ancor più se possibile la donna si suoi ruoli tradizionali. Diversi e complessi furono i motivi che originarono il fenomeno che cronologicamente si può situare tra gli anni del primo conflitto e la prima metà degli anni venti. Uno dei componenti del “ritorno all’ordine” fu il così detto “mito della mediterraneità”, invocato a ricordo delle passate civiltà greca e romana e che ne alimentava il sapore antico. Nell’ambito di questo riscoperto Classicismo, il tema della maternità venne spesso visto sia come ritorno al privato, ai valori tradizionali della famiglia che come evocazione di una sorta di Madonna laica come si può ammirare nel precoce esempio offertoci da Gino Severini già nel 1916, seguito, nel 1921, da quello del francese André Marchand (il ritorno all’Antico fu seguito in tutta Europa), dove due donne, sorta di novelle e pagane “Madonne del latte”, sono intente ad allattare.
Terminiamo questa nostro excursus con un’opera firmata da Cesare Breveglieri, un’artista milanese, nato nel 1902. Nel 1930, la sua “Maternità”, esposta alla Biennale di Venezia, gli valse il Pensionato Sarfatti, della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde che gli consentì di recarsi a studiare prima a Roma e a Firenze e poi a Parigi, dove rimase per un lungo periodo, affascinato dalla realtà pittorica là esistente. In quest’opera dove la modernità sembra entrare dalla finestra grazie alle sagome degli alti palazzi cittadini, assistiamo ad un bimbo che prende il latte dal seno di colei che sembrerebbe essere più una balia che la madre mentre quest’ultima, trepidante, non solo assiste, ma è partecipe dell’evento; sembra, anzi, quasi voler portare via il bimbo alla balia per poterlo allattare lei stessa. Quasi un passaggio di consegne, quindi, come poi avverrà a guerra finita, quando le balie spariranno e saranno unicamente le madri ad occuparsi di loro piccoli.