L’ambiente naturale e i prodotti della cultura umana (come i cibi) interagiscono nel costituire quelli che Jean-Robert Pitte chiama smellscapes “paesaggi olfattivi”.
Essi si disegnano a partire dai profumi, intimamente associati all’esperienza che ogni individuo ha dei luoghi in cui ha vissuto o che ha visitato. Ogni luogo lascia, dunque, nella memoria un’indelebile traccia di odori.
Quella che unisce Livio Dalla Ragione alla figlia Isabella è la storia di una famiglia e di un viaggio, attraverso la memoria dei luoghi e i luoghi della memoria, sulle tracce di sentori, profumi perduti e tradizioni scomparse.
Nell’alta valle del Tevere, dove la natura esalta al massimo la sua bellezza e i suoi colori, non lontano da Città di Castello, c’è un paese, San Lorenzo di Lerchi, che lungo un terreno impervio, su una terrazza naturale che volge dolcemente verso il monte di Santa Maria in Tiberina, nasconde un luogo incantato e incontaminato dove il tempo sembra essersi fermato. E’ il “giardino degli alberi perduti”, un laboratorio a cielo aperto della biodiversità e del paesaggio rurale, incastonato in sette ettari di terra, in mezzo a un vigneto, a un vivaio e a una parte di bosco.
Qui i frutti profumano di autenticità e portano nomi buffi, inusuali, evocativi che rimandano al territorio che li ha visti nascere o ad una loro specifica caratteristica e tra i quali vogliamo ricordare la pera Marzarola e quella Ghiacciola e di Burro, la Bugiarda e la Chiappona; la mela del Castagno, la Nasona e quella Pagliaccio. C’è perfino la mela Sòna, ingrediente principe della celebre Rocciata di Assisi, così chiamata perché quando matura, i semi si staccano dall’ovario e scuotendo la mela essa emette un suono singolare. Tra le ciliegie: la Maggiaiola, la Limona e la Bella d’Arezzo; la susina Scosciamonica e quella di Amelia o la San Pietro, dalle proprietà rinfrescanti e dissetanti. Il fico Permaloso deve, invece, il suo nome al fatto di arrossarsi lievemente lungo i lati e alla sua buccia sottile che fa di esso un frutto così delicato da non poter essere manipolato troppo a lungo. Accanto ad esso trova posto il fico Melanzana e quello Gigante dei Frati Zoccolanti, che può arrivare a pesare anche mezzo chilogrammo e il cui nome si ricollega da una parte, alla pianta madre, individuata nel convento di Gualdo Tadino dell’ordine minore francescano e dall’altra è da associarsi ad un’altra funzione dell’albero, da cui si ricava un legno molto pregiato, con il quale un tempo si fabbricavano gli zoccoli per i bambini.
La sensazione è quella di ritrovarsi in un mondo che pensavamo scomparso, immersi in un tempo che si è fermato nel tempo.
Flashback di cinquantasei anni: è il 1961 e Livio Dalla Ragione, personalità ecclettica, antropologo e pittore con un passato da partigiano, si appresta a lasciare Roma per far ritorno nella campagna umbra in cui è nato, deciso a ricostruire il passato di queste terre. Una scelta, la sua, controcorrente per i tempi, visto che sono in tanti ad abbandonare le campagne per andare a vivere in città.
La nostalgia del borgo natio è all’origine di questo viaggio a ritroso che lo indurrà ad acquistare il vecchio podere di San Lorenzo, un casolare del Seicento, che in realtà altro non è che una chiesa romanica abbandonata con annessa la sua canonica. Niente più di un vecchio rudere senza luce né acqua per i tanti che proveranno, senza peraltro riuscirvi, a dissuaderlo dall’acquisto, facendogli notare che “non esiste nemmeno una strada che consenta di raggiungere la proprietà agevolmente”.
Livio non si cura dei consigli ricevuti, non è certo uomo da lasciarsi scoraggiare o intimorire dalle critiche di chi gli da del “matto”; e, infatti, non si limiterà solo ad acquistare il podere ma inizierà a raccogliere oggetti, vecchi mobili, attrezzi da lavoro dismessi, di cui tutti sembrano volersi sbarazzare al più presto. Sono questi gli anni del boom economico per l’Italia e quei manufatti sono considerati dai più simbolo e metafora di un’epoca di miseria e deprivazione che si vorrebbe solo dimenticare.
Non è così per Livio che, al contrario, intravede nei prodotti di quell’epoca appena trascorsa un’anima e vi percepisce una voce. Oggetti che hanno ciascuno una storia diversa da raccontare e Livio ha in mente di raccoglierli per raccontare, per ricucire la storia dei luoghi e il passato attraverso la cultura materiale. Un viaggio nella memoria storica del proprio luogo di origine attraverso gli oggetti d’uso della cultura contadina che tanto hanno da dire su una realtà che va scomparendo e che Livio vorrebbe strappare all’oblio, valorizzare così da poterla tramandare alle nuove generazioni.
Tuttavia, nemmeno questo sembrerà bastargli e gradualmente maturerà in lui la decisione di andare oltre i manufatti per provare a ricostruire la storia della vita rurale e delle sue comunità. Questo desiderio lo condurrà a dedicarsi a quello che per lungo tempo era stato il simbolo e insieme il marchio dell’identità culturale degli abitanti delle campagne umbre: gli alberi da frutto. Ad essi, nel passato, era spesso destinata la parte meno nobile dei campi; per lo più li si poteva trovare ai margini delle proprietà a delimitarne i confini. Erano gli alberi da frutto a fornire il fogliame e il nutrimento necessario all’allevamento del bestiame, a rappresentare un valido rimedio sanitario, a fornire legna per scaldare le case contadine e per costruire i mobili tipici di un artigianato povero eppure funzionale. Rappresentavano, inoltre, una parte importante del patrimonio che le donne portavano in dote quando prendevano marito e la frutta, era anche l’ultimo ricordo della casa di origine che gli immigrati, o le loro mogli e madri, nascondevano tra i vestiti, prima della partenza. Tutte esperienze scomparse negli anni Sessanta.
Eppure un tempo, l’uso gastronomico della frutta era stato molto diffuso: il gusto agro-dolce, in particolare, era apprezzato nella cucina rinascimentale che accompagnava le pere essiccate al baccalà e serviva le mele della vigna, conservate in salamoia, col maiale. Abbinamenti sempre rispettosi della stagionalità e allora era la primavera a conoscere il trionfo dell’insalata di carciofi e mandorle mandolino o delle bruschette con l’olio nuovo, aromatizzate con il succo della mandragola, servite in accompagnamento alle carni.
La frutta, inoltre, veniva consumata anche in purezza, da sola, e durava a lungo come le mele che si conservavano al fresco e al buio nei fruttai ed erano disponibili da ottobre fino a maggio o le pere, consumate soprattutto cotte perché considerate più digeribili. Erano per lo più le varietà invernali di pera a richiedere la cottura e cotte potevano essere consumate anche durante il giorno magari come spuntino. Le si poteva acquistare dai venditori ambulanti, i peracottai, arrostite su uno stecco.
Livio, che ha ben presente tutto ciò, visita gli orti chiusi dei monasteri e dei conventi di clausura, chiede di poter accedere ai giardini delle ville patrizie; trova il modo di consultare erbari e archivi ecclesiastici. Contestualmente legge e rilegge gli antichi manuali di Plinio, Columella e Varrone; trascorre interminabili ore a sfogliare i polverosi quaderni di campagna custoditi nelle case nobiliari. Consulta i testi, ormai abbandonati, delle cattedre ambulanti di agricoltura, molto in voga in Italia a partire dagli anni Venti e che, ancora attive alla fine degli anni Settanta, giravano nei paesi per istruire e spiegare ai contadini, spesso analfabeti, cosa coltivare e in che modo. In seguito allo smantellamento degli Ispettorati agrari, e prima che vadano definitivamente perduti, recupera perfino dalla spazzatura, le lastre fotografiche.
Si affida alla cultura orale contadina, tramandata di padre in figlio e avvicina gli ultimi testimoni di quella civiltà contadina che va scomparendo quasi del tutto.
Frammenti di memoria di una cultura permeata dal rispetto per la natura e i suoi ritmi stagionali, in cui c’era un tempo per tutto. Con tenacia, guidato da un amore profondo per la sua terra, Livio nel terreno che un tempo era l’orto della parrocchia e in cui sono sopravvissuti pochi vitigni, alcuni susini e degli antichi mandorli, inizia a innestare, secondo gli antichi dettami, le antiche piante che va riscoprendo e recuperando, con l’unico obiettivo di riprodurle e conservarle. Le cerca affidandosi all’istinto, alla memoria olfattiva e a una astratta mappa di odori e sapori che lo guidano in un viaggio a ritroso nel tempo e il cui approdo sono i giorni dell’infanzia. E’ il punto di partenza di un’operazione lunga e accurata cui dedicherà il resto della vita e che lo condurrà a ispezionare con la perizia di un detective l’intera vallata, alla ricerca di piante da frutto risparmiate dal “demone” della modernità o abbandonate e, tuttavia, ancora “vive”.
Livio però non è solo nel suo viaggio alla riscoperta delle antiche varietà arboricole della sua terra. La sua passione, infatti, ha contagiato la figlia Isabella. Quando il padre avvia il progetto di recupero degli alberi da frutto, Isabella ha solo cinque anni, ma è cresciuta nel bosco, libera di vagare a suo piacimento in un mondo che fin da subito le era apparso fantastico e in rapporto quasi simbiotico con le piante, tanto da trascorrere parte del suo tempo nascosta, quasi a volersi proteggere, nel cavo di un castagno, di cui ancora oggi dice “avrei voluto farne la mia casa per sempre”.
Un destino, il suo, che in parte si concretizza nel momento stesso in cui inizia a condividere la suggestiva e grandiosa avventura intrapresa dal padre. Un padre che Isabella seguirà per anni, prima di occuparsi, fresca di laurea in Scienze Agrarie, della catalogazione e della classificazione delle piante.
Isabella ritorna spesso con la memoria alla frenetica attività di quegli anni e non è difficile per noi immaginarli, lei e suo padre, percorrere insieme, e molto spesso a piedi, le terre lungo l’Appennino di quella parte dell’Italia Centrale, avventurarsi nei poderi dimenticati o a spulciare negli archivi polverosi i vecchi testi di agricoltura a caccia di piante e racconti perduti, alla ricerca di un qualche indizio o traccia che ad essi possa ricondurli. Livio e Isabella, padre e figlia, su e giù per le valli con la loro cassetta degli attrezzi, dentro la quale non avrebbe mai potuto mancare una macchina fotografica, le forbici per potare e una scorta di bottiglie di acqua, senza le quali sarebbe stato impossibile conservare le talee da innestare nel podere di San Lorenzo.
Diventata agronoma Isabella apporterà alla ricerca del padre un importante contributo tecnico e scientifico. Livio, intanto, continuerà a parlare con i contadini per riuscire a strappargli un ricordo, un profumo, una storia, mentre Isabella, instancabile, catalogherà, classificherà e ordinerà il materiale via via raccolto. Anche lei, naturalmente, ha i suoi informatori sul campo, ma farà anche lungamente ricorso all’arte, soprattutto quella rinascimentale che considera una fonte importante e inesauribile di documentazione. Cerca sui libri di arte, “legge” le volte affrescate dei palazzi e analizza attentamente i quadri dei pittori che avevano lavorato in Umbria tra il Quattrocento e il Settecento, “perché – dice – nelle loro opere entra di sovente la frutta e anche attraverso la rappresentazione pittorica è possibile risalire a varietà di frutta scomparse”. Un lavoro certosino grazie al quale riesce ad attribuire il nome corretto e a restituire la considerazione perduta alle antiche varietà locali.
La grande difficoltà di questo lavoro, non è mai stata quella di trovare le piante, quanto, piuttosto, quella di ricostruirne la vita e la storia.
Insieme, padre e figlia, salveranno dall’oblio circa quattrocentoquaranta piante e centocinquanta varietà arboree diverse tipiche della sola Umbria. Trent’anni di ricerca appassionata che, oltre a consentire di salvare dall’estinzione tante piante e con esse un inestimabile patrimonio biologico e culturale, ha prodotto pubblicazioni, film e documentari, un grande risultato, dunque, che suggerisce a Livio e Isabella la creazione dell’Associazione Archeologia Arborea.
Nel 2007, alla morte del padre, unica custode di questo vivaio-museo che è insieme un’esperienza unica di biodiversità agro-alimentare e patrimonio di inestimabile valore, rimane Isabella. Su di lei ricade l’onere della cura e sempre con lei la “caccia” prosegue.
Le piante custodite nel “giardino dei frutti perduti”, non possono crescere ovunque; sono varietà autoctone coltivate per secoli nei terreni posti lungo il confine di Umbria, Lazio e Toscana. Un passato che rivive solo nel giardino di Isabella per rifiorire ad ogni stagione, perché negli ultimi decenni, con il passaggio dall’agricoltura contadina a quella industriale, le antiche varietà locali, anche in queste regioni, sono state decimate, rimpiazzate da varietà adatte alla coltivazione intensiva che ha spazzato via la maggior parte di questo patrimonio arboricolo, preferendo investire su poche varietà di alberi da frutto in grado però di garantire una maggiore quantità sul piano produttivo.
E’ in questo modo che anche in Italia sono andate riducendosi gradualmente le varietà di frutti e con esse si sono persi quei sapori con cui intere generazioni sono cresciute, come pure gli alberi attorno a cui ruotava e si sosteneva l’economia domestica delle famiglie contadine.
Oggi, avverte Isabella Dalla Ragione, dietro la commercializzazione di alcune varietà si cela il business: si tratta del resto di cultivar registrate, senza considerare che quasi tutti preferiamo acquistare frutti esteticamente perfetti, non “acciaccati”, perché vittime di una forma subdola di autoinganno che ci induce a mangiare con gli occhi prima ancora che con la bocca.
E’ l’uomo, dunque, l’unico e più acerrimo nemico dei frutti antichi, dalle piccole dimensioni ma dalla grande storia. Sono queste, in realtà, le specie che meriterebbero di essere conosciute e tutelate perché il nostro futuro, per essere sostenibile, dipende anche da esse. Piante generose che non smettono mai di produrre e il cui DNA antico le ha rese adatte anche alla coltivazione in condizioni ambientali avverse; senza considerare la loro grande resistenza alle malattie, ai funghi e agli insetti che, tuttavia, possono essere tenuti a bada grazie alla lotta biologica e senza l’intervento di pratiche colturali invasive, quali l’uso dei pesticidi chimici. Inoltre, coltivare tante varietà diverse offrirebbe maggiori garanzie di raccolti costanti, perché ogni cultivar reagisce a clima e malattie in modo diverso e quando pure una pianta non dovesse fruttificare, certamente sarebbe un’altra a farlo.
Per riuscire a custodire questo luogo magico e poterlo far conoscere al mondo Isabella Dalla Ragione ha dato vita alla Fondazione Archeologia Arborea Onlus. La sola passione del resto non avrebbe potuto sostenere a lungo il peso di una così grande responsabilità. Così Isabella insieme ad alcuni amici ed estimatori, con la collaborazione dell’Università degli Studi di Perugia e grazie all’intervento della Fao e della Biodiversity International, tra le più importanti organizzazioni internazionali impegnate nella lotta per la salvaguardia della biodiversità, hanno redatto un progetto innovativo che si lega alla nascita di Fondazione Archeologia Arborea Onlus.
La collezione non ha mai avuto scopi produttivi ma essenzialmente la conservazione delle risorse vegetali e culturali. Dal punto di vista genetico le varietà ritrovate rappresentano risorse potenziali da utilizzare, conferendo perciò alla collezione anche una funzione di serbatoio, per favorire il mantenimento della biodiversità e delle produzioni locali. Forti sono anche le potenzialità in ambito didattico e sperimentale. Le attività legate alla collezione, in particolare l’esperienza di conservazione on farm, oltre a richiamare in loco esponenti di organismi nazionali e internazionali con cui Archeologia Arborea intrattiene ottimi rapporti di collaborazione, sono state anche oggetto di numerosi riconoscimenti ufficiali, senza considerare la notevole risposta mediatica da parte di emittenti nazionali e straniere, saggi, articoli su riviste e quotidiani.
Il podere di San Lorenzo è visitabile su prenotazione da aprile a ottobre, mesi questi in cui è garantita anche l’ospitalità nella Casina degli sposi che è possibile affittare per il proprio soggiorno.
Da novembre è possibile acquistare piante da frutto in zolla nelle varietà coltivate. Come prevede lo statuto di Archeologia Arborea, inoltre i “frutti orfani” si possono anche adottare versando una quota unica di sostegno per entrare a far parte dell’Associazione. Un gesto non solo simbolico: i soci, infatti, oltre a poter scegliere una pianta della collezione acquisiscono il diritto a raccoglierne personalmente i frutti. L’unico onere consiste nel farle visita almeno una volta ogni diciotto mesi, pena la perdita dello status di “genitori adottivi”. C’è poi da rispettare un’antica tradizione dei contadini dell’Alto Tevere che vuole che sull’albero, al momento del raccolto, vadano lasciati tre frutti: uno è per il sole, uno è per la terra e uno è per la pianta.
Molti personaggi del mondo dello spettacolo, scrittori e giornalisti hanno scelto in questi anni di associare il loro nome ad alcune piante e qualcuno si è perfino intrattenuto qualche giorno a lavorare nel frutteto.
Anche le piante, abbiamo visto, sono capaci di scrivere la storia perché la vita delle persone e quella dei luoghi possono essere raccontate in tanti modi diversi. Isabella Dalla Ragione cerca di farlo dando continuità a un’intuizione che fu del padre, portando avanti e sviluppando l’dea di un uomo che non voleva disperdere la memoria dei luoghi e che aveva scelto di farlo attraverso gli alberi da frutto i quali, vivendo centinaia di anni, sono una delle testimonianze migliori della storia, capaci di andare ben oltre le generazioni umane e che proprio per questo non andavano cancellate.