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A Sassari una serata dedicata al mondo immaginifico di Maria Lai

Maria Lai_loc (1)È un mondo popolato di antiche divinità, fatine, esseri a metà fra l’uomo e il dio, personaggi ancora capaci di stupirsi e alla ricerca del significato nascosto dietro ogni segno o fenomeno. È questo l’universo di Maria Lai, che racconta con le sue opere un mondo fiabesco e senza tempo, intriso però dell’antica saggezza delle leggende della sua terra. Perché è proprio nelle cose che non hanno senso che, secondo la novantenne artista sarda, si nasconde l’arte, «quel qualcosa che non è utile ad uno scopo, con cui non si risolvono problemi pratici, ma capace di indicare la direzione per la salvezza». Una definizione migliore di “arte” non la sa dare, e nemmeno le piace parlare della sua opera o darle etichette, ma la sua voce si fa ferma e sicura quando dice che l’arte è un fatto di mistero e illogicità, un fatto religioso, come la morte e la santità, ed è per questo che fa paura.

L’incontro con Maria Lai, intitolato “Tessere il pensiero: il telaio come origine della parola e del ciclo della vita”, è stato inserito in una serie di colloqui organizzati dell’associazione sassarese “noiDonne 2005” con ospiti che abbiano qualcosa di originale e interessante da dire, artisti che operano negli ambiti più diversi ma col comune denominatore di creare un confronto attraverso nuovi modi di narrazione della realtà. Proprio per questo durante la serata la chiacchierata con l’artista è stata intervallata da reading di brani che rispecchiano il suo universo simbolico e sottofondi musicali. Una mescolanza di elementi che è anche il segno distintivo di Maria Lai, maestra nel creare opere uniche mettendo insieme materiali diversi. Ad Ulassai, suo paese natale, nel 1981 le bastarono dei nastri di tela azzurra per creare “Legarsi alla montagna”, un’opera guardata all’inizio con diffidenza anche dagli ambienti artistici, ma poi riconosciuta come primo esempio di quelle installazioni collettive, dove gli autori sono tutti i membri di una comunità, che conquistarono il mondo dell’arte solo un decennio più tardi.

La tela e il filo sono elementi portanti dell’opera dell’artista, che riconosce loro non solo importanza come strumenti di lavoro, ma anche un notevole valore simbolico, «come il rapporto esistente tra filo e pensiero», dice. «Cominciai a lavorare con i fili fin da bambina – racconta – e mi inventavo delle storie guardando l’immagine che il filo creava cadendo a terra. Da grande ripresi quel gioco, ma con una maggiore coscienza data dalla cultura».
Il risultato sono opere dove il ricamo, la favola e la musica si mescolano per dare vita a forme nuove, come nel racconto “Il dio distratto”, il cui protagonista sceglie di abbandonare le sue sembianze divine per assumerne di umane e insegnare agli uomini la capacità di sognare. Così anche le janas, fatine create dalla mano del dio, vogliono essere umane e donne e vivono nell’attesa che le donne vere arrivino a popolare l’isola in cui vivono. E, quando finalmente arrivano, le convincono ad abbandonare i lavori pesanti per dedicarsi alla tessitura, come novelle Aracne, capaci di creare con la loro arte un mondo di fili colorati che sembra prendere vita. Così come il filo, anche il telaio è elemento essenziale dell’arte di Maria Lai, ma ci tiene a precisare che «non si tratta di quei telai che creano la tela, ma di quelli che la disfano, perchè sono metafora del mondo e una risposta al tempo in cui viviamo».

Gli elementi della favola del dio si intrecciano per dare vita ad un’entità nuova, quella del poeta, mescolanza di uomo, donna e divinità e perciò capace, con la sua arte, che altro non è se non parole che si dispiegano proprio come un filo, di contenere nel piccolo spazio della coscienza la vastità dell’infinito.
È così che l’arte, secondo Maria Lai, diventa patrimonio comune, proprio come nel calcio. «Il gol arriva come qualcosa di inaspettato, di miracoloso – dice – ma quando arriva mette in condizione di non sentirsi più soli: ci si abbraccia, si urla, si esulta. Questa è l’arte e l’opera d’arte non esiste senza il gol».
Anche per questo l’artista sarda ha sempre rifiutato la legge della mercificazione dell’arte, che definisce «un grande inganno per l’umanità». Scherza dicendo di provare una certa invidia per le opere d’arte battute all’asta per milioni di euro, ma ammette poi la sua amarezza: «L’artista non ha niente a che fare con il mercato. Questa commercializzazione dell’opera d’arte assomiglia al voler mandare una bella ragazza a prostituirsi. Per evitarla bisogna che intervenga la politica, sia con leggi mirate che con programmi scolastici adeguati».

A Maria Lai interessano molto i giovani e le piace parlare con loro, quasi in un dialogo fra passato e presente. Vuole imparare da loro, capire cosa gli piace e li interessa, perché in loro sta la speranza per il futuro. E ricorda a questo proposito le parole di Salvatore Cambosu, suo amico e guida, colui che la incoraggiò nella scelta di lasciare l’isola e continuare con l’arte, dopo un periodo di delusione: «Se l’arte non aveva il potere di fermare le guerre – ricorda l’artista ripensando commossa agli anni della guerra trascorsi a Venezia – non volevo più occuparmene, ma Cambosu mi spinse a ripartire e ricominciare, ridandomi anche le mie origini sarde. Diceva che per sentirsi orgogliosi di essere sardi bisogna saper scavare e trovare l’oro sepolto sotto la roccia millenaria della Sardegna. Perciò bisogna insegnare ai giovani a scavare per trovare quell’oro».

L’isola le è sempre rimasta dentro nonostante la lontananza e il suo essere sarda l’ha forse aiutata durante gli anni della guerra nel rifugio lagunare: «Essere sardi significa essere solitari, un po’ selvatici – dice – e all’epoca era una cosa che poteva tornare utile. Quello che ho sempre portato con me della Sardegna è un disperato bisogno di libertà, e anche quando sono tornata non è stato per nostalgia, ma per la necessità di sentirmi straniera in un luogo. La Sardegna era quel luogo, dal momento che non la conoscevo. Mi hanno sempre affascinato i luoghi che non conosco e le cose che non capisco». La necessità di fare qualcosa per la comunità in cui era nata si concretizza in “Legarsi alla montagna”, un progetto che coinvolse la comunità di Ulassai dopo aver vinto le resistenze di tutti, in primo luogo del parroco che «ogni domenica non mancava di dire nelle sue prediche che avevo profanato il nastro della madonna e che quindi avrei profanato anche la comunità. Io però volevo provare ad eliminare quell’aria di depressione che aveva sempre avvolto la gente del paese, portandola alla continua maldicenza e ai rancori a causa della millenaria solitudine. In questo furono di ispirazione le leggende dei pastori e mi stupì scoprirle così vicine al concetto di arte».

La storia della bambina che, andata nella montagna a portare da mangiare ai pastori si era rifugiata con loro in una grotta per sfuggire ad un pauroso temporale e si era salvata solo seguendo un nastro azzurro apparso improvvisamente nel cielo, mentre i pastori rimasti nella grotta con le loro greggi erano rimasti travolti dal suo crollo, riassume il concetto stesso di arte: qualcosa di inutile, ma che indica la via della salvezza. Soprattutto in un mondo come quello in cui viviamo oggi. Come dice Maria Lai, «nell’arte non c’è niente da capire, ma bisogna solo seguire il ritmo. Solo così si possono evitare le guerre».

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