“Si vive di sottrazioni. Si vive sommando le occasioni perdute, gli incontri mancati, gli amori finiti, le ore e i giorni e le notti consumate nell’attesa. Alla fine ciò che resta è una montagna di cose che non ci sono state.”
Così scrive l’autrice italiana Barbara Garlaschelli nel suo libro Alice nell’ombra (2002), in cui racconta la storia di Alice, donna solitaria, rabbiosa, enigmatica, distruttiva. Il romanzo narra della sua infanzia difficile e solitaria dopo l’abbandono del padre, del rapporto conflittuale con la madre, dell’incapacità di reagire alle ingiustizie, della paura. Tante persone, esattamente come Alice, vivono con recriminazione alcune situazioni, fissando la loro attenzione su un “passato che poteva essere diverso” piuttosto che concentrarsi per creare un miglior futuro e delle migliori occasioni.
La scrittrice, laureata in Lettere moderne all’Università Statale di Milano, si racconta nel suo romanzo autobiografico Sirena (mezzo pesante in movimento), del 2001, appassionando il pubblico sulla difficile esperienza di vita di cui è portatrice:
“[…] I ricordi sono tutti lì e risplendono come schegge di vetro. Fanno anche lo stesso male ad afferrarli. Ti fanno sanguinare. Ma da qualche parte si deve pur ricominciare, perciò prendi i ricordi e li passi al vaglio, impietosamente, uno per uno. E quando hai finito, ti accorgi di essere ancora qui. Viva e tenace, senza un grammo di entusiasmo meno rispetto a prima. E con una paura fottutissima. […]”
Costretta fin dall’età di sedici anni su una sedia a rotelle a causa della rottura di una vertebra, in questo libro ha descritto il suo percorso di vita nei dieci mesi successivi all’incidente, facendolo questa volta con parole grintose, tenere e ironiche, parole di una donna che ha ormai piena consapevolezza della sua situazione e ne prende atto con fermezza d’animo e con la volontà di andare avanti, sempre e comunque, senza nostalgia, senza pensare a “come sarebbe stato”, senza rimpianti per ogni occasione persa ma, al contrario, concependo la difficoltà come un’occasione di rinascita o come fonte di risorse da scoprire.
Sono tante le testimonianze di persone che, a seguito di una disabilità acquisita, ci dimostrano che nonostante tutto si può continuare a vivere, ad amare, a fare progetti per il futuro. Le reazioni e i tempi necessari all’accettazione della nuova situazione sono però molto soggettivi. Molto spesso la reazione immediata è l’isolamento, la sfiducia, la rabbia, l’angoscia, sentimenti causati da un conflitto interiore generato da un’immagine di sé modificata. Infatti mentre l’immagine interiore rimane pressoché la stessa, quella esteriore non è più riconosciuta e la persona fatica ad accettarla. Il fatto di non riconoscersi più porta spesso a sentimenti di angoscia e paura di non essere accettati dalla società, in quanto la disabilità comporta necessariamente una compromissione della capacità di svolgere particolari attività.
In alcuni casi di disabilità acquisita come una amputazione, l’ausilio di una protesi può ridurre almeno in parte gli impedimenti dati da una perduta autonomia personale. Questo aiuto però si scontra con la difficoltà che talvolta incontra la persona colpita da disabilità nel dover accettare il corpo estraneo, nel dover imparare ad usarlo e nel dover fare i conti con il disagio e l’imbarazzo a mostrarsi in pubblico, per paura di essere osservati ed etichettati come diversi. In questi casi il proprio corpo, anziché essere vissuto in maniera positiva come fonte di piacevoli percezioni e sensi, viene scisso dalla mente ed identificato come il luogo peculiare della menomazione e di conseguenza rifiutato.
Il percorso che si deve effettuare in questi casi è molto lungo e complesso, indirizzato alla riappropriazione del proprio corpo ed all’accettazione di sé. In queste situazioni è di fondamentale importanza il sostegno e la presenza della famiglia, la quale può operare affinché la persona riacquisti il più alto livello di autonomia possibile e ristabilisca la propria identità. Sono tanti coloro che riescono a trarre dalla propria disabilità delle lezioni di vita, scoprendo tutte le risorse nascoste che possono sfruttare per il loro graduale reinserimento nella società, attivandosi e partecipando talvolta in azioni solidali attraverso associazioni o servizi di volontariato.
Il grado dell’handicap di una persona non è legato solo alla sua disabilità o alla situazione psicologica in cui versa. Molto spesso infatti deriva da un fenomeno prettamente sociale. La disabilità è una condizione di svantaggio che subentra, a seguito di una menomazione fisica o mentale, con l’incapacità di svolgere delle attività in una particolare area (fisica, psichica o sensoriale). L’handicap è invece un fenomeno sociale, connesso ai fattori culturali, ambientali e sociali di una comunità. L’handicap è dato quindi dallo stato di efficienza di una persona rapportato alle aspettative di efficienza della società. Troppo spesso si tende infatti ad identificare il soggetto con la sua menomazione, come se quest’ultima fosse talmente invasiva da impedire agli altri di vedere le restanti qualità della persona interessata, come se questa non avesse un’identità, delle potenzialità, delle attitudini, ma fosse interamente “costruita” intorno alla sua menomazione. Questo atteggiamento sta alla base delle barriere che le persone con disabilità incontrano nel corso della loro vita. Per barriere si penserebbe subito a tutti gli ostacoli di tipo architettonico presenti nel territorio, come le scale per chi si sposta con la sedia a rotelle o il semaforo senza segnalazione acustica per un cieco. Ma le vere barriere sono quelle psicologiche, legate alle reazioni e all’accettazione dell’ambiente di fronte alla disabilità. Il livello di handicap non dipende solo dalla menomazione iniziale ma soprattutto dal contesto socio-culturale in cui la persona si trova a vivere la propria condizione.
La persona interessata da una menomazione sarà sicuramente esposta ad un numero più alto di rischi rispetto ad un normodotato, per questo rivestono grande rilevanza l’informazione e la tempestività degli interventi educativi, psicologici, sociali, riabilitativi, ma soprattutto che questi interventi siano concepiti pensando all’intera famiglia e non solo alla persona portatrice della disabilità. L’obiettivo principale deve essere quello di ridurre al minimo il grado di handicap e di far leva sulle risorse, sulle parti sane e le capacità residue, di offrire possibilità di sviluppo e crescita personale alla persona nella sua interezza affinché possa costruire o ri-costruire la propria identità non solo sulla sua disabilità, ma arricchirla in un insieme più vasto di elementi costitutivi.
Molte persone arrivano a convivere con la propria disabilità in maniera proficua, traendo soddisfazione da quanto fanno in relazione alle proprie potenzialità e aspettative. Grazie alla determinazione, all’orgoglio e al sostegno dei familiari queste persone continuano ad inseguire con perseveranza i loro obiettivi, riuscendo a vedere il valore delle abilità residue che gli appartengono, e sentendosi gratificati. Il recupero della propria identità è un aspetto fondamentale per il benessere della persona; se si riuscisse a fare una buona valutazione delle capacità e delle risorse della persona disabile, lavorando sull’ area potenziale di sviluppo, sarebbe possibile attivare quel meccanismo chiamato di compensazione dell’handicap, cioè quel procedimento che si attiva quando la persona disabile investe le proprie energie e i propri sforzi per riuscire in un’attività che generalmente appartiene ad un’area non implicata nella disabilità.
Nei discorsi di molte persone regna molto fatalismo: “E’ tutta colpa del destino, non si può cambiare quello che è successo”. In realtà i cambiamenti bisogna volerli, cercarli, bisogna lottare per raggiungere quelli che sono i nostri desideri, i nostri sogni, i nostri sentimenti più intimi, le emozioni che caratterizzano la natura del nostro essere. Aspettare non sempre è sinonimo di perdere le occasioni; a volte con la pazienza quelle occasioni si riesce a ritrovarle.
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