Profughi
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La precarietà per il popolo iracheno è ormai diventata uno stile di vita. La guerra, infatti, ha prodotto uno dei più grandi esodi del Medio Oriente, dopo quello palestinese del 1948, e molti dei profughi hanno trovato rifugio presso i Paesi arabi limitrofi, in particolare Siria e Giordania, che ha accolto un numero imprecisato di persone che va dalle 450 alle 750 mila. Non avendo però il Paese aderito alla convenzione Onu sui profughi del 1951, essi sono considerati “ospiti”, il che nega loro il diritto alla salute, allo studio e al lavoro, e qualsiasi violazione viene sanzionata con l’espulsione.

Secondo i dati 2010 forniti dalle istituzioni giordane, gli iracheni presenti nel Paese sarebbero circa 450 mila, di cui solo 50 mila godono dei programmi di assistenza Onu e delle ONG internazionali. Chi fa maggiormente le spese di tale situazione sono le donne, spesso vittime di violenze e abusi. Per portare l’attenzione su questo tema, “Un ponte per…” ha organizzato a Roma un seminario sulle rifugiate irachene che è parte di un progetto pluriennale più ampio di assistenza ai circa due milioni di profughi presenti in Giordania e Siria, per rispondere ai bisogni socio-sanitari della comunità irachena, con particolare attenzione alla popolazione femminile. Tra i successi del progetto, l’inaugurazione lo scorso ottobre in Giordania di un’unità medica mobile per fornire assistenza sanitaria e medicinali gratuiti agli abitanti delle zone più povere delle aree limitrofe della capitale e del nord del Paese.

Partner del progetto è l’Unione delle Donne Giordane (JWU), un’organizzazione di attiviste giordane che dal 1974 lotta per il riconoscimento dei diritti umani nel mondo arabo, in particolare delle donne, proteggendo quelle vittime di abusi e fornendo loro assistenza sanitaria e legale, oltre a promuovere campagne di informazione sul tema. La direttrice, Nadia Shamroukh, è stata l’ospite d’onore del seminario e ha portato la sua esperienza raccontando la storia di molte donne irachene, private della possibilità di condurre un’esistenza dignitosa.
«Le parole chiave – dice Nadia – sono protezione e prevenzione, da portare avanti attraverso una serie di campagne di informazione e sensibilizzazione. Siamo riuscite ad aprire la prima hotline in Giordania, coordinata dalla sede di Amman della JWU, alla quale convergono segnalazioni di abusi, violenze o richieste di aiuto, a cui è seguito, nel 1996 uno sportello per le donne e, nel 1999, il primo centro, ora fatto di 6 stanze, mentre stiamo lavorando all’apertura di un altro. I centri non sono solo per le irachene, ma anche per le donne giordane e di altri Paesi, arabi e non, che vivono in Giordania e sono vittime di abusi e violenze». La JWU, infatti, ha un respiro ampio centrato sull’intervento in favore della riforma delle leggi di famiglia (divorzio, custodia e tutela, ecc.) in cinque paesi (Giordania, Libano, Siria, Egitto e Palestina) e quindi contro la discriminazione delle donne nei contesti culturali e giuridici dei Paesi arabi del Medio Oriente, attraverso la promozione dei movimenti delle donne a livello regionale, per realizzare una vasta campagna di studio, sensibilizzazione e azione pubblica che porti alla riforma della legislazione sulla famiglia nella regione. «Le donne – come ha sottolineato Nadia – non sono separate dalla vita sociale, politica ed economica di un Paese, perciò, per liberare la donna, è necessario liberare prima la società, lavorando su entrambi i livelli contemporaneamente. La legge di famiglia in Medio Oriente è basata sulle religioni. Ogni comunità, sia essa musulmana, cristiana o ebrea, si basa sulle regole fissate dalla propria religione di appartenenza. Adesso anche in Iraq, dove in seguito alla guerra la legge laica che vigeva è stata sostituita da quella settaria. Per questo abbiamo creato un network arabo di 9 Paesi che lavora sulla legge civile, ma bisogna prima creare Paesi civili, cioè liberi da conflitti e costrizioni».

Si stima che il numero dei beneficiari diretti del lavoro della JWU in Giordania sarà di circa 20 mila persone, con l’obiettivo di contribuire ad un miglioramento generale delle condizioni di salute dei rifugiati che non hanno accesso alle strutture ospedaliere e a una più completa integrazione con la comunità ospitante, favorita dalla condivisione di servizi sanitari ad hoc e forniti in loco, che dovrebbe portare alla prevenzione di attriti sociali e conflitti interni alla comunità. «Pensiamo ad un progetto per la salute delle irachene che non possono frequentare la scuola pubblica giordana – ha detto Nadia – e devono pagare per beneficiare delle strutture sanitarie. Non sono solo le irachene ad essere in questa situazione, ma anche le palestinesi (circa 300mila). Le cliniche hanno come target le donne abusate che non vogliono parlare dei loro problemi in un contesto ufficiale, sia che si tratti della polizia, che di una clinica pubblica».

«In tema di violenza sulle donne – ha constatato Nadia – la Giordania ha risentito molto della globalizzazione, soprattutto per quanto riguarda la tratta delle donne, con la scoperta, tre anni fa, di organizzazioni in questo senso nel Paese, che prima non esistevano. È un fenomeno nuovo e si sta lavorando per arrivare ad una legge che lo preveda come crimine».
Una piaga che invece in Italia è presente da tempo, come ha ricordato Oria Gargano, fondatrice di “Befree”: «Il traffico di esser umani, sia per fini sessuali che lavorativi, è un fenomeno presente in Italia fin dalla fine degli anni ’80, perché da noi esisteva un potenziale mercato, sia nel campo della prostituzione che dei lavori agricoli e delle fabbriche. La legge del 1998 prevede percorsi di inserimento sociale e lavorativo per persone vittime di sfruttamento, ma ciò si scontra con politiche migratorie molto dure che spesso costringono alla clandestinità. Molti in Italia non vorrebbero che i figli dei clandestini frequentassero la scuola o andassero negli ospedali, come in Giordania, e in diversi casi i figli dei clandestini non possono essere registrati all’anagrafe. In Italia le norme per sfuggire allo sfruttamento sessuale esistono, ma non c’è molta attenzione verso questo fenomeno, nonostante nel nostro Paese, al contrario di altri, gli sfruttatori della prostituzione sono anch’essi italiani. Le donne in Italia non godono di una cultura molto favorevole al rispetto. Il nostro diritto di famiglia, del 1975, ha ristabilito i ruoli, dal momento che prima il potere del padre era quello dominante. Oggi però si è arrivati al paradosso di donne che rivendicano la loro emancipazione delegando la cura dei figli o degli anziani a lavoratrici straniere». Un problema, quello dei domestic workers, di cui si occupa anche la JWU, a causa della violazione dei diritti di cui tali persone soffrono, viste come schiavi non solo nel mondo arabo, ma in generale. Una situazione da cambiare ovunque, per evitare che la precarietà in ambito lavorativo comporti anche una precarietà dell’esistenza stessa.

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