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In Sardegna la guarigione ha da secoli, foss’anche millenni, le sue ragioni e le sue regole, semplici e comunitarie. La cura sull’Isola di qualche decennio fa aveva inoltre un fondamento democratico, era di facile accesso a tutti, specie quella procurata per mezzo di guaritrici, guaritori ed erbarias.
– Bai de tziedda po su mali a sa conca… – Vai da zietta per il male alla testa. E la zietta di turno, materna, morbida come un cuscino, confortante come la mollica del pane, avrebbe fatto passare il mal di testa, il volta stomaco, i furuncoli, lo spavento, il male al piede, all’orecchio o all’occhio.
Il fondamento democratico era dettato forse dal fatto che la malattia, pur se sofferta da un solo individuo, era in grado di far ammalare l’intero gruppo, e doveva essere sanata rapidamente.
Le regole da rispettare erano immediate e di facile comprensione per il gruppo. Erano tre. Insovvertibili. Originarie. Da tutti condivise.
Le regole della guarigione in Sardegna
In fatto di guarigione vigeva la regola della gratuità, reciprocità e fiducia.
Le guaritrici ed i guaritori in Sardegna, per lo svolgimento della propria mansione sociale non percepivano e non percepiscono denaro. Era una regola tacita e nota a tutti. Tanto è vero che per diventarlo, guaritrici o guaritori intendo, si era soggetti a una selezione piuttosto ferrea. Solo alle donne, più di rado agli uomini di buon cuore, dotati di sangue forte, disponibili, venivano regalate le tecniche e le parole. Veniva regalato il tesoro della cura, che pure era un onere non da poco.
Nonna Francesca, la prima guaritrice che ho avuto la fortuna di frequentare, me lo disse subito: -Non puoi dire di no. Se qualcuno ha bisogno di te tu devi esserci. A qualsiasi ora. In qualsiasi condizione. È una regola, la prima regola.
La seconda regola riguarda la reciprocità. È vero che le medichesse non venivano retribuite con l’uso di denaro, che per altro si riteneva inficiare il buon esito della pratica, ma sarebbe stato impensabile non restituire il favore. Lo si poteva fare immediatamente, portando con sé un dono, o nel tempo, prestando un qualsiasi favore alla donna o all’uomo che guarivano. La reciprocità è d’altronde uno dei fondamenti della società sarda, valida per i lavori agricoli, pastorali, domestici e per i rapporti più eterei, quelli che mettevano in rapporto il sardo con i santi. Prendete ad esempio i pani a loro riservati, ai santi intendo, o i dolci. Venivano offerti al beato di turno ed in cambio ci si aspettava (o piuttosto ci si augurava) che lui avrebbe restituito il favore, esaudendo la richiesta ricevuta. Di salute, di ricchezza, di fortuna, di fertilità.
La terza regola si lega alla fiducia e questo precetto ha stretto rapporto con l’efficacia delle cure. Ancora Nonna Francesca molti anni fa mi disse che se non si credeva e dunque non ci si fidava della cura tradizionale alla quale ci si sottoponeva, era meglio lasciar stare visto che questa non avrebbe funzionato. Allora non capii, ora mi sembra piuttosto logico. Tutto merito dell’influenza che il nostro sistema centrale ha sulla guarigione. Per saperne di più ti consiglio di leggere “La speranza è un farmaco” ed “Effetti placebo e nocebo” di Fabrizio Benedetti professore di Neuroscienze all’Università di Torino e membro dell’ Istituto Nazionale di Neuroscienze (INN).
Il malocchio
Il male che ammalava veniva da fuori: non lo si chiamava virus, non lo si chiamava batterio, ma lo si chiamava malocchio. È bene dire che il malocchio non è prerogativa sarda, ma diffuso democraticamente su tutto il territorio mediterraneo. In Sardegna ha comunque trovato terreno fertile. Questo non poteva attecchire se le difese erano alte: per mantenere tali quelle che noi oggi diciamo difese immunitarie, era fondamentale vivere una vita serena, sana, impegnata nel lavoro, no essi sbeliau (non essere esageratamente spensierato), ma soprattutto vivere una vita protetta per mezzo di parole, i brebus, gesti, ed amuleti che potevano consistere in veri e propri gioielli o in più economiche erbe.
Gli elementi della cura magico terapeutica in Sardegna erano appunto questi: brebus, le parole, dette anche pregadorias, oratziones, paraulas, l’acqua origine della vita, custode del passato, del presente e pure del futuro e le erbe o semi.
Nonna Francesca, custode delle parole
“Susanna at fatu Anna, Anna at fatu Maria, Maria at fatu Gesus, s’ogu pigau non ci siat prus”
Francesca era una guaritrice. Guariva il malo occhio con l’uso di acqua, olio e parole. Per quanto ritenesse d’operare all’interno del sistema religioso cristiano (si vedano le parole, in alto, che citano Anna, Gesù e prima ancora Susanna, ipotetica bis nonna di Gesù) era depositaria di gestualità e ritualità pagane che per mezzo dell’acqua e parole riscontravano e curavano un male invisibile.
Dopo una chiacchierata più o meno lunga, in base alla conoscenza precedente che aveva della persona, Francesca diagnosticava la presenza del male e solo allora lo curava.
La diagnosi avveniva osservando come l’olio reagiva in contatto con l’acqua. Quando le gocce del liquido grasso rimanevano aggrappate alla superficie del piatto pieno d’acqua o pure quando salivano a galla, ma unendosi e disegnando forme insolite, la medichessa riteneva che il male fosse presente e con l’uso della parola lo eliminava. La formula sopra riportata con le dovute personalizzazioni che rimarranno private, per Francesca non doveva essere un segreto.
– Tanto la potrai usare solo quando io non ci sarò più. E ce ne vuole ancora un bel po’ di tempo
– mi disse. Un vero peccato che quel tempo sia trascorso.
La porta di Francesca, nonna d’anima mia e di molte altre donne, era sempre aperta. Aveva un grosso seno e fianchi larghi, la camminata stanca ed una risata squillante. Era un poco medichessa, un poco psicologa, un poco saggia, un poco madre, un poco strega. Era in equilibrio. Per sapere altro su nonna Francesca puoi leggere uno dei miei libri: Est Antigoriu, nel quale parlo anche di lei.
Elisabetta Lovico, ispiridada ed erbaria
Elisabetta Lovico era orgolesa, e Joyce Lussu, che la incontrò nel 1952, di lei disse che era una donna intera. Perché di quei tempi (e pure di questi ahimè) era facile che le donne fossero spezzate. Non lei: aveva autonomia, autorità, identità. Era una ispiridada e una erbaria. Il che si traduce facilmente in “vissuta da spiriti”, tre per la precisione, e conoscitrice delle erbe.
Curava, ritrovava gli oggetti, presagiva il futuro. Una sibilla, una tiina come probabilmente si era definita.
L’erba che più di altre usava era la verbena officinalis, alta e dai fiori piccoli, ma conosceva tutte le erbe utili a molti rimedi. La cercavano da molti paesi vicini, e in molti la consideravano una zia buona, in grado di portare conforto, guarigione e consiglio.
Non ho mai conosciuto Elisabetta Lovico, ma dopo aver letto “Sibilla Barbaricina”, di Raffaello Marchi, mi è sembrata nettamente più vicina.
Santino Melis, guaritore
Guaritrici non sono solo donne, ma pure uomini. Nando Cossu nel suo “A luna calante” ricorda che sono in netta minoranza, ma non totalmente assenti. Santino Melis è stato un guaritore che in età avanzata si è appassionato alle erbe. Ha imparato ad usarle consigliandone l’uso anche a molti di quelli che diventarono suoi pazienti. Si avvicinò al mondo delle erbe per curare alcuni suoi problemi di salute, diventandone presto fan e sostenitore. Con le sue miscele di erbe fu in grado di curare problemi ai capelli, problemi d’asma o di obesità, di circolazione, patologie al fegato e di pressione arteriosa, tosse, anemia e quant’altro.
Lascia in eredità il suo ricettario intitolato “Piante Officinali nel territorio di Quartu Sant’elena. Medicina popolare – Le mie conoscenze” dal quale riporto il rimedio contro gli stati ansiosi.
Piante utili: arancio, biancospino, melissa, iperico, salvia, tiglio, timo.
Preparazione: mettere a macero un paio d’ore prima una o più piante indicate in acqua fredda. Mettere poi mettere a bollire in un litro d’acqua 50 gr o15 gr di droga a seconda che si stiano usando piante fresche o secche. È comunque bene mantenere le proporzioni fino al raggiungimento dei 50 gr o 15 gr totali.
Lasciare a riposare l’infuso per almeno due ore, colare e mettere in bottiglia. Posologia: tre tazze al giorno, 20/30 minuti prima dei pasti.
Chiudiamo questa brevissima passeggiata nella terra delle medichesse, erbarias, ispiridadas e guaritori ricordando che di loro molto altro resta da dire. Del loro rapporto con le erbe che spesso venivano cantate o abbrebadas ad esempio. O della loro ottima conoscenza dei principi fito terapici delle piante ma pure della anatomia umana. Non è un caso inoltre che le medichesse fossero e siano incredibili conoscitrici dell’animo umano, un buon mix fra sagge e psicologhe. Perché la loro filosofia è chiara: non si cura il corpo senza aver avuto attenzione nella cura pure dell’animo. Perché l’uno vincola eternamente l’altro.
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