Nel 2009 ho realizzato un libro, Le rotte della musica (Ianieri Edizioni, Pescara), costruito per mezzo delle domande rivolte ad ottanta tra musicisti e operatori culturali dell’area mediterranea, per mettere in evidenza come il canale di comunicazione offerto dal mare e le distanze ridotte, avevano permesso nei secoli contatti reciproci tra le culture e come la presenza di questo mare circoscritto, avesse poi influito sulle varie storie musicali dei protagonisti. Quella che segue è una sintesi – riveduta e ampliata – tra l’introduzione e le conclusioni tratte alla fine del volume.
Il Mediterraneo, nel corso dei secoli, è stato solcato da uomini alla ricerca di novità e conquiste, animati dal desiderio di conoscenza e di dominio. Il mare è stato, allo stesso tempo, un confine e un punto di unione per i popoli che si sono affacciati sulle sue coste. Un mare piccolo, da attraversare in pochi giorni, le isole, come porti per scali intermedi.
I linguaggi si mescolano in modo reciproco e inarrestabile, i popoli si conoscono e, altrettanto naturalmente, si intrecciano. Ciò non vuol dire che i rapporti siano stati sempre pacifici, anzi: basta guardare un qualsiasi telegiornale per rendersi conto di quante situazioni di tensione e guerra aperta ci siano ancora oggi, di quale sia il carico di disperazione che spinge persone a tentare di attraversare, in modo spericolato e spesso fatale, le acque del Mediterraneo.
Lo stesso è successo per secoli: a partire dalle incursioni commerciali dei fenici e dalle colonie greche alle conquiste romane; dall’espansione araba alle crociate. Fino alla scoperta dell’America, il Mediterraneo è stato il centro del mondo. Ma anche nei secoli successivi ha continuato ad essere un collegamento veloce per tagliare distanze, per portare, e spesso imporre, il proprio bagaglio culturale ed espressivo.
Una sedimentazione di lingue e usanze, di suoni e colori durata millenni: un sostrato comune, forte quanto le differenze, nascosto e sopito ma presente in tutte le regioni bagnate dal mare. Gli artisti che hanno vissuto e lavorato sulle coste del Mediterraneo hanno attraversato, nelle espressioni e nelle esperienze, il confine imposto dal mare e dalle proprie tradizioni, senza rinnegarle, e hanno sommato linguaggi estremamente diversi tra loro per dare vita a nuovi incontri e a possibilità di sintesi tra i rispettivi punti di partenza. Incontri culturali e relazioni tra linguaggi, proprio nel momento in cui a livello politico, militare o commerciale avvenivano lotte sanguinose, rivolte all’annientamento degli altri popoli. È un processo in atto da sempre, velocizzato in maniera esponenziale dall’avanzare delle tecnologie e dalla sempre maggiore rapidità degli spostamenti: il confronto tra le culture si è sviluppato nei secoli precedenti in modo meno consapevole e più spontaneo.
La migrazione forzata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, alla fine del quindicesimo secolo, ne è un esempio: è impossibile non immaginare come la loro cultura e le loro tradizioni si siano riflesse e abbiano influito su quelle dei popoli che sono stati interessati, volenti o nolenti, dal percorso seguito dai marranos e dai moriscos. Il percorso seguito nella seconda metà del secolo scorso indica come i musicisti, da un certo punto in poi, abbiano ricercato soluzioni che tenessero conto di influenze diverse, di presupposti e stimoli in una sintesi continua. Dalla seconda metà del ventesimo secolo si è affiancata alle diverse tradizioni una nuova intenzione, quella cioè di poter dare vita in modo cosciente ad esperienze di sintesi e incontro. La differenza rispetto agli incontri culturali del passato è infatti nella decisione consapevole e, per certi aspetti, razionale del singolo musicista che attraversa il confine delle tradizioni e degli orizzonti per aprirsi a culture diverse, senza essere costretto da vincoli storici o geografici. Il risultato è nella pratica di molti jazzisti dell’area mediterranea: la loro musica usa come ingredienti le sonorità tipiche delle varie regioni, se ne appropria con la vocazione “invadente” del jazz, con la sua abilità nel mescolarsi e nello sparigliare le carte. Incontri, influenze, approcci differenti e collaborazioni: tante soluzioni, a seconda dei momenti e delle nazioni; linguaggi nuovi, spesso in aperta e felice contraddizione, pronti ad accogliere improvvisazione e bagagli espressivi coltivati per millenni. Nelle pagine seguenti cercheremo di entrare in contatto con musicisti, organizzatori, fotografi ed altri protagonisti del mondo della musica nel Mediterraneo.
Per la partenza abbiamo, forse, una scelta obbligata: Django Reinhardt. Il punto di vista cronologico, certo, ma anche e soprattutto l’importanza del personaggio, il suo atteggiamento musicale e la sua capacità di sintesi, rendono Django il capostipite del percorso seguito dai jazzisti moderni, in particolare mediterranei: le esperienze di apertura espressiva e stilistica avvenute a partire dagli anni Sessanta, hanno messo a disposizione gli strumenti per raccogliere e sviluppare la lezione di Reinhardt e coinvolgere in un incontro, nuovo e paritario, le tante musiche del Mediterraneo.
Incontri, influenze, curiosità sono diventate qualità necessarie per i musicisti che si muovono verso un nuovo sincretismo e mettono in risalto il significato positivo della sintesi e dell’intreccio delle varie differenze stilistiche. La parola “contaminazione” ha un portato fastidioso e, con il suo retaggio sottilmente negativo, mette in mostra come il Novecento, da una parte, e la società occidentale, dall’altra, pretendano una loro centralità nella storia del mondo. Quanto è avvenuto per mezzo di una pratica secolare di incontri e scontri dimostra, invece, in modo lampante la necessità dei popoli e degli artisti di entrare in contatto tra loro, di conoscere, di condividere. Gli effetti di questo percorso si ritrovano in tante esperienze fertili di artisti attenti alla necessità di trasmettere storie ed emozioni in equilibrio tra tradizione e personalità e scavo nelle musiche del passato: sono questi e tanti altri gli elementi che accomunano le loro vicende e che sono alla base delle soluzioni percorse.
Il principio dell’unità e dell’unicità della cultura mediterranea, affermato da Akim El Sikameya con il progetto Med’Set Orkestra e riportato nel testo dalle sue parole, si pone come paradigma di tante possibilità espressive. La pratica dell’incontro, da sempre viva nei secoli tra le varie sponde del Mediterraneo, trova nuova linfa in una visione più democratica dei vari apporti, nell’utilizzo rinnovato, e finalmente valorizzato, dell’improvvisazione. Il jazz diventa una facile chiave di lettura e una valida pietra di confronto per le sue attitudini e per la sua fusione di modernità e suoni ancestrali: un genere che porta alla convergenza di tante esperienze e tradizioni e permette di considerare sotto una nuova angolazione i tanti patrimoni musicali e i relativi punti di contatto da sempre presenti, e crea un nuovo contenitore possibile per esperienze, in pratica già scritte nelle nostre memorie.
L’obiettivo del libro è stato costruire un racconto corale, dunque, assolutamente non esaustivo o definitivo: avrebbero potuto essere coinvolti tantissimi altri musicisti ed altre esperienze artistiche. Il racconto fatto nelle pagine rappresenta un viaggio condotto, con estrema libertà, tra le nazioni che si affacciano sul nostro piccolo e antico mare: semplicemente, un modo per conoscere meglio personaggi e suoni che vivono solo a pochi chilometri dalle nostre coste. Personaggi anche molto distanti tra loro per sonorità ed espressioni, ma legati dalle stesse intenzioni: sintesi originali, profonda curiosità e voglia di mettere a confronto le proprie esperienze. E per seguire le infinite sfaccettature, il racconto ha preso una forma spesso frastagliata: le parole dei protagonisti si accostano in modo repentino per dare risalto a un intreccio di temi e suggestioni e conducono in modo diretto attraverso approcci artistici diversi, attraverso storie e carriere naturalmente costellate di incontri ed esperimenti.