Riguardo alle origini del vitigno Nasco va riconosciuto che non sono del tutto certe, di fatto però non sono poche le tesi che portano a sostenere si tratti di una delle varietà a bacca bianca più antiche della Sardegna, come sostenuto da Carlo Zucchetti. Per quanto la provenienza sia piuttosto misteriosa, secondo alcuni studiosi il Nasco sarebbe giunto sull’isola direttamente dalla Grecia portato dai navigatori Fenici, mentre altri vorrebbero sia una cultivar viticola importata dagli Antichi Romani, presso i quali era già noto e molto apprezzato per le proprietà che conferiva al vino prodotto dalle sue uve. L’ipotesi più accreditata è che il Nasco sia un ecotipo e quel che è certo è che l’uva Nasco è stata riconosciuta autoctona a tutti gli effetti.
La sua storica dimora pare fosse limitata all’entroterra del porto di Karales, la Cagliari dell’Antica Roma, approdo ove si suppone sia giunto sull’isola e da cui ha cominciato a diffondersi, anche se le prime testimonianze accertate sul Nasco risalgono al periodo della presenza in terra sarda di pisani e genovesi, ossia tra il XIII e il XIV secolo, quindi nel periodo successivo al tempo dei Giudicati. Il Nasco raggiunse l’apice del successo nell’800: apprezzato da Vittorio Emanuele III, veniva definito da Amedeo Pettini, capocuoco alla corte dei Savoia, “…come il vero ed unico vino liquoroso per signore aristocratiche e che pertanto il suo posto d’onore non poteva che essere ai ricevimenti di giorno e nei trattenimenti danzanti”; inoltre era presente all’Esposizione Universale di Vienna del 1873 assieme ad altri vini tipici della Sardegna e nelle “Notes sur l’Industrie et le Commerce du vin en Italie” Roma 1889 della Societé Generale des Viticulteurs Italiens a Rome” si trova una citazione che lo annovera tra i più rinomati vini speciali che, a partire dall’antichità, hanno contribuito a rendere celebre la produzione vitivinicola sarda. Il Nasco di Cagliari oltretutto avrebbe, secondo lo studioso Sante Cettolini, il diritto ad essere il re dei vini liquorosi.
L’etimologia potrebbe derivare dal latino muscus, ossia muschio, da cui avrebbero anche origine le dizioni dialettali Nuscu e Nascu, termine attribuito per i tipici riflessi muschiati nel colore, sarebbe meglio dire topazio, molto più evidenti nelle versioni dolci. Lo stesso enologo Luigi Mameli, nel 1933, avvalorava le tesi secondo cui il nome fosse dovuto tanto alle sfumature cromatiche che al singolare profumo del muschio.
In termini ampelografici il Nasco presenta un grappolo di medie dimensioni dal colore tendente al dorato con riflessi verdastri, acini sferoidali, ricchi di pruina e con buccia puntinata; prediligendo terreni calcarei ben soleggiati; la forma di allevamento maggiormente diffusa è costituita dal classico sistema ad “alberello latino“, ossia senza il ricorso a palizzate o altre forme di sostegno, per quanto sussistano forme di coltivazione a Guyot, presentando una bassa resistenza all’attacco dei parassiti. È interessante osservare che ciò che caratterizza di più il Nasco, oltre al tipico odore muschiato e di macchia mediterranea, è la forte carica aromatica, tale da indurre alcuni studiosi a categorizzarlo tra i vitigni aromatici, tanto più che in molti casi gli aromi primari vengono preservati con buon nitore dopo la vinificazione.
Il Nasco è diffuso prevalentemente nell’area Sud-Ovest della Sardegna a partire dal settore orientale della provincia di Cagliari, per propagarsi quindi verso il basso Campidano di Oristano, dove è presente in poche decine di ettari di vigneto. Soltanto da alcuni anni è stato piantato anche nei pressi di Alghero, in provincia di Sassari, e nella regione storica del Mandrolisai al centro dell’isola in provincia di Nuoro. È proprio nelle aree di maggior diffusione che questo storico vitigno costituisce in purezza la Doc Nasco di Cagliari, sia secco che amabile, liquoroso secco e liquoroso dolce. Non è desueto riscontrare riconoscimenti olfattivi di buona intensità che sanno di frutta stramatura, datteri, fichi, arancia candita, miele e, come già detto, muschio ed erbe aromatiche ed altre essenze di assolata macchia mediterranea. Al palato invece è avvolgente e vellutato con un finale finemente ammandorlato.
Per quanto il Nasco sia stato iscritto nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1970 e la Doc Nasco di Cagliari sia stata istituita nel 1972 è stato progressivamente espiantato purtroppo dai vigneti, per la scarsa produttività e per le fragili difese rispetto agli attacchi parassitari, cause a cui va ad aggiungersi una condotta poco amorevole e lungimirante verso questa cultivar inestimabile, oltre che da una scarsa visione agronomica ed enologica. La svolta, o meglio una ragionevole inversione di tendenza, avviene nel 2009 grazie alla dedizione della famiglia Argiolas e dell’enologo Mariano Murru, i quali decidono di riporre la giusta fiducia nel Nasco, propagarne le viti e dare un nuovo impulso mediante una spiccata ed appassionata vocazione territoriale, una razionalizzazione viticola e dei processi produttivi in cantina, valori e caratteristiche che da sempre contraddistinguono il brand e il winemaker più iconici di Sardegna.
L’Iselis Nasco di Cagliari Doc delle Cantine Argiolas nelle declinazioni d’annata 2016, 2017, 2018 e 2020 ha dato, in fase di assaggio e con le dovute differenze, dei risultati eccellenti. L’aspetto di questi quattro vini è un crescendo di intensità cromatiche: giallo paglierino con riflessi verdolini per la 2020, giallo paglierino per la 2018, giallo dorato eccezionalmente carico della 2017 e leggermente meno nell’Iselis 2016. Una certa progressione, eccezion fatta per la 2016 per via di una media struttura, riguarda anche la consistenza: alla 2020 è opportuno concedere del tempo, nonostante s’intravveda la sua carica glicerica, la 2018 è consistente e la 2017 addirittura copiosa nella sua ammaliante danza nel calice, tra archi e lacrime. È bene osservare che, oltre alla concentrazione di un giallo dorato più carico, l’Iselis 2017 prevale in intensità olfattiva sia alla 2016 che alla 2018, annate che appaiono olfattivamente meno intense, perlomeno nella fase iniziale dell’analisi sensoriale. In definiva, sempre per quanto attiene all’esame visivo, è bene rilevare che, rispetto alla comunque luminosa annata 2018, l’Iselis 2017 vive ancor più di luce propria.
La 2020 è l’annata che per profumi è figlia legittima di una mineralità marittima e dello iodio, decisamente evidenti, cui vanno ad aggiungersi le note floreali del tiglio e del mughetto, oltre che della frutta fresca, sia a polpa bianca che gialla. Nella 2018 si vanno a sovrapporre alle precedenti note, per quanto attenuate, profumazioni fruttate tropicali, oltre ad una nota tra il tè verde e il tabacco biondo. Ad occhi bendati la 2017 parrebbe quasi un vino da dessert: ammaliante nelle note di zagara, datteri, miele ed albicocca disidratata, il naso è opulento. Non bisogna però essere ingenerosi con la 2016 che, ancora stancamente e con una certa timidezza, chiede di pazientare. Per quanto giovane, nella 2020 sussiste un certo bilanciamento a livello palatale: attraverso il sorso avvolgente ritornano il frutto e il floreale e, con la presenza di una certa sapidità, è l’acidità a farla da padrona, per quanto non sia né marcante né invasiva. La 2018 riesce a far salivare di più in verità, nonostante i suoi due anni in più sulle spalle ed una sapidità maggiore rispetto alla freschezza. L’annata 2017 è stata certo più calda: è riuscita a consumare quasi tutta la sua freschezza durante il processo evolutivo, potrà forse dare qualcosa in più in termini di sviluppo olfattivo, ma è quasi al culmine. In effetti della 2017 il naso è decisamente superiore al palato, con note tutte particolari, intriganti ed invitanti.
Round di passaggio doveroso ad una temperatura da degustazione piuttosto che di servizio: la timida 2016 finalmente svela un buon riverbero olfattivo su note di pesca disidratata, tabacco biondo, miele d’arancio e zafferano, ma in bocca è assolutamente e insospettabilmente dirompente, presenta molta più acidità della consorella del millesimo ’17 e una carezza da leuco antociani che ricorda la teina. La 2018, una volta calmierata la bassa temperatura iniziale, si riappropria di una sua identità perdendo alcune precedenti connotazioni aromatiche, a dimostrazione che il vino esige paziente attesa, mantenendo gli intriganti profumi di frutta esotica e sfoggiando stavolta un elegantissimo idrocarburo. In definitiva, non vediamo l’ora che la baldanzosa e sbarazzina 2020 maturi e riveli tutto il suo potenziale, ribadendo comunque una grandissima eleganza nella 2017, oltre che a una carica di potenziale di durabilità della 2016, apprezzabilissima per la pacatezza dei profumi, ergo per un lavoro sui lieviti autoctoni che sta tornando con le annate più recenti.
Abbinamenti consigliati? Per il 2020 sicuramente un fish & fruit da antologia, per il 2018 una tartara di Fassona con uovo di quaglia e tartufo bianco, mentre per il 2016 uno strepitoso risotto con salsa d’ostrica e bottarga di muggine. E per la 2017? Cappone cotto a legna con patate e zafferano: parola di Mariano Murru.
Insomma, Buoni pensieri portano a buone e sincere parole, buone e sincere parole portano a buone e propositive azioni: Mariano Murru e le Cantine Argiolas hanno generato un tale entusiasmo sull’isola che oggi sono molte altre le aziende vinicole e i viticultori ad aver scelto di adottare il Nasco e produrlo. Infatti dal 2009 al 2017 la produzione di vino da uve Nasco è passata da 5000 a 100 mila litri e, proprio l’anno passato, durante la riunione nazionale della Assoenologi le Cantine Argiolas sono state premiate proprio per aver salvato il Nasco dall’estinzione e nell’egida della rassegna dei vitigni minori. Grande rivalutazione ed un indiscusso merito per aver salvato una varietà di Vitis Vinifera, ma un grande lavoro, quello di Mariano Murru, nell’esaltarne il valore intrinseco delle sue uve proprio grazie a dei procedimenti enologici atti a valorizzarle, conferendo al vino la giusta longevità, mediante un maggiore ph ed un’acidità più bassa, oltre che il conferimento di caratteristiche che ne accentuano l’appeal ed uno studio che ne diversifica la pratica enologica, interpretando l’andamento vendemmiale.