Empatia
è una parola “abusata” e allo stesso tempo “dimenticata”. Se ne parla con troppa leggerezza, equivocandone il valore, snaturando la sua essenza, trasformando il suo significato non di rado per ragioni di comodità; quando viviamo l’atto empatico, spesso a farla da padrone sono i nostri pregiudizi, le nostre paure, le convinzioni e il nostro abito mentale.
Generalmente per empatia si intende la capacità di riconoscere emozioni e sentimenti negli altri ponendosi idealmente nei loro panni.
Questa definizione merita una riflessione più profonda e la possibilità di uno sguardo filosofico che rimetta in gioco le sfumature di significato di un aspetto così fondante per l’intersoggettività.
Nell’abuso del termine stranamente non trovano posto quelle possibili “derive“ o “strade secondarie” che il fenomeno empatico può prendere: entrando in relazione con l’altro può accadere di attribuirgli ciò che invece non gli appartiene, come nel caso degli inganni d’empatia che, ci suggerisce Edith Stein, possono essere eliminati o corretti con nuovi atti di empatia; l’Altro, d’altro canto, può essere qualsiasi tipo di altro, per cui l’atto empatico può anche farci trovare a tu per tu con il lato peggiore di una persona o, in altri casi, sottolineare semplicemente una distanza incolmabile tra noi e gli altri (empatia negativa).
I diversi volti dell’empatia ci costringono così a soffermarci sulla distinzione tra cogliere e accogliere, tra ciò che siamo e ciò che vediamo quando ci relazioniamo agli altri, perché l’empatia non è fusione ma possibilità.
L’empatia, come concetto filosofico, è particolarmente interessante nella definizione che ne dà Husserl: un evento intersoggettivo basato su una “analogia corporea” con l’altro, per cui il comportamento dell’altro viene ricondotto ad un’esperienza psichica intenzionale simile alla propria. Definizione, questa, che trova una sua attualizzazione e conferma nella recente scoperta dei neuroni specchio, i quali costituiscono la prova di un fondamento biologico dell’empatia. Questi neuroni possono rappresentare nel cervello di una persona i movimenti che quella stessa persona vede in un altro individuo, e inviare segnali alle strutture sensomotorie in modo che i movimenti corrispondenti siano “visti in anteprima” in una modalità di simulazione, oppure effettivamente eseguiti. Esiste dunque un’empatia “fisica”, una capacità di percepire, immaginare e avere una comprensione diretta degli stati mentali e dei comportamenti altrui, che, sulla base di un’esperienza diretta del nostro corpo, ci permette di riconoscere gli altri come simili a noi e di comprenderne gli stati interiori. Questa empatia di base ha le sue radici nel corpo e rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per l’avverarsi dell’atto empatico, che non può ignorare gli aspetti cognitivi, le circostanze ambientali, la storia personale.
L’esistenza di un’empatia biologica ci suggerisce il ruolo fondamentale della somiglianza, l’importanza di riconoscere gli altri come simili per entrare in contatto, per accoglierli nel nostro mondo, per soccorrerli, a volte. Il rischio tuttavia è che questa somiglianza biologica da possibilità empatica si trasformi in criterio di selezione empatica, o peggio, che l’Altro venga eclissato da un eccesso di empatia che, divenendo inganno perenne, trasforma l’evento empatico in disconferma, dando luogo così ad una vera e propria sostituzione tra il nostro sentire e quello degli altri. Ciò è particolarmente evidente nel caso del dolore, canale preferenziale dell’empatia: la sofferenza del nostro simile può innescare un desiderio di “soccorrere” che ci porta a fondere il nostro dolore e quello dell’altro, o addirittura a sostituire al dolore dell’altro il nostro, personale dolore. In questi casi l’accoglienza diventa invasione che non lascia spazio alle differenze, alle sfumature del sentire, all’identità e alla nostra unicità.
La provocatoria definizione “ho male all’altro” di Roland Barthes rappresenta una splendida metafora di questo capovolgimento empatico. Definendo la compassione una identificazione imperfetta e mettendone in rilievo gli aspetti paradossali, egli restituisce al sé e all’Altro le rispettive identità. Colui che entra in empatia assume per Barthes le sembianze di una madre, ma non di una madre qualsiasi, bensì di una madre carente: “madre” per via delle preoccupazioni che l’altro arreca con la sua sofferenza, ma al tempo stesso “carente” a causa dell’impossibilità di una identificazione totale con esso.
L’empatia quindi ci “costringe” a confrontarci costantemente con le nostre emozioni e con quelle degli altri. Ma che succede quando colui che empatizziamo non la pensa come noi? Se entrare in empatia significa mettersi, seppure idealmente, nei panni dell’altro e di conseguenza cogliere il suo stato d’animo, a volte può accadere che sentiamo di dover condividere anche il modo di pensare di chi veste quei panni, poiché l’emozione del sentire insieme si riversa nel pensare insieme. E’ questo il caso dell’omologazione del pensiero, del pensiero unico che diventa pensiero comune, nella cui illusione troviamo conforto, spaventati da tutto ciò che è diverso e differenza. Una volta stabilito il “legame” con lo stato emotivo dell’altro possiamo essere portati a sostituire alla comprensione di quello stato emotivo (su cui, è bene ricordarlo, successivamente possiamo mettere in atto diversi comportamenti che vanno dal soccorrere all ‘evitare ) una “identificazione di pensiero”che a volte cela un desiderio di compiacere l’altro, un bisogno di complicità per esorcizzare il senso di solitudine dei propri pensieri. Come se, per il solo fatto di “pensarla diversamente” possa venir meno il legame, la comprensione, l’accoglienza, l’ospitalità, e rimanga spazio solo per lo scontro. Come se la profondità di un legame si potesse dedurre dall’identico pensiero, dall’omologazione delle parole, dalla somiglianza delle idee. E’ questa una tendenza quasi istintiva, che nasce dal timore che si ha delle sfumature, dalla paura delle differenze, e che si nutre del valore assoluto e vincolante che diamo alle nostre idee. Ed è per questo motivo in fondo che troviamo così rassicurante il gruppo e che guardiamo sempre con diffidenza a tutto ciò che è diverso dai nostri standard.
Se l’empatia del pensiero, invece di rafforzare la nostra capacità di accoglienza, cade nella trappola del pensiero unico, ospitalità diventa una parola estranea, un paradosso empatico per cui estranea e sconosciuta diventa la cultura di colui che dovremmo accogliere. Perché è facile essere ospitali con chi la pensa come noi e con la sua presenza non fa altro che rassicurarci e nutrire il bisogno di conferme che abbiamo nei confronti delle nostre idee. Scegliendo la somiglianza in fin dei conti compiamo un gesto di ospitalità soltanto verso noi stessi. Confrontarsi con le differenze, mettersi alla prova giocando con le sfumature di grigio in un mondo che ama tanto i materni toni di bianco e nero, aprirsi alle contraddizioni, equivale davvero ad ospitare l’Altro, con tutto il carico di rischio che ciò comporta, perché l’ospitalità è responsabilità, accogliere è fare i conti con l’ imprevedibilità, è avventurarsi in un sentiero di idee nuove, di parole non ancora udite, di gesti sconosciuti,di un sentire che siamo in grado di cogliere e comprendere empaticamente, ma su cui possiamo anche sospendere il giudizio, nell’attesa di scoprire uno dei tanti “possibili mondi” al di fuori del nostro.