Il complesso tema proposto questo mese invita ad una rilettura attenta di un volume edito da Giunti nel 2000 (riedito nel 2006), “L’Harem e l’Occidente” (Titolo originale:” Scheherazade goes West or The European Harem), scritto da Fatema Mernissi, autrice marocchina che ancora una volta si conferma osservatrice erudita del punto di vista storico culturale “sud rivierasco” e soprattutto evidenzia in modo rimarchevole le differenze nette tra il modo di rappresentazione immaginato e mal esplorato appartenente al mondo occidentale, inteso proprio nel suo insieme geopolitico, e la realtà vissuta originariamente dal di dentro.
Centro nevralgico del ragionamento della sociologa di Rabat è il concetto di harem, erroneamente “associato allo spasso e all’ilarità”1, reso falso perché la stessa radice e lo stesso termine arabo ne chiariscono il significato. Ledere il confine dello haram, del giuridicamente proibito e quindi indicante un luogo interdetto, vietato, inaccessibile, viene invece rappresentato al di là del confine culturale come un qualche cosa di esotico, piacevole, “dove il sesso è libero da tutte le ansie”2. Ecco dunque dipanarsi a macchia d’olio l’approfondimento interessato di quegli autori e artisti che hanno dipinto e decantato il proibito come il piacevole, la schiavitù come la felicità murata, la scarsa disposizione alla nudità e all’erotismo.
Visioni e interpretazioni pittoriche stranamente impregnate di queste caratteristiche, comuni ai dipinti di Ingres, Matisse, Delacroix o Picasso richiamanti donne prive di coscienza e sempre pronte a soddisfare ogni possibile esigenza del richiedente maschile di turno.
E’ la stessa Mernissi che illumina le nostre menti di lettori affermando che “…Gli harem sono dei luoghi densamente popolati, dove tutti controllano tutti, dove la privacy è di fatto impossibile…Per quanto riguarda le donne sposate, la gratificazione sessuale è una cosa impossibile, dato che devono dividere il loro uomo con centinaia di “colleghe” frustrate. Considerando con calma la situazione, il paradiso pornografico appare un’aspettativa totalmente insensata in un harem musulmano”3. Già, quindi se questi erano luoghi di reclusione e di assenza di sensualità e sessualità, chiusi e interdetti per definizione agli uomini e nei quali la rabbia era proporzionale alla frustrazione, perché quegli artisti affermati d’Occidente si sono sbizzarriti nel rappresentarli in quel modo, all’opposto della realtà? Anche la stessa rappresentazione esclusivamente danzante e provocatoria della Shehrazad delle Mille e una notte, vista durante un soggiorno in Germania, è una brutta copia del valore del personaggio originario, avendo questa figura mitologica e leggendaria costruito sull’intelletto e sul confronto cerebrale il suo reticolato al fine di ottenere il perdono del re persiano Shahriyar (“…La loro Shahrazad mancava della più potente arma erotica che la donna possieda, il nutq, la capacità di tradurre il pensiero in linguaggio e di penetrare il cervello di un uomo iniettandovi dei termini accuratamente selezionati”4).
Il fulcro della discussione ruota quindi, a parere della scrittrice, attorno al concetto di paura: da una parte gli uomini musulmani hanno paura delle donne e quindi sono ricorsi e ricorrono tuttora ad ogni mezzo per renderle prigioniere, dall’altra parte invece gli uomini dell’altra sponda giocano a descrivere e rappresentare una donna spogliata della sua anima, privata di quelle caratteristiche intellettive suo patrimonio e trasformata in un oggetto facilmente manipolabile, malleabile, di cui non avere paura. Ella allora azzarda un confronto tra un’opera di Kant (Osservazioni sul sentimento del Bello e del Sublime) e l’harem di Harun al Rashid, il quinto Califfo dell’era Abbaside vissuto sul finire del 700 d.C. “Secondo Kant, il cervello di una donna normale è programmato per un sentire delicato. Deve, perciò, mettere da parte le speculazioni astratte o le nozioni utili, ma aride, e lasciarle agli uomini…Un faticoso apprendere e un fastidioso lambiccar di cervello consumano i pregi che sono propri del suo sesso.5” Ecco quindi che il messaggio del filosofo tedesco “è davvero fondamentale: il femminile è il Bello, il maschile è il Sublime. Il sublime è, ovviamente, la capacità di pensare, di elevarsi al di sopra degli animali e dei minerali…Una donna che osi essere intelligente è subito punita: diventa brutta…Al contrario dei Califfi come Harun al Rashid, che confondevano la bellezza con la cultura raffinata e pagavano somme da capogiro per includere nei loro harem delle giariya6 brillanti…7”.
Sulla figura del Califfo abbaside sono circolate in Oriente e nel mondo arabo diverse favole e leggende e ancora oggi è considerato un sovrano intelligente ed un abile stratega, ma soprattutto un attento pianificatore del tempo del piacere, nel quale chiamava a raccolta donne estremamente erudite nelle arti, nella lettura e nella filosofia.
Ecco dunque che si coglie una netta separazione tra questi due modi di intendere e di rappresentare, che nei secoli a venire non sono affatto cambiati, basti pensare a come ancora si vedeva raffigurata la “odalisca” donna turca in Occidente riguardo alla nascente “rivoluzione laica kemalista” in Turchia, oppure alla esclusiva visione velata della donna iraniana dopo la presa di potere degli ayatollah. Invece, sostiene la Mernissi, vi era anche un altro modo di intendere quei moti, rappresentati nelle riviste “altre” raffiguranti donne all’università, donne istruite, donne che cercavano di mettere in risalto le loro qualità per sfuggire alla repressione sessista.
La caparbietà dunque come pregio, la mera bellezza come pretesto per costruire un nuovo harem, quello che l’autrice stessa definisce “la tirannia della taglia 428”, una moderna reclusione basata sull’apparenza della beltà senza tempo a discapito dell’intelligenza. Attraverso questa potente arma l’uomo cerca di rispondere all’aumento della capacità da parte della donna di occupare lo spazio pubblico ed affermarsi professionalmente, rinchiudendo il femminile in un vincolo obbligato.
“Di colpo, il mistero dell’harem europeo aveva un senso. Incorniciare la giovinezza come bellezza e condannare la maturità, è l’arma usata in questa parte del mondo. Il tempo è usato contro le donne a New York allo stesso modo in cui a Teheran lo spazio è usato dagli ayatollah iraniani: per fare sentire le donne non gradite e inadeguate. L’obiettivo rimane identico in entrambe le culture: le donne occidentali che consumano il tempo, guadagnano esperienza con l’età e divengono mature, sono dichiarate brutte dai profeti della moda, proprio come le donne iraniane che consumano lo spazio pubblico9”.
[1] F. Mernissi, “L’Harem e l’Occidente”,Giunti ed., pp 15-16
[2] op. cit., p. 16
[3] op. cit., p. 20
[4] op. cit., p. 35
[5] op. cit., p. 78
[6] “Schiava nell’harem”
[7] op. cit., p. 78-79
[8] op. cit., p. 177
[9] op. cit., p. 175