Share

Dalle antiche Dee alla società dei social, le sfumature della competizione tra donne

di Anna Cantagallo

Il termine invidia deriva da  in- videre che significa guardare male, anzi guardare di traverso. L’invidia colpisce attraverso l’occhio malevolo da cui partono quei raggi avvelenati e mortali che trovano origine nelle profonde regioni dell’anima. Da quel lampo torvo e obliquo che si posa su di noi arriva una sensazione inspiegabile di malessere. Chi ne è oggetto diventa una vittima inerme della sofferenza dell’invidioso che viene su di lui riversata: la sofferenza di fronte al bene, alle qualità e alla superiorità dell’altro.

Da sempre si è ribadito sulla presunta invidia delle donne.Secondo Silvia Vegetti Finzile donne sono state “costrette” all’invidia. Nonostante si pensi che l’altro attore dell’invidia sia l’uomo (Freud e l’invidia del pene) è invece un’altra donna ad essere invidiata per essere stata scelta da un uomo, cioè da colui che detiene il potere. Ma la faccenda è ancora più complessa. Nel suo bellissimo saggio Il calice e la Spada, Riane Eisler  ri-descrive la storia del potere femminile suffragata dalle indagini condotte da archeologhe donne. Quando gli uomini iniziarono ad avere il monopolio delle armi, le donne passarono dall’essere considerate delle dee (circa 30.000 anni fa) a individui collocati in secondo piano (3.000 anni fa) a meno che non fossero figlie, compagne o madri di uomini importanti. Per tutte le altre iniziava la forzata reclusione nel buio dell’anonimità.La luce che tutti gli individui cercano nell’emergere nel confronto sociale raramente rischiarava le donne, a meno che esse non fossero così desiderabili da un uomo potente che assicurasse loro il sostentamento per i frutti dell’unione.

Per una donna essere desiderata da un uomo dotato di quei requisiti che ne definiscono la potenza variamente combinati (bellezza/giovinezza; maturità /ricchezza) è, ancora ad oggi, un richiamo irresistibile. Il desiderio maschile farà si che con l’atto sessuale, cioè con quello che la donna ritiene il suo momento di conquista, la luce maschile illumini anche lei.

Seppure le donne del lontanissimo passato sono state le invidiate dagli uomini perché rappresentavano il potere della Dea Madre (statue di dee steatopige), l’istaurarsi dell’egemonia maschile, ottenuta con la  permanente condizione di impotenza e di subalternità femminile, ha creato nelle donne un tale senso di inadeguatezza, di autosvalutazione da riuscire a smorzare perfino l’invida per il maschio. Le donne, quindi, hanno iniziato a invidiare le altre donne che riescono a conquistare il maschio, vero detentore del potere. Questa sensazione nasce già nell’ambito familiare. Melaine Klein in Invidia e gratitudine analizza l’ambiguità del rapporto tra madre e figlia che riemerge più o meno velatamente anche nelle condizioni più soavi di sorellanza, nell’ambivalenza tra l’ammirazione e il risentimento, attivando il desiderio mimetico di essere come l’altra.

Il ciclo di L’amica geniale e il film cult Eva contro Eva ci mostrano quadri variegati delle manifestazioni dell’invidia femminile. Nei titoli citati il desiderio mimetico di essere l’altra prevale così tanto da svalutare la forma classica e ancestrale di manifestazione dell’invidia tra donne per la conquista dell’uomo, conquista che, alla fine, c’è sempre per giustificare lo sforzo del confronto. Il libro più impietoso sull’universo femminile, dove albergano le peggiori forme di oppressioni e di discriminazioni prodotte da donne verso le donne, è Donna contro donna di Phyllis Chesler.Il pensiero dell’autrice per spiegare tanto accanimento si concentra su una dinamica chiave, ovvero sulla ricerca continua delle proprie imperfezioni e, di contro,  sull’apprezzamento delle caratteriste positive dell’altra. Questo primo passo, che potrebbe sembrare positivo, serve principalmente a creare una graduatoria in cui le donne si auto collocano (la più bella, la più simpatica, la più diligente, ma anche la più brutta o la più disgraziata), graduatoria da cui nascono amicizie selezionate (migliore amica, seconda migliore amica, confidente saltuaria) o con cui si individuano le nemiche o le estranee. Seguendo la graduatoria, già da bambine si impara chi attaccare attraverso l’aggressività indiretta che si esprime con l’estromissione dal gruppo, pettegolezzi, rivelazione di segreti e, in particolare, critiche sull’aspetto fisico. Le donne attaccano con il mezzo più potente che hanno a disposizione: la parola. La parola  serve per denigrare l’altra, per “oscurarla”, ma anche l’assenza della parola, mezzo potentissimo, viene utilizzato lì dove dovrebbe esserci un apprezzamento. Il silenzio tra donne che si confrontano pesa come un macinio.

Il mio personale punto di vista, sviluppatosi osservando e ascoltando tanta umanità, è che la graduatoria nata in un gruppo (es. compagne di scuole) è obbligatoriamente statica, senza possibilità di spostamenti. Le rimpatriate dopo una ventina d’anni sono deleterie. Per le donne risulta intollerabile la sorpresa di una frantumazione della propria collocazione (bellezza, bravura a scuola, ceto ecc.) ad opera di chi, all’epoca della formazione del gruppo, era collocata in basso.

In Italia con i moti del ’68 si sono sbriciolati gli indicatori di valore a cui le donne potevano fare riferimento per smorzare il senso di inadeguatezza nel confronto tra loro. Per una semplificazione, si intende valore per caratteristiche innate (bellezza, ceto, ricchezza, alcune doti caratteriali) e valore per caratteristiche acquisibili o migliorabili (abilità domestiche, disponibilità alla sottomissione). La capacità di generare, l’essenziale funzione, da sempre considerato un valore assoluto, addirittura ribadito nella Costituzione, era vissuto da quelle donne che ne erano impossibilitate come un’incompletezza dell’essere donna. L’intelligenza e la cultura erano tenute in minor considerazione rispetto alle competenze domestiche. Lo “studio” era da sempre un sostantivo maschile. Una donna pre ’68, che non possedesse alcune caratteristiche innate, in primis la bellezza, poteva rassicurarsi trovando la sua piccola sorgente di “luce” tra le tante competenze domestiche a lei delegate, su cui misurarsi con le altre. L’istruzione diffusa e l’ingresso massivo delle donne nel mondo del lavoro iniziato dopo il secondo dopo guerra e ancor più dagli anni Settanta, anni di tante conquiste civili e sociali (divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia), hanno cambiato gli indicatori di valore femminili. Per raggiungere i massimi riconoscimenti in ambito lavorativo le donne hanno mutuato dagli uomini quei comportamenti osservati nel mondo maschile, ritenuti indubbiamente vincenti. Spregiudicatezza comportamentale, dedizione totale al lavoro, riduzione del tempo dedicato alla famiglia non sono bastati a consolidare una leadership delle donne al comando, spesso oggetto di una organizzata opera di svalutazione da parte dei sottoposti maschi, ma ancor più delle sottoposte donne.  Maldicenze a sfondo sessuale, critiche sull’estetica e sui comportamenti, pettegolezzi sulla vita privata sono i meccanismi più comuni per smorzare la luce a chi sta tentando di mostrarsi. Con la disponibilità economica ottenuta con il proprio lavoro, ogni donna può migliorare l’apparenza. La moda è diventata democratica, accessibile a tutte. Nasce un nuovo impegno imprescindibile per le donne, una nuova religione, come osservato da Naomi Wolf nel Il mito della bellezza. La perdita degli altri indicatori del passato, compresa la maternità, relegata a una scelta sempre rinviata e rinviabile, perdita non sostituita da altri indicatori se non quello ipertrofico della bellezza o meglio dell’apparire, ha riattivato la rabbia covata da secoli dalle donne. L’unico confronto attuale tra donne per misurarsi è quindi l’apparire. Essere sempre visibili, aiutati dalla tecnologia che migliora l’immagine proposta nei social di selfie ritoccati all’inverosimile, che viene consolidata dall’impalpabile approvazione dei followers. La luce di chi riesce ad essere visibile – e quindi apprezzata con la capacità dell’ingegno e non quelle delle doti naturali, bellezza in primis –  offende tutte le altre, nel timore che la sua luce le oscuri. Ripiombare nell’oscurità e senza la voce per affermare se stesse risulta un pensiero intollerabile. Questo momento storico richiederebbe una riflessione seria e senza schermi sugli indicatori di valore della donna del terzo millennio.

Di Anna Cantagallo – Medico Umanista, Scrittrice

ANNA CATAGALLO

medico, ha scritto numerose opere teatrali regolarmente rappresentate. Il romanzo Arazzo familiare (Castelvecchi, 2021), il primo della saga, ha ricevuto consenso di pubblico e di critica. Il sole tramonta a mezzogiorno, secondo romanzo della saga, (Castelvecchi 2022) ha vinto il primo premio ai concorsi Milano International 2021 e Iplac – Voci di Roma 2023. Il libro di ricette antiche Come cibo per l’anima (Redaction, 2023), collegato ai due primi romanzi, ha vinto il secondo premio al concorso Mario Soldati 2023, settore gastronomia. Kintsugi (Castelvecchi), il terzo della saga, è risultato fi nalista come inedito al concorso Giorgione 2023.

Leave a comment.