L’abbandono volontario del centro storico di una città che non ha più spazio per nuove edificazioni edilizie, di una città al centro di un’area metropolitana che stenta a decollare è un riflesso di situazioni che abbracciano la “questione sarda”, il “mezzogiorno”, che coinvolgono i giovani in un esodo senza fine. Gli uffici pubblici si svuotano, la città si spopola, spazi lasciati vuoti non vengono riconvertiti. E’ questa la situazione di una città, Cagliari, fra le più suggestive del Mediterraneo che come i grandi centri italiani vede di anno in anno diminuire i propri abitanti.
Lo spopolamento delle città, la deurbanizzazione dei centri storici è un fenomeno iniziato in Italia a partire dagli anni ottanta con il trasferimento di parte considerevole delle popolazioni verso comuni limitrofi ai centri urbani. Un fenomeno tutt’ora in atto al quale gli urbanisti cercano di dare risposte e proporre rimedi.
Abbiamo incontrato sull’argomento un urbanista d’eccezione: Pasquale Mistretta, Professore Ordinario dal 1976 presso la Facoltà di Ingegneria dell’università di Cagliari, oggi Professore emerito di urbanistica e Rettore dell’Università di Cagliari dal 1991 al 2009 per ben cinque mandati consecutivi, un pezzo imponente della storia dell’Ateneo cagliaritano e dell’urbanistica isolana, che delinea senza mezzi termini un quadro crudo e realista della situazione del capoluogo sardo.
Lo spopolamento in Sardegna e a Cagliari è un fenomeno in atto? E’ un problema concreto?
Lo spopolamento esiste in tutt’Italia. Nel mezzogiorno è un fenomeno più sentito per motivi socio/economici. In Sardegna, che è isolata rispetto alla continuità del territorio nazionale, il problema assume una dimensione critica. La città lo subisce per motivi diversi rispetto a quello dei centri piccoli e dei centri di montagna. Per questi c’è un disegno di legge nazionale per dare risposta ai comuni al di sotto dei 5000 abitanti. Noi in Sardegna questo discorso non lo abbiamo ancora affrontato né per i comuni al di sotto dei 5000 abitanti, ma neanche per quelli al di sotto dei 1000 abitanti.
A cosa è dovuto lo spopolamento di Cagliari?
E’ dovuto a due fattori. Il primo è che sono diminuiti i posti di lavoro retribuiti dallo stato e dall’amministrazione pubblica in generale a causa della non conferma dei posti precedentemente occupati nel turnover e per la spending review che sta ridimensionando ogni ufficio. Il secondo motivo per cui la città ha perso e continua a perdere abitanti è che questi cercano tipologie edilizie diverse da quello che offre la città a prezzi di acquisto ben più favorevoli.
Alcune aree della città diventano disponibili, vuote per obsolescenza o per cambio di destinazione d’uso, cosa accade ai “vuoto urbani”?
Sono il risultato della città che perde uffici, la città che ridimensiona i propri uffici e si ricompatta dove le funzioni amministrative diventano più produttive e lascia edifici oggi non più gestibili e molto costosi dal punto di vista della manutenzione. Questo fa si che la città abbia a disposizione una notevole quantità di vuoti di tipo militare, sanitario, amministrativo/comunale e altri tipi pubblici. Esistono anche vuoti privati senza prospettiva.
E’ possibile un ritorno alla città?
Il ritorno può avvenire solo in un rapporto di scambi efficienti e stimolanti tra le periferie e l’area metropolitana, Sestu, Sinnai, Sarroch ecc., in un rapporto in cui si riconosca a Cagliari un ruolo centrale e agli altri centri urbani delle funzioni interrelate. E’ difficile accettare questa linea perché ogni comune tende ad avere una sua dimensione e a gestire in proprio questa dimensione in modo alternativo se non conflittuale con i comuni vicini.
Una volta che gli abitanti si sono trasferiti nei comuni vicini, magari con tipologie edilizie più accattivanti, è possibile un percorso inverso verso Cagliari?
E’ quasi impossibile. Una possibilità potrebbe passare dal recupero dei vuoti del centro storico, ma non solo le viuzze della Marina, di Villanova, di Stampace, ma del “centro vissuto”. Però chi si è abituato a un tipo di vita quasi “all’aperto” con un giardinetto sotto casa, che magari ha un cane o un gatto, difficilmente si riconverte ad un appartamento in centro storico dove non può parcheggiare la macchina, non può mettere la cuccia per il cane, non può mettere la parabola per la televisione ecc. Bisogna poi tener conto che le case a Cagliari costano care anche in termini di tasse.
Per ciò che riguarda le aree esterne non ce n’è più perché la città è finita dal punto di vista delle aree edificabili. Per la politica fatta negli ultimi 30 anni Cagliari è una città chiusa dai paesi limitrofi che ha incentivato la fuga verso Selargius, Quartucciu, Monserrato e Elmas.
L’area metropolitana è un’utopia? Può riunire i comuni che insistono su Cagliari in una visione univoca di grande città?
La città metropolitana di Cagliari è discontinua, non c’è continuità tra Cagliari e città come Sestu, Quartu e Assemini. Per superare le ataviche rivendicazioni di posizione, di risorse, di libertà di decisione sul territorio, sulle scelte strategiche dei singoli comuni ci vuole un’autority credibile e autorevole e questo non è facile.
Come vede Cagliari proiettata nel futuro? Continuerà a spopolarsi? Ci sarà un rinnovamento?
La città, ma prima ancora la Sardegna, ha bisogno di fare delle scelte. Se non affronteremo in modo realistico il superamento del rapporto Cagliari/Roma in termini di rivendicazione di accise, di tasse e di altre risorse non si andrà da nessuna parte, rimarremo sempre un satellite di Roma sempre più povero, sempre più perdente. L’alternativa è quella di guardare le cose in modo diverso. Se non arriviamo al Mare del Nord tramite un nuovo asse verso Rotterdam non andremo da nessuna parte. Dobbiamo trovare un modo per entrare in questo asse, solo così si potrà avere un minimo di ripresa e motivazioni. Motivazioni che riportano alla “questione sarda”.
Lei è ottimista? Ha un messaggio di speranza?
La speranza è che i giovani possano essere vettori per tornane e non per andar via.
Un pianificatore deve essere sempre ottimista, la storia ci aiuta a capire i fenomeni, come si sono verificati e come si verificheranno. Senza ottimismo, fantasia e vision non si va da nessuna parte. Alla mia età ho una vision più ottimistica di molti ragazzi di 30/40 anni che tendono a ragionare più in termini di realtà e concretezza. Bisogna imparare a ragionare in termini di vision anche se la vision presuppone il rischio di sbagliare.