Una bambina di Cernobyl
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Articolo di Giuliana Abate

La cultura dell’ospitalità si trova in tutte le civiltà come consuetudine e come dovere sacro: offrendo degna accoglienza ad un ospite, ognuno si mostra consapevole di essere lui stesso ospite nel consesso umano.
In Italia tale cultura si declina in diverse forme. Una delle più nobili è da ravvisare nel turismo terapeutico, nato sull’onda degli interventi di solidarietà internazionale che si sono sviluppati a seguito dell’ormai tristemente noto incidente alla centrale nucleare di Chernobyl.

Sono oltre 35.000 i minori provenienti da nazioni in particolari condizioni di difficoltà che ogni anno, in due distinti periodi, quello estivo e quello invernale, vengono accolti per brevi periodi presso famiglie italiane per soggiorni promossi da enti pubblici e privati, finalizzati allo sviluppo di percorsi di risanamento e cura.
La maggior parte dei bambini coinvolti dai progetti umanitari per il risanamento all’estero provengono dalla Bielorussia e dall’Ucraina, in particolare dalle aree colpite dalla catastrofe di Chernobyl, in particolare la regione di Gomel con 17.600 bambini e la regione di Mogilev con 7.600 bambini.
La priorità viene data a bambini e adolescenti che vivono in territori contaminati, che provengono da famiglie numerose e indigenti e a coloro che vivono negli orfanotrofi.
E’ comunque bene chiarire che, nonostante siano ovviamente soggetti al rischio potenziale di danni fisici derivanti dalla prolungata esposizione alla radioattività, tutti i bambini ospiti sono sani: cioè non presentano alcun sintomo di patologie evidenti o nascoste, sono in buone condizioni igienico-sanitarie e non hanno assolutamente alcuna malattia trasmissibile ai membri della famiglia ospitante.

Sono nate diverse associazioni su tutto il territorio italiano, dalla Lombardia al Veneto, dal Piemonte alla Calabria, isole comprese, che operano all’interno di un progetto nazionale di Legambiente, che propongono l’ospitalità in famiglia di questi bambini.
Le associazione di solito organizzano il soggiorno dei minori, fornendo il viaggio e supportando in vari modi le famiglie ospitanti, ma non solo.

Fratello Sole, ad esempio, è una Onlus che opera in Campania e ha coinvolto in questa catena di solidarietà cittadini ed amici che operano in varie regioni d’Italia come Puglia, Basilicata, Lazio, Calabria, Molise.
Oltre ai progetti di risanamento, questa Associazione si fa carico di rendere un servizio ai bambini nella loro terra con il continuo riconoscimento degli enti governativi dell’Ucraina e, di recente, ha realizzato un progetto per la creazione di un ospedale in Ucraina dove vengono curati i bambini. In Ucraina essa sostiene gli orfanotrofi di minori disagiati e sta realizzando dei progetti di ristrutturazione o interventi di miglioramento nei vari internati e orfanotrofi.
Gli ospiti non appartengono al nostro mondo. Vengono da un altrove e verso un altro luogo sono diretti. La loro presenza nelle nostre case è temporanea però essi non giungono soli: ciascuno di questi bambini porta con sè il fardello di un intero paese, la sua storia, il suo dramma.
Ancora oggi gli effetti di quella sciagura colossale sono visibili: avvenne il 26 aprile1986 con l’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina allora parte dell’Unione Sovietica, vicino al confine con la Bielorussia.
La serie di esplosioni causate da reazioni fra sostanze chimiche innescate dalle elevatissime temperature raggiunte, fecero sollevare nubi di materiali radioattivi che, per una sequenza di correnti aeree in quota, raggiunsero l’Europa, lambendo anche l’Italia.
Qualche ora dopo l’incidente 600.000 uomini, i liquidatori, vennero mandati, senza troppa informazione e protezioni adeguate, a spegnere l’incendio e ‘liquidare’ le conseguenze del disastro, costruendo una gigantesca struttura di contenimento chiamata sarcofago. Sotto quel sarcofago, che oggi necessita di una sostanziale ristrutturazione, pulsa ancora, immenso, minaccioso, sconosciuto, il cuore della centrale.

Il bilancio delle vittime è altissimo, soprattutto tra i bambini. Vaste aree vicine alla centrale furono pesantemente contaminate, ma la crescente povertà economica causata dalla catastrofe, impedisce l’emigrazione della frangia più povera della popolazione, che continua a risiedere in questi luoghi, convivendo in un’allucinante situazione dove tutto ciò che si tocca, si respira e di cui ci si nutre è contaminato dalla radioattività.
Il progetto è, dunque, innanzitutto un programma di prevenzione sanitaria: infatti, un progetto scientifico, realizzato dalla commissione interna Smile Health nel 1998, ha appurato che vivere un periodo di tempo, anche breve, in zone non contaminate, e soprattutto alimentarsi con cibi privi di radionuclidi, permette loro infatti di perdere dal 40 al 60% della radioattivit? assorbita, riducendo così il rischio di essere colpiti da tumore alla tiroide, leucemia, ed altre patologie collegabili alle conseguenze della contaminazione radioattiva.
Le famiglie, nel corso del soggiorno, si impegnano a garantire la necessaria assistenza sanitaria ai minori prendendo accordi preventivi con medici di base e strutture sanitarie della propria zona.

La cura acquista, inoltre, una efficacia e una risonanza ancora più ampia poichè produce valore aggiunto: crea infatti una rete di ascolto, si costruiscono azioni e percorsi educativi. Nello sguardo di un adulto e di un bambino, si incontrano due mondi. Dalla condivisione di cibo e di parole intorno a una tavola nasce una conoscenza nuova dell’ospite, del suo bagaglio di esperienze, di cultura e di tradizioni. Colui che prima era estraneo, di cui si ignorava la provenienza, di cui si faticava a comprendere il linguaggio è ora divenuto famigliare. Nell’intento di agevolare e consolidare il costruttivo scambio culturale tra le famiglie italiane e straniere, sovente viene programmato il rientro in Italia del bambino presso la stessa famiglia.
La stessà città che accoglie il minore è coinvolta, al pari della famiglia ospitante, nell’esperienza e concorre a migliorare la qualità del soggiorno dei piccoli ospiti. E’ non solo una famiglia, ma una intera comunità che promuove le iniziative di accoglienza nell’ambito del proprio territorio: si organizzano momenti di aggregazione e di incontro, si promuovono attività sportive, culturali e ludiche a contatto con la natura, durante tutta la loro permanenza nel nostro paese.
L’ospitalità, per la sua temporaneità, è la condizione di chi non resta, è un rito di passaggio, è il dono di uno spazio. Di uno spazio vitale che non si restringe nel contatto con l’altro ma dilata i suoi orizzonti, il mondo conosciuto, le proprie stanze fino a comprendere il mondo intero.
L’ospitalità è un crocevia di cammini. Questo articolo nasce dal ricordo di una fresca brezza che un giorno d’estate spirò all’angolo di quella strada. Sasha veniva da Minsk.

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