Una marcia lunga cinque anni e migliaia di chilometri
nel cuore della seconda guerra mondiale
Nei suoi occhi non c’erano confini, eppure in quel celeste rassicurante si erano conficcati come lame tanti limiti dell’umanità. E scorrendo le pagine di uno sguardo mai vinto si poteva comprendere che realmente «la guerra – come negli ultimi anni non si stancava di ripetere – è il crimine più grande» perché lui, reduce del secondo conflitto mondiale, sapeva bene che cosa accade nel momento in cui l’uomo smette di essere tale.
Luigi Cannas era giovanissimo, aveva 19 anni, quando nel marzo 1940 la patria lo aveva chiamato alle armi, costringendolo a lasciare la Sardegna e a varcare ben presto diverse frontiere. Era giovanissimo quando l’ambizione sfrenata di un dittatore lo aveva portato a combattere lontano dall’Italia, sospinto con la forza più brutale oltre la linea, vecchia come il mondo, che separa logica e follia.
Lì, nel cuore dell’inverosimile, inizialmente aveva marciato verso la Francia, raggiungendola sotto una tremenda tempesta di neve per affrontare la sua prima straziante battaglia, per capire veramente con quanta facilità un colpo di mortaio può stroncare l’impercettibilità di un secondo e per constatare quanto è breve la distanza tra vita e morte. Poi aveva attraversato l’Italia, a Bari era salito su una nave ed era approdato in Albania, dove la miseria dilagante non gli aveva lasciato dubbi sull’immediato futuro e sul fatto che i suoi passi non avrebbero più conosciuto confini geografici, mischiandosi anonimi a quelli di milioni di altri ragazzi sfortunati come lui.
Non immaginava, Luigi, che la sua generazione avrebbe scolpito orme indelebili nella storia del pianeta e della libertà e non immaginava che neppure la vecchiaia avrebbe cancellato il ricordo di quegli anni rubati alla giovinezza. Non immaginava e ubbidendo agli ordini impartiti dai superiori era arrivato in Grecia, dove aveva trovato ancora bombe, sangue, fame e gelo e dove aveva visto con quale ferocia si annichiliva l’esistenza prima ancora dell’internamento nei campi di sterminio.
Nel percorso accidentato di quella perfida guerra aveva piegato la testa davanti all’arroganza di non pochi ufficiali e aveva ringraziato Dio quando qualche anima bella gli aveva teso una mano, senza tuttavia mai pensare di arrendersi agli eventi. Vivere era un dovere e per non soccombere, con le gambe ormai inerti, si era trascinato a lungo sulla neve dell’implacabile inverno greco. Dopo, però, per continuare a sognare la luce del domani si era rifugiato in un paradosso, smettendo di contare le stagioni. L’armistizio dell’8 settembre 1943 gli aveva fatto conoscere il sapore amaro dell’alleanza italo-tedesca, diventata per tanti avversione profonda, e la prigionia. Oltre la linea che separa logica e follia, comunque, la razionalità dei buoni non sempre si faceva soprafare e Luigi aveva rischiato la vita per aiutare chi era in difficoltà, ricevendo a sua volta gesti di commovente generosità. In quel viaggio verso il nulla aveva visto morire troppi compagni e si era rammaricato per l’atroce impossibilità di salvarli. Si era rattristato anche quando, sotto una pioggia di proiettili, il sangue di uno dei suoi ufficiali più temuti si era unito indissolubilmente alla terra.
Durante la guerra di liberazione, riconoscente, aveva risalito lo Stivale accanto agli americani, non nascondendo la gratitudine per quei partigiani che in vari punti avevano coperto l’avanzata. La capacità di discernere le buone dalle cattive azioni senza distinzioni di fronti e di nazioni era frutto della sua impressionante lucidità, mai venuta meno neppure nei giorni più terribili, fatti di fuoco e di ghiaccio, di marce infinite, di sfide continue e non volute con il pericolo, costantemente poliedrico e beffardo. Il secondo conflitto mondiale, non a caso, per lui e per tanti era stato persino lotta continua per la ricerca di un equilibrio che tenesse ferma la ragione, stroncando quelle oscillazioni sempre possibili oltre la linea tra logica e follia.
Dopo la conclusione delle operazioni belliche Luigi era tornato a Sa Sia, la frazione di Tula da cui era partito più di cinque anni prima. Era tornato, pelle e ossa e con una divisa a brandelli, quando tutti lo credevano morto. Quindi, come molti altri reduci, aveva cercato tra mille difficoltà di ritrovare una normalità e nei successivi sessantacinque anni aveva parlato del conflitto solo raramente. Poi aveva rilasciato un’intervista, capendo così che i suoi ricordi potevano contribuire concretamente a dimostrare quanto è sbagliata la guerra. Ogni guerra. E da allora, con una pacatezza trascinante che arrivava dritta al cuore e che era monito per il futuro, aveva iniziato a partecipare a conferenze e a dibattiti, regalando scampoli di passato a chiunque sapesse comprendere e consegnando alla Storia la sua nobile lezione.
Luigi se n’è andato a 93 anni la sera del 26 gennaio 2014, nella vigilia del Giorno della Memoria. Secondo alcuni quella data non è stata casuale. Forse il destino ha voluto accompagnare con un saluto speciale l’ultima marcia di un soldato leale e coraggioso, di un uomo giusto, di un ambasciatore di pace.
Il secolo scorso non è passato leggero su questa terra e adesso, quando tutti i testimoni dei fatti più eclatanti e più dolorosi di allora ci stanno lasciando, dispiace che l’Occidente, opulento nonostante tutto, non sappia guardare indietro. Dispiace vedere con quante remore l’Italia accoglie coloro che fuggono dalla guerra e dalla miseria. Dispiace che gli italiani si siano scordati come in tempi non remoti a essere vestiti di stracci in terra straniera erano loro. Eravamo noi. Dispiace rilevare ancora una volta la preoccupante superficialità con cui si supera il confine tra logica e follia e con cui si rimarcano i limiti geografici, negando il braccio a chi affonda nelle difficoltà. Luigi Cannas e molti suoi compagni, però, hanno spiegato che la convinzione di possedere il diritto di tracciare la sorte del prossimo è tanto superba quanto ingenua. I loro insegnamenti non si dimentichino.