Lunàdigas, ovvero donne senza figli: un’idea di due donne, Nicoletta Nesler e Marilisa Piga, confluita dapprima in un webdoc, pubblicato online nel 2015 dopo anni di ricerche comuni e la realizzazione a quattro mani di una serie di documentari per la RAI, e nel 2016 in un lungometraggio che continua a girare nelle sale e nei festival italiani e internazionali collezionando riconoscimenti. Di più: un movimento culturale che coinvolge una community femminile e non solo sempre più vasta e affezionata. La sfida è quella di dare voce alle donne che scelgono di non avere figli e che non cessano di essere vittime di pregiudizi sociali, nonostante siano sempre più numerose in Italia e nel mondo. Si stima che il 22,5% delle donne italiane nate alla fine degli anni ’70 concluderà il periodo fertile senza figli (Istat, 2019): un dato più che raddoppiato rispetto a quello che riguarda le nate negli anni ’50. Definite childless nella letteratura internazionale sul tema, le due documentariste le hanno definite lunàdigas, ricevendo in dono il titolo di un’opera della scultrice Monica Lugas, che rappresenta un candido seno chiuso in una gabbia, simbolo delle donne senza figli. Così sono definite, nella comunità agropastorale sarda, le pecore che non figliano. “Un nome che, dopo aver sondato varie possibilità, ci è sembrato da subito musicale, bellissimo – racconta Marilisa Piga a Mediterranea -. L’abbiamo adottato perché volevamo che le donne senza figli avessero una loro specifica definizione: avere un nome significa esistere. La cosa che ci ha colpito è che dopo qualche settimana molte donne cominciavano a definirsi lunàdigas, sentendosi rappresentate da questo termine, non solo in Italia ma anche all’estero, perché in realtà non ne esiste un altro per definire una donna senza figli se non attraverso delle negazioni: “senza figli”, “non madri”.
Un tema aggregante e tuttavia intimo, quello della mancata maternità, intrinsecamente femminile eppure, allo stesso tempo, terreno di libera scelta sul quale si interrogano in primis le autrici, lunàdigas anch’esse, e ben 80 intervistate. “Partendo da persone vicine e allargando via via a persone del tutto sconosciute – spiega ancora Marilisa Piga – abbiamo proposto questo tema, con la consapevolezza di quanto fosse delicato da trattare. Dapprima le donne chiedevano di non essere riprese, ma man mano che acquisivamo una maggiore esperienza nel proporlo, abbiamo constatato che le donne da noi intervistate riuscivano ad aprirsi e l’esperienza ha funzionato, tanto che abbiamo collezionato un nutrito archivio di testimonianze, oltre a quelle entrate nel documentario, che è possibile consultare sul nostro sito www.lunadigas.com”.
Ma chi sono le Lunàdigas? Tentano di dare risposta a questa domanda le parole di numerosi personaggi noti del panorama culturale italiano che si intrecciano a voci di donne comuni, ognuna delle quali dà una motivazione diversa e del tutto personale riguardo alla scelta, o alla condizione, dell’essere lunàdiga. Tra le intervistate, la compianta politica e saggista Lidia Menapace definisce l”assillo della maternità una sovrastruttura culturale molto punitiva”, mentre la produttrice cinematografica Marina Piperno racconta di esser stata influenzata nel suo non essere madre dal senso di colpevolezza di stampo sessuofobico insito nell’atto della procreazione; Lea Melandri riferisce di un diktat paterno scolpito nella sua mente: “o si studia o si fa l’amore”; e ancora, la storica programmista RAI Nives Simonetti considera i figli simbolo di mancata libertà, di schiavitù per la donna; l’artista sarda Maria Lai confessa invece di aver sempre saputo che qualora avesse avuto dei figli, li avrebbe tenuti a distanza, affidandone le cure a sua sorella, “che era nata mamma”.
Il susseguirsi delle testimonianze evidenzia le più disparate concezioni della non-maternità: donne cresciute in Paesi nordici in cui il legame fra femminilità e maternità è meno forte; donne – rappresentate dal gruppo delle Siblings di Sinnai – che hanno avuto fratelli con disabilità e che raccontano di aver forse, inconsciamente, avuto paura di rivivere la stessa situazione di difficoltà; e ancora, donne che considerano i figli come un ostacolo alla libertà individuale. A volte è la mancata conciliazione col proprio corpo a rappresentare un impedimento al desiderio di concepimento; o piuttosto è in gioco la volontà di liberarsi di una coercizione sociale, sottraendosi a quello che storicamente, e persino biblicamente, appare come l’unico destino possibile per le donne: la maternità (colpiscono in particolare le testimonianze di giovani donne che considerano altre donne incomplete perché senza figli, essendo state le donne “create per generare figli”). La scrittrice Melissa Panarello pone l’accento sullo stretto legame esistente fra la maternità negata e il rapporto con la madre: vi sono donne che non hanno figli perché sono state figlie non desiderate, o perché hanno avuto con la figura materna un rapporto conflittuale. Donne che si sono sentite in colpa di essere nate. Donne che si sentono “sbagliate” perché non sono state accettate, accolte, amate dalla propria madre. Donne che hanno sofferto per il fatto di aver avuto una madre depressa, malata, e non hanno voluto infliggere lo stesso dolore ad altri. Figlie-madri delle proprie madri inadeguate. Donne che avrebbero voluto un figlio, ma il cui corpo si è rifiutato di accoglierlo. Donne che i figli non hanno potuto averli pur avendoli tanto cercati. Donne che non hanno trovato il compagno adatto. Donne che “scelgo me stessa”; che “se mi capitasse abortirei”; che “è più giusto adottarli”; che “preferisco un gatto a un bambino”; che “oramai è troppo tardi”; che “non ho avuto abbastanza coraggio”; che “sono in menopausa” (“che parola antipatica, ma non se ne trova un’altra?, suggerisce ironicamente Marilisa Piga”).
E non c’è intervistata – sottolineano le due documentariste – che non nomini la madre nella sua testimonianza. Una donna, in fondo, è sempre figlia e deve necessariamente fare i conti col tema della maternità, sia che abbia dei figli o che non li abbia.
“Ci siamo fatte da subito la convinzione – spiega Nicoletta Nesler – che le motivazioni di ognuna sono differenti. Tuttavia sono individuabili dei fili che possono accomunarne alcune, ma come ci siamo rese conto della varietà delle motivazioni, così ci siamo ostinate a cercarne sempre di più, e non smettiamo di farlo. Del resto siamo restie ad una sintesi, in quanto ogni testimone è preziosa nella sua unicità. Ciò che a noi maggiormente interessava – continua – era rompere un silenzio culturale che per tanto tempo ha avvolto questo tema. Oggi è più facile parlarne, ma per molto tempo è stato immerso nel buio del non detto. È stata questa la motivazione che ha indotto Marilisa e me a cercare di riempire questo vuoto, chiedere alle donne: “Perché non hai figli?”, che per certi versi rimane ancora oggi una domanda sospesa”.
Nel documentario le due registe ritagliano dei cartamodelli per rivestire delle bambole, “una cosa da femmine”, il gioco delle bambine degli anni ’50. Non è infatti forse che un abito culturale la maternità, che si cuce addosso alle donne sin da quando sono piccole, disegnando l’aspettativa del futuro ad immagine e somiglianza della società tradizionale? Un tema, quello della non-maternità, che è strettamente correlato alla concezione del corpo della donna, soggetto a categorie imposte dalle convenzioni sociali che le vogliono tuttora “eleganti, magre, sofisticate, ineffabili”. Talvolta, infatti, la mancata maternità scaturisce dalla non accettazione del proprio corpo, dalla sua negazione inconsciamente legata all’annoso pregiudizio che nella sessualità femminile ravvisa l’ombra del peccato originario. “In molti casi – informa Nicoletta Nesler – la decisione di non avere figli è proprio legata all’affermazione della libertà della gestione del proprio corpo femminile. Molte donne hanno testimoniato di non essere disponibili a sottoporsi ai dolori del parto, o a una trasformazione del proprio corpo sacrificandolo all’altare di una maternità doverosa”. E ancora, le lunàdigas sono: concreta/astratta, unica/doppia, intera/divisa, protagonista/antagonista, semplice/complessa, ombra/luce, solitaria/in gruppo, racchiudendo in sé tutti i contrasti e sollevando il quesito sociale se si tratti di donne spezzate o complete che a volte sembra si debbano giustificare, mostrare di essere “diversamente produttive” o riempirsi bulimicamente la vita di surrogati di maternità, per poter conquistare una patente di riconoscimento sociale, un diritto di cittadinanza. Come se fossero delle freaks (ricordate il film di Tod Borowning? Gooble gobble, la accettiamo, una di noi…) “C’era il rischio che questa domanda avrebbe mosso un dolore – continua Nicoletta Nesler – soprattutto in una cultura ancora patriarcale che tende a vedere le donne non madri come delle donne mancanti. Per questo questa indagine in un territorio così inesplorato ha richiesto un certo coraggio”.
Nel film viene sciorinato il lungo campionario di luoghi comuni che identificano le lunàdigas: “le donne senza figli sono sempre in vacanza”; “si preoccupano sempre di gatti e di cani”; “sono lunàdiga perché ho sempre fatto e continuo a fare come mi pare”; “le lunàdigas sono molto egoiste e non vogliono lasciare a nessuno la loro eredità”; “le donne senza figli hanno tempo solo per se stesse”; “piuttosto che preoccuparsi per gli altri preferiscono ristrutturare casa”; “figli tutta la vita miei? Non ce la posso fare!”. Sono quelle che fanno i viaggi mistici in India o si innamorano dello psicanalista, per intenderci…
“Nella nostra epoca – avverte Nicoletta Nesler – la maternità può essere intesa anche in un senso non legato alla biologia, tuttavia non è strano sentirsi ancora dire: “Cosa ti perdi per il fatto di non avere figli!” ed essere vittime di un certo pregiudizio sociale spesso da parte delle stesse donne con figli, che avvertono una sorta di sacralità nella loro condizione. Volgendo lo sguardo al resto del mondo, questo tema è ancora molto attuale, e anzi viene sempre più sviscerato, allargandolo ad altre questioni sociali”. Un pregiudizio culturale che tuttavia non ha genere, benché molte testimonianze riportino che lo sguardo critico delle donne sia quello che ferisce maggiormente. Un tema che può servire alla causa della parità di genere, attraverso il superamento dello stereotipo della donna come unica datrice di cure per il fatto stesso di essere concepita come madre. “Per questo è importante – suggerisce Marilisa Piga – continuare a raccontare come ci si sente e che tipo di atteggiamento si ha anche se non si hanno figli, dimostrando comunque di essere capaci di mettersi a disposizione di qualcun altro e di essere utili alla società. L’ironia, e soprattutto l’autoironia, è il modo che abbiamo trovato per smontare i pregiudizi, sfidare gli stereotipi, i luoghi comuni e i sensi di colpa, e per affermare l’esistenza e l’identità di quelle donne che si sentono complete anche senza aver messo al mondo dei bambini”.
Profonde ragioni del non avere figli sono affidate nel film alle parole di importanti figure mitiche o storiche tratte dal Libro di Carlo Antonio Borghi Monologhi impossibili. Le esclusive rivelazioni di 35 mitiche Lunàdigas, edito da Arkadia, di cui l’attrice Monica Trettel legge alcuni estratti. Si va da Lilith, il demone femminile ritenuto portatore di disgrazie, sempre pronta ad accapigliarsi e ad accoppiarsi brutalmente con chiunque, dal cui ventre non possono venire dei figli, a Rosa Luxemburg il cui nome di battaglia nella Lega Spartachista era Junius, nome maschio, donna e uomo, che non ha mai estratto il seno dal corsetto per offrirlo al neonato, e che concepisce la maternità come un “atto mancato”. E poi c’è Coco Chanel, che di figli non ne ha mai voluto sapere e che, come Antigone che aveva vestito a teatro nella versione di Cocteau, aveva avuto un destino di non-madre martire; e ancora Giovanna d’Arco, la “pulzella d’Orléans”, condannata al rogo e arsa viva nel 1431 all’età di 19 anni, accusata di essere un’eretica, una “strega”, che figli non ne ha avuti perché ha passato il suo tempo a combattere, e in carcere, dove il suo corpo è stato esplorato per controllare la sua verginità, fino ad arrivare alla Barbie, “nata con tutte le cose giuste per avere successo: il seno, i fianchi, ma soprattutto le gambe, che mai nessuna ha mai avuto così lunghe e belle”, una bambola che non invecchia, che non si ammala, che non sfiorisce, che non muore mai: che bisogno avrebbe avuto di fare figli?
Ma Lunàdigas non è solo un documentario, è un progetto multimediale in continuo divenire. “Dopo la sua uscita documentario nel 2016 – informa Nicoletta Nesler – il documentario ha avuto la fortuna di avere un’ottima distribuzione internazionale. Lo abbiamo accompagnato in diverse parti del mondo, iniziando da luoghi in cui il tema era ancora complesso da trattare rispetto all’Italia. La prima grande uscita di Lunàdigas è stata in Tunisia, e da lì il film è apparso in 27 festival internazionali. In ogni luogo visitato, non abbiamo smesso di raccogliere le testimonianze delle donne che incontravamo. Questo ci ha permesso di riconoscere l’importanza di questo tema a livello globale, inducendoci a non smettere di trattarlo. Questo impegno costante ci ha portato a fondare un archivio con l’intenzione di coprire un periodo di tempo e un arco geografico così ampio da poter servire a un’ipotetica ricercatrice degli anni Tremila che si dovesse interessare a questo tema”. L’archivio vivo di Lunàdigas , che è possibile consultare gratuitamente sul sito, è tradotto in inglese e raccoglie tutte le testimonianze integrali raccolte negli anni e clip inedite in continuo aggiornamento, con lo scopo di creare uno spazio di condivisione e ricerca in continua evoluzione.
“Un progetto poverissimo – sottolinea Nesler – che fatica a trovare degli sponsor e si finanzia attraverso un crowdfounding che dà la possibilità di vedere il film e sostenere attivamente il progetto. Abbiamo inoltre attivato il 5X1000, per cui basterà indicare, per chi voglia supportarci, nella dichiarazione dei redditi il codice fiscale 9222874092”.
Difficile prevedere gli esiti di questa ricerca, che ultimamente estende il dibattito anche alle voci maschili. “All’inizio della nostra ricerca – conclude Nicoletta Nesler – abbiamo incontrato diversi uomini che tendevano ad attribuire la decisione della mancata maternità sempre alla donna. Negli ultimi tempi, incontrando soprattutto i giovani uomini, ci rendiamo conto che gli uomini rispondono al nostro quesito con delle motivazioni sempre più profonde e ponderate, e questo è il segno che le cose stanno cambiando”.
L’importante è parlarne, aver dato un nome a questa realtà sommersa, creando tra l’altro un’occasione di solidarietà e complicità fra donne, almeno finché la scelta della non maternità non sarà socialmente accettata e considerata una libera scelta individuale. “Sono lunàdiga perché sono io, e non voglio nessuna copia di me stessa” è una delle affermazioni conclusive del film.