Dopo l’indispensabile contributo atto a favorire la viticultura da parte di un mosaico di etnie avvicendatesi a partire dal II millennio a.C. in Puglia, una prima diffusione del Primitivo nelle province di Bari e Taranto si suppone venne promossa dai monaci basiliani nella prima metà del IV secolo, intervento di cui si possono apprezzare gli effetti grazie ad una successiva fase, avvenuta nel 1086, con l’insediamento dei monaci benedettini di Cava de’ Tirreni a Sant’Agata di Puglia, voluto dai Normanni, ed in seguito nel 1194 per volontà degli Svevi che vollero proteggere l’Ampelografia e favorire allevamento e sperimentazione di altre varietà. Il manto protettivo col quale i monaci difesero le vigne ebbe anche l’appoggio di Federico II, fu favorito dalle donazioni enfiteutiche dei feudatari del tempo e dalle azioni riformatrici ecclesiastiche che, a partire dall’XI secolo, videro in papa Gregorio VII un indefesso sostenitore.
Dunque il lungo processo di stratificazione delle varietà di vite ad opera di popolazioni mediterranee quali Fenici, Greci, Histri, Illiri, Japigi, Peuceti, Dauni, Dorici, Choni e Messapi e la preservazione delle stesse per merito dei monaci basiliani, degli editti dei regnanti succedutisi e dei monaci benedettini hanno costituito una prima grande fase, il preludio fondamentale alla viticultura in Puglia.
Per quanto la coltivazione della vite e la produzione del vino a Gioia del Colle vengano fatte risalire tra il VIII ed il III secolo a.C. grazie ai numerosi reperti di contenitori destinati al vino, proprio nella zona archeologica di Monte Sannace, antico centro abitato dai Peuceti a pochi chilometri dalla cittadina gioiese, il dottor Antonio Calò attribuisce il merito della venuta del Primitivo in Puglia agli stessi monaci benedettini a partire dal XVII secolo. Effettivamente ben prima del Calò anche Giuseppe Di Rovasenda (1824-1913), nel suo Saggio di Ampelografia Universale, convenne la comparsa del Primitivo fosse avvenuta intorno a quel periodo ma per cause diverse: probabilmente fu grazie a profughi slavi che giunsero marze e barbatelle di Primitivo a Gioia del Colle, tanto che agli inizi prese proprio il nome di Zagarese per ricordarne l’origine dalla città di Zagabria.
Effettivamente Schiavone, Montenegro, Albanese e Zagarese, gli altri sinonimi del Primitivo di Gioia del Colle così come lo conosciamo adesso, dimostrano che non è affatto un’idea peregrina sostenerne natali mitteleuropei e balcanici: per quanto l’origine del Primitivo si faccia risalire fortemente all’Illiria per via delle forti similitudini col Plavac Mali, tutte le aree che interessano Ungheria, Croazia, Slovenia, Austria e Germania pare abbiano una relazione diretta col vitigno pugliese dimostrabile già a partire dal Medioevo, sempre che non si vogliano scomodare i flussi migratori e le vicende storiche riguardanti le già succitate popolazioni mediterranee. Legami genetici pur certo esistono col vitigno dalmata Tribidrag, sinonimo del Crljenak Kastelanski ungherese (rosso di Kastel), che incrociato spontaneamente col vitigno croato Dobricic, diede appunto vita al Plavac Mali, ben più resistente e produttivo dei suoi genitori tanto da sostituirli progressivamente. Di fatti le ricerche di Carole Meredith del ’94 e le segnalazioni di due ricercatori dell’Università di Zagabria dimostreranno nel 2001 che lo Zinfandel californiano (dall’ungherese Tzinifandli/Czirifandli), il Crljenak Kastelanski ed il Primitivo sono esattamente lo stesso vitigno. Il tutto era partito nel 1967 dall’analogia colta dal fitopatologo Austin Goheen che, in visita al collega Giovanni Martelli, assaggiò un vino fatto col Primitivo equiparandolo appunto allo Zinfandel, avviando all’Università di Davis lo studio che avrebbe portato il prof. Charles L. Sullivan a ricostruire la storia del vitigno californiano attraverso la presenza del ceppo nel vivaio di George Gibbs negli anni ’20 che mediante la citazione “black zinfandel of Hungary” riscontrata nel libro “A Tretise on the Vine” di William Robert Prince del 1830, dando quindi un forte impulso alle future ricerche; sembra dunque che tanto gli studiosi di ampelografia del passato che quelli moderni convengano tanto sulle origini del Primitivo che sulla sua comparsa in terra pugliese, avvenuta nel XVII secolo.
È soltanto verso la fine del ‘700 che il Primitivo riceverà il suo nome di battesimo: secondo diverse fonti storiche, tra cui la monografia “Primativo di Gioia” scritta dal prof. Giuseppe Musci nel 1919, che al tempo ricopriva la carica di direttore dei Consorzi di Difesa della Viticultura di Bari, apprendiamo che fu grazie a don Francesco Filippo Indellicati (1767-1831) che il Primitivo venne finalmente identificato. Infatti il primicerio Indellicati osservò che in alcune vecchie vigne a Gioia del Colle v’era una varietà che, a differenza delle altre, non solo si adattava magnificamente alla terra rossiccia ma addirittura tendeva a maturare in maniera precoce, donando uva dall’alto tenore zuccherino e di ottima qualità in abbondanza; fu così che don Filippo decise di chiamare quell’uva col nome di “Primativo” o “Primaticcio” (dal latino primativus). Il sacerdote, grande culture di botanica ed agronomia, iniziò così una meticolosa selezione e, come riporta lo stesso Musci, piantò i tralci in un terreno di otto quartieri di estensione in località Liponti, presso la contrada Terzi di Gioia del Colle. Fu così che nacque la prima ed autentica monocultura di Primitivo di Gioia del Colle, allevata a ceppo basso e, per quanto le notizie siano incerte, il prof. Francesco Antonio Sannino (1864-1927) fa risalire l’anno dell’impianto al 1799.
Dopo un escursus storico tracciato dall’arrivo della materia prima alla sua preservazione, dalle sue origini fino al giorno in cui questa vite ottenesse finalmente un nome che la legasse al luogo che, tra le tante meravigliose terre in cui ha affondato le radici, vede in Gioia del Colle la sua dimora di elezione favorita, occorre fare ancora un altro importantissimo passaggio, ossia il periodo storico che separa l’anno in cui Filippo Francesco Indellicati coniò il termine Primitivo al 1946, quello che ha visto i natali di Filippo Vito Petrera e tutto quello che ne è conseguito.
Il lasso di tempo che intercorre tra gli inizi dell’800 ai primi anni ’50 è fatto di fatica contadina ed intriso di avvicendamenti storici che hanno cambiato il volto dell’Italia del Sud per sempre ma è grazie a Nicola Petrera (1827-1901), che il patrimonio vitivinicolo verrà allevato e preservato fino al giorno in cui il suo erede renderà grande il nome del Primitivo. Il buon Nicola agni inizi del XIX decise di costruire la sua casa al centro della tenuta scegliendo la sommità della collina Spinomarino e dunque coltivare il Primitivo. Dopo il disboscamento e la costruzione di pozzi che fungessero da scorte idriche venne estratta la roccia con la quale fu costruita la casa trullo, alla cui sommità la pietra vede inciso il triangolo, simbolo geodetico che identifica la masseria quale storico riferimento cartografico.
Nelle parole del buon Nicola Petrera si riassumono i valori familiari e l’abnegazione per il duro lavoro in vigna: “chi ama e rispetta la Natura, ama Dio e se stesso”.
A proseguire l’opera di Nicola è il figlio Filippo (1852-1950), detto Fatalone, termine che nel dialetto locale significa Don Giovanni e che da allora designerà il soprannome familiare dei Petrera. Filippo visse fino a 98 anni facendo colazione fino all’ultimo giorno con mezzo litro di Primitivo e mezzo litro di latte appena munto. Dopo di lui Pasquale Petrera (1913-1996) e a seguire, come tradizione vuole, Filippo Vito Petrera.
Filippo, uomo risoluto e dal grande amore per la sua terra, riuscirà a coniugare l’eredità costituita tanto dai vigneti familiari quanto dalla conoscenza del suocero Giuseppe Orfino (1921-2016) e, non senza difficoltà, riuscirà a realizzare il suo sogno più grande: dare lustro al nome del Primitivo di Gioia del Colle e dare la meritata identità a questo vino, elevandone l’eleganza e conferendogli il diritto di essere imbottigliato per la prima volta. Oggi l’Azienda, gestita da Pasquale Petrera, figlio di Filippo, è alla sua quinta generazione, elevata a 385 metri sul livello del Mare in contrada Gaudella, in un punto di Gioia del Colle equidistante dallo Jonio e dall’Adriatico, da cui dista 45 km. Quel triangolo che ancora oggi sormonta il tetto della casa padronale oggi non è più soltanto un simbolo cartografico ma un punto di riferimento solido per chi vuole davvero conoscere l’anima del Primitivo. Desiderosa di conoscere il cammino intrapreso da questa storica cantina del Vino Italiano, Mediterranea Online incontra Filippo Petrera, padre della prima bottiglia di Primitivo di Gioia del Colle, fondatore del relativo Consorzio e l’uomo che ha riscattato il nome e la dignità di questo grande Vino.
Signor Filippo si direbbe che lei ed il Primitivo siate legati da un unico destino…
Spesso si sente dire “Il destino ha voluto così” ma per me il destino è il risultato di come ci si pone nel rapporto con la Natura, ovvero il Creato e il Creatore, e col prossimo ed è quindi semplicemente l’effetto delle nostre azioni.
Chi mai avrebbe immaginato che un bimbo nato in una sperduta campagna di Gioia del Colle, su una lieve altura denominata Spinomarino, nell’anno successivo alla fine della Grande Guerra, discendente di una famiglia che a cavallo fra il ‘700 e l’800 si era insediata in quella zona, avrebbe un giorno riscattato il nome di un grande vino: U’ Pr’mativ’e, Il Primitivo, portandolo in giro in tutto il mondo, finanche all’altra estremità del globo e facendo conoscere l’esistenza di Gioia del Colle sulla carta geografica.
Non deve essere stato facile riuscire a realizzare questo sogno. Ci racconti…
No, non è stato affatto facile ma mii considero fortunato per i tempi che ho vissuto e per il passato che ho conosciuto. I difficili tempi del dopoguerra, la fame, la povertà ti forgiano. Ho intensamente amato i miei genitori riconoscendo loro ogni sacrificio fatto per farmi studiare, affinché non avessi la campagna come unica prospettiva, ma io amavo profondamente il contatto con la Natura e la sensibilità che essa riesce ad a trasmettere ed accrescere nell’animo di chi la tratta amorevolmente e la celebra quotidianamente.
Senza neanche immaginarlo il sacrificio compiuto da mio padre e mia madre per darmi opportunità diverse mi condusse in seguito sulla via che ha legato la mia esistenza alla terra ed al Primitivo: infatti è stato proprio studiando che ho conosciuto i grandi poemi omerici, le figure eroiche e audaci che le animavano. La celebrazione di valori come la tenacia, il coraggio, la forza, l’orgoglio, l’attaccamento alla propria origine mi affascinavano spronandomi ad andare oltre il limite delle mie capacità, ad osare e a sognare. In particolare ho sempre tenuto a mente le parole che Dante Alighieri mette in bocca ad Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”, per indurre i suoi a varcare l’invalicabile, o così ritenuto tale, confine del mondo conosciuto.
Dunque ebbe subito chiarezza sul suo percorso…
Si ma in realtà dovetti inizialmente, e per la gioia dei miei genitori, prender a lavorare per le industrie del Nord, seppur non mancando di mettere sempre orgogliosamente in risalto d’essere del grande Sud, però il mio cuore era e rimaneva legato alla terra con particolare affezione per la viticoltura e la produzione di vino dalle inebrianti uve di Primitivo, pratiche con le quali mi dilettavo con mio padre Pasquale e al quale palesai la mia scelta di restare a casa e badare ai campi.
Mio padre dinanzi alla mia sicurezza e alle mie buone motivazione non poté che approvare e tutt’oggi è stata la scelta più felice che potessi fare: in quel periodo conobbi l’allora fanciulla Rosa, della quale mi innamorai subito ed ora mia sposa; era figlia di un vignaiolo e cantiniere famoso in quel di Gioia del Colle, parlo di Giuseppe Orfino. Da allora le nostre due famiglie si legarono per la vita e per il lavoro.
E come scattò la scintilla che l’ha portata a desiderare la prima autentica bottiglia di Primitivo di Gioia del Colle in purezza?
Per amore. Amore per i valori familiari, amore per la terra e per il Primitivo naturalmente, ma soffrivo quando sentivo parlare del Primitivo solo ed esclusivamente come di un vino da taglio. Io del nostro vitigno ne sono sempre andato fiero, ci abbiamo creduto da sempre e sapevo che l’investimento in fatica, in costante dedizione ed amorevoli cure, avrebbe dato i suoi frutti e che tali frutti sarebbero un giorno stati apprezzati da tutti.
Ricordo che, in particolari annate, riempivo di nascosto alcune bottiglie riciclate, tappandole con sistemi di fortuna, poi le datavo scrivendo il millesimo su un pezzo di nastro adesivo che apponevo sul collo delle bottiglie e le nascondevo al buio, in fondo alla cantina dietro le botti per non generare fraintendimenti tra la mia famiglia e la famiglia Orfino.
Il mio intento era quello di confrontare l’evoluzione dei vini e verificare, fra i due padri, quale procedimento di vinificazione risultasse più efficace per un Primitivo che potesse evolvere in un vino più espressivo e longevo. E ricordo che l’annata del 1981 fu emblematica e significativa per me.
Quando nel 1987, dopo una lunga lotta di carte bollate condotta dal dott. Erasmo Pastore, la storicità del Primitivo di Gioia del Colle venne finalmente riconosciuta e sancita con la neonata DOC Gioia del Colle, iniziai il mio percorso a cominciare dall’ottenimento di tutte le autorizzazioni necessarie per produrre, imbottigliare e promuovere il Primitivo in purezza, il mio sogno, la mia convinzione di forte e radicata.
Nel 1988 potetti finalmente dare la giusta meritata identità ad un vitigno ed un vino di pregio, il nostro amato Primitivo, U’ Pr’mativ’e, coronando così il percorso iniziato con la vendemmia 1987 che finiva nella prima bottiglia a marchio Fatalone, imbottigliando ed etichettando tutto a mano, con una grande annata di mio padre Pasquale. Ebbe un gran successo e fu la mia prima piccola grande vittoria e soddisfazione contro chi sfruttava la grandi potenzialità del Primitivo per una produzione di massa, tenendolo nell’anonimato e costringendolo all’ombra di vini più blasonati, di cui continuava a compensare le carenze fino ad allora.
Una frase che ama particolarmente o che la contraddistingue?
Ricordo una frase attribuita a Johann Wolfgang Goethe ed alla quale mi sono sempre ispirato: “qualunque cosa tu possa fare o sognare di fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, forza e magia. Incomincia adesso”.
Ci sono aneddoti o avvenimenti recenti sul Primitivo a cui è particolarmente affezionato?
Giusto un anno fa mio figlio Pasquale, che porta degnamente e fieramente il nome di suo nonno, ospitò un suo caro e stimato amico. Gaetano Cataldo e la sua compagna erano divenuti già nostri amici stimati attraverso i racconti di mio figlio di ritorno dai suoi viaggi in Campania. Un’amicizia nata per caso e, non a caso, dall’altro capo del mondo: Pasquale e Gaetano si conobbero nel 2009 a Santo Domingo in occasione di un’importante degustazione annuale e fu la condivisione di valori come umiltà, passione, serietà e correttezza a contraddistinguere il loro incontro e a consolidare il loro legame nel tempo.
Nel nostro ospite, a mano a mano che lo conoscevo, emergeva una personalità di spessore, rimarcata anche da piccoli gesti come ad esempio il segno della croce eseguito con massima compostezza e naturalezza prima di iniziare il nostro convivio; mio figlio, per onorare la sua presenza e a mia insaputa, aveva stappato una bottiglia di Primitivo del 1981 del nonno Giuseppe. Un nettare che ha sorpreso, entusiasmato e lasciato a tratti senza parole, finché Gaetano, dopo essersi avvicinato al calice solo per qualche istante, si soffermava a ringraziare dicendo di non meritare una bottiglia così importante, mentre nei nostri cuori lui era forse l’unica persona che potesse dirsi pienamente meritevole di quel gesto di condivisione, l’unica in grado di apprezzarne fino in fondo il valore.
Quali emozioni ha evocato l’apertura di una bottiglia così significativa e di tale pregio?
Appena è stata stappata questa bottiglia di Primitivo del 1981 in me è salita un’ansia tremenda e quasi con reverenziale timore ho portato il calice al naso, ma in un attimo l’ansia ha iniziato a svanire, i miei occhi hanno cominciato a trapelare una forte emozione e, guardando gli altri commensali, vedevo in loro uno sguardo altrettanto luminoso. Dal calice si elevavano ogni volta nuovi sentori, il primo di ciliegia sotto spirito, il secondo di mora selvatica, poi timo e foglie d’olivo. Quando il primo piccolo timido sorso ha lambito il palato, scioccante è stata la freschezza che accompagnava l’orchestra di aromi in trepidante attesa di esser riconosciuti e chiamati per nome.
Dal gelso nero alla noce, dal mirto al chiodo di garofano, e passava il tempo, e via con giuggiole e corbezzolo, e ancora una nota di monachella selvatica della Maiella, prima di lasciar spazio al suo inconfondibile retrogusto di mandorlato e carruba. Posso dire che facevo fatica a deglutire quel nettare stupefacente per quanto gradevolissimo al palato, semplicemente perché ogni sua goccia aveva 37 anni di storia da raccontare e mai avevamo osato una aprire una bottiglia così datata di nostra produzione. Nell’assaporare sorso dopo sorso l’intensità e la fragranza degli aromi sprigionati da quel calice, con gli occhi chiusi, tornavo con la mente a quel lontano passato e gioiosamente rivivevo i frenetici tempi di una vendemmia nella quale non c’era spazio per la stanchezza, perché il canto della natura creava un’atmosfera incantevole e gioiosa. Convenimmo che un formaggio stagionato otto mesi ottenuto da un amalgama di latte vaccino, caprino e ovino sarebbe stato un abbinamento ideale.
Tali gratificazioni, l’esame sensoriale inaspettatamente così complesso nella sua piacevolezza e la conferma che il nostro vino potesse superare la prova del tempo sono per me la miglior ricompensa per aver creduto in un sogno per tutta la mia vita: dimostrare a tutti che dal Primitivo, vitigno delicatissimo e complesso, se osservato meticolosamente durante il suo ciclo vegetativo, valorizzato attentamente, lavorato con serietà ed in piena osservanza dei dettami della Natura, si può ottenere un vino opulento e longevo ponendosi in profondo ascolto del suo messaggio di austero silenzio”.
E adesso? Cosa chiede a se stesso e alla vita Filippo Petrera, cosa desidera fare più di quanto non abbia già fatto per il Primitivo di Gioia del Colle?
La vita è bella se la si vive con intensità. Viverla con intensità significa anche chiedersi cosa si possa fare per gli altri e per tutto quello che ci circonda. Chiedo di poter continuare a dare ancora tanto. Amare è non smettere mai di osservare chi si ama, cercando di prevedere ogni sua nuova necessità e condividerne la gioia, la stessa gioia che provo nel veder correre allegri tra i filari i miei nipotini Filippo David e Cristina Sofia.
Questo è il tipo di amore e di cura di cui soprattutto la Natura, le piante e le viti nello specifico hanno bisogno. Debbo considerare grandioso quanto è stato fatto nel passato, ma è necessario tener conto dei cambiamenti climatici che oggi, a causa dell’egoismo umano, sono in forte accelerazione e dunque bisognerà tirarsi su le maniche: c’è ancora tanto da fare e molto si può e si deve fare per aiutare l’intero ecosistema e noi stessi.
Quando parliamo del Primitivo, chi non lo conosce a fondo tende ad attribuirgli un significato ascrivibile a qualcosa di grossolano, ma invece è un vitigno delicato, sensibile, signorile, di finezza e fascino cangianti come i suoi profumi e aromi, componenti che variano tangibilmente di annata in annata, rendendolo oltremodo attraente ed intrigante. A questa pianta che di congenito ha tutto, non si può chiedere nulla di più. Siamo piuttosto noi doverci adoperare per rendere la sua espressione al meglio.
E’ necessario attivarsi per valorizzare ulteriormente il Primitivo di Gioia del Colle e lo si sta facendo. Siamo promotori, nell’ambito del Consorzio di Tutela, della nascita della D.O.C. ed il mio impegno è di potermi continuare ad adoperare come ho sempre fatto.
Per fare apprezzare il Primitivo di Gioia del Colle in tutto il suo potenziale abbiamo organizzato due verticali per il nostro 30° anniversario. La prima a Londra lo scorso Marzo con Jancis Robinson e la seconda a New York in Novembre con Alice Feiring. Per ognuna di queste occasioni, sono state stappate due antichissime bottiglie: una del 1976 e l’altra del 1981 dimostrando agli scettici che il Primitivo di Gioia del Colle è longevo oltre ogni più rosea aspettativa. Questo è uno dei propositi che mi ero posto quando nel 1988 imbottigliavo la prima bottiglia dell’annata 87 del Fatalone.
Cosa molto importante da perseguire rimane la valorizzazione del sito con un momento dedicato a Don Filippo Indellicati, colui che selezionò e piantò, nella zona Carraro Terzi di contrada Liponti 80 are di un vitigno ignorato che per la sua peculiarità fu dai contadini denominato “U’PR’MAT’VE”. Ebbe così iniziò a Gioia del Colle una storia che si è via via diffusa sul territorio pugliese e che oggi, grazie a mio figlio Pasquale, sta conquistando il mondo.