In principio l’orientamento fu sensoriale e istintivo. L’uomo era un tutt’uno con la natura e sapeva ben decifrare il linguaggio del mondo e il lungo respiro del mare, attraverso l’osservazione accorta dei fenomeni naturali, della volta celeste e con l’interpretazione degli spostamenti stagionali dei pesci e del volo degli uccelli. Un’attitudine innata all’orientamento condivisa con le creature migranti accentuava, negli atavici uomini di mare, una sensibilità biologica alle forze geofisiche che tutt’ora regolano le leggi dell’orbe terracqueo, indipendentemente dal progresso e dall’assurda volontà di asservire Madre Natura.Anteriore alla memoria dell’uomo, l’andar per mare è un’arte praticata sin dalla preistoria e tramandata, in tempi remoti e dagli antichi piloti, oralmente. Arte severa, dura disciplina, palestra di vita. Infatti là fuori, nell’immenso e profondo blu, dove non restano tracce e non ci sono sentieri, ardimentosa fu l’impresa per coloro che per primi l’affrontarono. E il mare si sa non è mai stato amico dell’uomo ma complice dell’umana irrequietezza! Complice a tal punto da stimolarne l’intelletto, lo spirito d’indagine, la propensione ad osservare il sole, le stelle, i venti, le correnti e, non ultime, le capacità creative. Dopo la prima rudimentale forma di navigazione, che non si fatica immaginare compiuta a dorso di un tronco d’albero, si è passati dalla nautica sensoriale all’empirismo, dalla navigazione astronomica alla scienza moderna.
Ma non si può non ammettere che nella storia di tutte le civiltà marinare la navigazione marittima si è affermata grazie ai risultati di due distinte attività: l’arte nautica appunto e l’architettura navale. L’umana inventiva ha portato le popolazioni mesopotamiche a discendere il Tigri e l’Eufrate con il “kalek”, caratteristica imbarcazione del 3500 a. C., ma l’invenzione della vela, stando ai Sumeri a opera del leggendario Gilgamesh, sembrerebbe ancor più datata; addirittura risalente al 6000 a. C. è la piroga monossile di 10,5 mt rinvenuta nei pressi di Bracciano; riconosciuto era il pregio delle costruzioni navali degli Egizi che passarono dagli scafi di papiro a quelli in tavole di legno, legate tra loro da cime di fibra di lino o canapa, fino ad allestire scafi sempre più complessi. Ma verso il 900 a. C. a scrutare il Mediterraneo con apotropaici occhi sarà la flotta fenicia, la più grande ed efficiente del mondo antico. “Gaulos” costruiti in legno di acacia adibiti al trasporto merci e “pentera” , dal fasciame in cedro profumato, per la guerra. Scambi commerciali e lotte fra popoli. Certo è che, indipendentemente dal fatto che si trattasse di “triremi”, “galee” ( dal greco “galeas”, ossia pescespada) o “liburne”, la nave è stata il primo vero veicolo della civiltà e di eroiche gesta; dai Fenici ai Greci e dai Cartaginesi ai Romani, fino alle grandi potenze coloniali, essa ha rappresentato l’irrinunciabile mezzo per l’interscambio culturale e commerciale, ma anche lo strumento per espandersi, assoggettare e scrutare l’Ignoto. E per comprendere quanto la storia della civiltà coincida con la storia dell’evoluzione dei trasporti marittimi basta riflettere sul senso di questa citazione: “ 40 km di deserto dividono di più gli uomini che 500 miglia di mare”.
La storia però non è fatta dai mezzi bensì dall’uomo che li manovra e li impiega per i suoi fini, nobili o infimi che siano. Dove giungerebbe mai uno scafo senza una esperta mano al timone e l’acume dell’uomo a governarlo? Potevano dunque le vele o i remi condurre le imbarcazioni verso nuove inesplorate terre senza quell’indomito coraggio, quell’inarrestabile spirito di libertà e quello scibile marinaresco a sospingere l’umanità tutta, sedarne la sete di sapere, sempre inappagata, lungo rotte non ancora tracciate? Non il mezzo dunque, ma l’uomo, il marinaio quale artefice di questo peregrinare per mare e per il mondo, indiscusso protagonista di un cammino senza indicazioni, avventuroso, irresistibile e folle, che concede ricchezze e conoscenza ma cela perigli mortali, tesori terreni o immateriali e incalcolabili naufragi. E richiede supplizio, scienza e pazienza. L’uomo di mare a specchiarsi nell’abisso e confrontarsi con se stesso, la sua esperienza e la perizia in navigazione con i pochi strumenti a disposizione. Strumenti che nel corso dei secoli sono stati perfezionati o quasi soppiantati dall’automazione navale. Dall’orientamento con gli astri e i portolani antichi si è passati ad escogitare la Rosa dei Venti e di conseguenza all’uso di pinace e bussola magnetica. Un rudimentale scandaglio sondava i fondali indicandone la profondità. Insorse la necessità di far proprie le conoscenze geodetiche, ed ecco le prime carte nautiche dapprima orientate verso Est, poi a Nord; ma fu grazie all’astronomia (un primo riferimento della nautica stellare è contenuto nell’Odissea) che avvenne il passaggio dall’empirismo e dalla navigazione stimata alle scienze matematiche, alla geometria e trigonometria, agli allineamenti stellari ( famoso l’allineamento Merak-Dubhe per individuare “Cinosaura”) e all’individuazione della latitudine con la misura dell’altezza degli astri, in particolare della Stella Polare, chiamata anche stella fenicia, usando l’astrolabio inventato dagli Arabi. Mancava la sicurtà della coordinata tempo: la longitudine.
Ma il navigante accorto non ebbe bisogno dell’avvento del cronometro marino, per quanto utile, avvenuto solo nel 1760, quando già l’epopea della vela volgeva al declino: infatti Amerigo Vespucci ancor prima e durante una delle sue traversate per il Nuovo Mondo, si avvalse delle solide conoscenze derivategli dall’astronomia nautica per individuare la longitudine tramite il metodo delle distanze lunari. Tanto disumano e prode lavoro, nozioni teoriche e approfondito studio da tenere in equilibrio e a mente fredda nonostante il moto ondoso, ma anche tanta speranza e poesia. L’uomo di mare non può che essere un poeta: sorprende le aurore e l’albeggiare, assiste ai tramonti più divampanti che inceneriscono tutte le cose effimere e meschine della terraferma, ma soprattutto misura il suo cammino, di meditabonda e introspettiva solitudine, con filosofia e, memento dei miti greci, col riconoscimento delle costellazioni. Costellazioni che tutt’ora vigilano sul cauto navigante, ma che si vedono offuscare dai servomeccanismi (giropilota, carteggio elettronico e risoluzione automatica dei problemi di cinematica navale), dall’avvento della radionavigazione (Loran, Decca e Omega) e dalla nuova uranografia satellitare. Le radiocomunicazioni a bordo sono essenziali ( il c.i.r.m. ne è un esempio) e la nuova costellazione artificiale del sistema gmdss e gps disciplinano la ricezione di informazioni preziose e del punto nave. La girobussola non è inficiata dalla variazione magnetica e non necessita delle compensazioni indispensabili per la bussola normale. Il radar è, non a torto, considerato “l’occhio nella nebbia” ed è utile all’Ufficiale di rotta nelle zone ad alta densità di traffico, ma può vedere un iceberg?
In verità gli strumenti funzionano, generalmente, ma il mare, talvolta, continua ad essere senza spiegazioni e all’improvviso chiede di fronteggiare l’irreparabile, l’inaspettato. Ad un vero marinaio bastano le stelle per navigare ed è per questo che l’Arte Nautica non può essere sostituita dall’automazione, perché è solo con le conoscenze tramandate ed acquisite nel corso dei millenni che si possono affrontare le avarie e le emergenze. E’ dovere del buon ufficiale tutt’oggi saper destreggiarsi col sestante, risolvere i “problemi delle correnti”, discriminare le informazioni pervenute da un solo metodo confrontandole con altri sistemi; ma non a caso la stima a priori del vento, dello scarroccio e della deriva qualificano il marinaio, per quanto a bordo, oltre al caro vecchio barografo vi sia un ricevitore fac-simile per i dispacci meteorologici. E’ principalmente con l’orientamento che scaturisce dall’Arte Nautica, affiancata poi dalla strumentazione, che si conduce una nave in sicurezza, con prudenza e perizia, da un punto all’altro del globo, poiché nella misura in cui progredisce la scienza e la tecnologia, se così non fosse, diminuirebbe il valore personale dell’uomo e la sua capacità di confronto con le forze della Natura.