Il silenzio di Heunrich Fussli
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Dio del silenzio, apri la solitudine.

Con queste parole Salvatore Quasimodo chiude la lirica Thanatos Athanatos (La Morte), contenuta nella raccolta “La vita non è sogno”. Dai versi si libera, con voce chiara e arrendevole, l’angoscia insita nell’enigma dell’esistenza umana: il dissidio vita/morte. L’ineluttabilità della “fine” che aspetta ogni uomo, da cui scaturisce spavento e mistero.

E’ l’epilogo dell’esistenza umana. E non solo. Si può morire anche essendo vivi. Ci si può sentire condannati a morte per la vita, nella vita. E decidere di darsela, la morte.

Prospettive differenti al riguardo fanno sì che un simile gesto sia condannato e deprecato o accolto e compreso.

Riconoscere la sacralità della vita è saggezza, di chi armoniosamente si concilia con il proprio io? Ed è, viceversa, inettitudine ed estrema fragilità, scegliere di gettare la spugna perché non si riesce?

Tante le scuole di pensiero. La storia e la letteratura sono costellate da illustri suicidi: Catone Uticense, l’Infelix Dido virgiliana, lo stoico Seneca, per citarne alcuni. Ma la totale condanna cristiana del suicidio, pur nell’umana pietà, di cui era figlia anche la posizione del sommo Dante, suona anacronistica se la si rapporta all’odierno dissidio dell’uomo moderno.

Giudicare se la vita valga o no la pena di essere vissuta è una questione etica ampiamente dibattuta.

E’ prettamente un problema di natura filosofica, secondo Camus. Egli studia quell’atto estremo, che non ha più niente di “eroico” e di leggendario del morire per una nobile causa, come fece il succitato Catone, suicida ad Utica in nome della libertà. E’ piuttosto il gesto lucido di chi prova, improvvisamente, l’irruenza prepotente dell’Assurdo che devasta la propria quotidianità.

Tale riflessione filosofica ha sviluppo ne “Il mito di Sisifo” (1942) e trova spunto nel mito greco di chi – l’arguto Sisifo – in quanto ribelle e refrattario all’obbedienza nei confronti degli dei, subì una condanna per l’eternità, quella di compiere una fatica inutile: portar sulle spalle un enorme masso fino in cima ad una montagna per poi, una volta arrivato, vederlo rotolar giù e riniziare daccapo.

Specularmente, fuori dal mito, a che serve affannarsi tanto per risolvere l’enigma dell’Assurdo, che nasce e muore con noi? L’analisi che ne fa l’autore si focalizza sul nostro incontro con il mondo, che è manchevole di ragioni, assurdo, appunto. E alla luce di ciò il suicidio si presenta come la “soluzione” più logica, a chi realizza che comunque bisogna morire ed ogni sforzo di evitarlo è vano e che non abbiamo una conoscenza empirica del “post mortem” cui aggrapparci.

La filosofia dell’assurdo di Albert Camus rappresenta il tentativo di sviscerare la problematica della società novecentesca, intrappolata nei suoi dilemmi del malessere, del senso di vuoto che colma gli animi e dell’insoddisfazione, che pensatori suoi contemporanei definirono ora “nausea” (J. P. Sartre) ora “inquietudine” ( M. Heidegger) e che egli, invece, chiamò “assurdo”. Questo il concetto principe di un pensiero filosofico maturato nel contesto socio-culturale dell’Esistenzialismo, imperniato sull’idea che la vita si misuri non nella qualità dei momenti che la compongono, bensì nella “quantità” dei suoi episodi. Quasi a volerla fagocitare, vivere ed esperire il più possibile. Non, quindi, “centellinare sensazioni squisite ed impareggiabili, ma assaporare e fruire al massimo”. La “fiamma pura della vita” è l’unica cosa che vale in assoluto, dice Camus.

Qual è il dilemma increscioso che dilania l’esistenza umana? Trovare una comprensione completa, integrale ed esaustiva del mondo. E la consapevolezza di non poter, né saper, arrivare a tanto fa nascere il conflitto interiore dell’uomo. L’essere umano, infatti, vive nel mondo, ne riconosce i “sintomi”, lo assapora, lo classifica, lo studia, lo usa … ma non lo conosce affatto. Egli è biologicamente legato ad esso quasi come da un cordone ombelicale, è quindi obbligato ad usufruirne per il proprio innato spirito di autoconservazione così come, fa esempio pratico Camus, una ferita corporale, da sola, si rimargina inesorabilmente.

Appurato che non è umanamente possibile conseguire una verità in senso assoluto ed oggettivo, poiché di ogni realtà esistono tante verità, l’uomo è perduto. Si smarrisce nella densità di un mondo che lo aliena, pur attraendolo. Sa di prendere posto nel “Tempo” della esistenza, la sua, e di dover percorrere una curva complicata. Si sente “preso” da un tempo che gli fa orrore, che è il suo peggior nemico.

La riflessione filosofica di Camus è finalizzata a dimostrare come, in questa lacerazione interiore, il comportamento umano sia destinato a sfociare in qualcosa, un “atto finale” della tragicommedia esistenziale: accettare tale incompiutezza che mai avrà esito risolutivo, se non con l’arrivo, naturale, della morte; oppure darsela, la morte, suicidandosi.

Lo spirito dell’uomo deve, a questo punto, dare un giudizio ed apportare una conclusione a questo malessere.

E se per Sartre con il suicidio si acuisce maggiormente l’Assurdo, per Camus, invece, se ne esce.

Sisifo è la metafora dell’uomo assurdo, moderno, emancipato, che pretende di farsi carico di tutte le complicazioni che la vita gli sbatte in faccia. Egli trova spesso nella Religione un luogo di rifugio, in cui arenarsi per tentare di esorcizzare l’irrimediabilità della morte; cadendo preda di dogmi e superstizioni rinuncia inevitabilmente ad un proprio pensiero autonomo. Ma si dibatte e poi reagisce, l’uomo Sisifo; perché in realtà vuole vivere, ama la vita. E’ con essa in un rapporto di amore-odio, deve riappropriarsi dell’autocontrollo combattendo, senza illusioni, per riuscire a viverla.

E la sintesi finale di questa dicotomia è la Pietà. L’uomo, infatti, si riscopre come un “essere sociale”, che necessita di condivisione, di somatizzare insieme agli altri la sua sofferenza.

L’individualismo lascia dunque spazio all’empatia.

E’ possibile scorgere uno spiraglio di speranza in questo esito, che ricorda l’unione tra gli individui auspicata quasi con rassegnazione dall’ultimo Leopardi, nella Ginestra. L’uomo solo che trova salvezza negli altri suoi simili. Che si allontana dalla morte vivendo il suo presente e ignorando l’avvenire:

Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile […] Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.

La rabbia iniziale si addolcisce col tempo, domande che non trovano risposta portano ad un soliloquio (che pretende di essere dialogo) con l’altro sé. Quello che parla, stavolta, è un uomo che ancora attende, si interroga ma senza rabbia – divorato dal dubbio – sul senso dell’aldilà, sul perché della natura umana corruttibile ed imperfetta. Il percorso continua lungo la strada della vita.

Forse l’Assurdo non si risolve drasticamente nel darsi la morte, piuttosto predisponendosi all’accettazione dei limiti della natura umana dinnanzi all’imperscrutabile.

Attendendo il Destino.

E il cerchio si chiude così come si è aperto, nelle parole di Salvatore Quasimodo:

Senza un nome che ricordi/le lacrime i furori di quest’uomo/sconfitto da domande ancora aperte/il nostro dialogo muta;/diventa ora possibile l’assurdo”.

Fonti:

S. Quasimodo, Thanatos Athanatos, in “La vita non è sogno”, 1946-1948.

A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942.

1 thought on “L’uomo Sisifo si suicida ne L’Assurdo

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