Fondazione Emilia Bosis
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“Scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile”.
Franz Kafka

Le comunità terapeutiche in Italia sono nate prevalentemente nella seconda metà degli anni ’90, con la consegna, prima di tutto, di fungere da “contenitore” per gli ultimi (non di certo pochi) pazienti, fino ad allora ancora ospitati negli Ospedali Psichiatrici e consentire la dismissione di questi ultimi.

In seguito alla chiusura degli ospedali psichiatrici, dove i pazienti vivevano in condizioni per lo più spaventose, con un’organizzazione sanitaria quasi sempre orientata alla semplice custodia e quasi mai alla riabilitazione ed al reinserimento, sono sorte, dunque, tante piccole o medie strutture, definite comunità protette, gruppi appartamento, case famiglia in cui i sofferenti mentali hanno trovato ospitalità, ma dove immediatamente si sono palesate importanti problematiche, a partire dal loro diffondersi disomogeneo sul territorio nazionale e con gravi ritardi che hanno di fatto collocato il problema dell’assistenza al paziente psichiatrico tra i fantasmi del manicomio e strutture territoriali fantasmatiche. Il rischio, infatti, fin da subito è stato quello di lasciar vivere dei piccoli manicomi, seppur puliti e ospitali, ma comunque chiusi e auto-referenziati”. La sfida, non consisteva semplicemente nell’aprire nuovi contenitori di “disabilità” o “cronicità”. La cultura manicomiale infatti, non muore come semplice conseguenza della chiusura legislativa e strutturale dei manicomi. Tanto per fare un esempio, il personale infermieristico delle comunità terapeutiche per lungo tempo è stato per lo più selezionato e reclutato senza alcuna formazione professionale specifica e, al di là di casi eccezionali, ha subito anch’esso un lento percorso di istituzionalizzazione e di totale demotivazione al lavoro. Un destino che si incrocia con quello dei medici che subiscono via via lo stesso percorso adeguandosi al degrado di una struttura sanitaria non programmata per curare né per riabilitare, ma per “mantenere in vita” e “custodire”. Portatori anch’essi della nostalgia di un fare antico che è sostituirsi all’altro, è accudimento, a volte anche amorevole, ma pur sempre un po’ pietistico e mai riabilitativo.

L’arma con cui lottare insistentemente contro simili rischi è l’integrazione sociale, la compartecipazione con “ciò che è il fuori”. Lo sanno bene alla Fondazione Emilia Bosis di Bergamo, organismo istituzionale no profit, delegata ad occuparsi, curare e riabilitare direttamente persone che soffrono a causa di disturbi mentali, intervenendo sulle manifestazioni psicopatologiche e sociali del paziente attraverso mirate metodologie di intervento terapeutico e socio-riabilitativo erogate da un’équipe di professionisti e da volontari del settore. La Fondazione, dedita alla formazione e divulgazione di una nuova cultura sociale in campo psichiatrico, socio-assistenziale e riabilitativo, è impegnata attivamente in numerose iniziative di promozione umana mediante l’utilizzo di diversificate ed articolate attività culturali, ricreative, ludiche ed espressive; si avvale di laboratori artistico-teatrali (condotti in collaborazione e con la consulenza di professionisti del settore) e dell’utilizzo di complesse attività occupazionali e riabilitative; investe risorse economiche e professionali per concorrere al miglioramento quantitativo e qualitativo della vita dei pazienti psichiatrici. La sua è una politica di prevenzione, sperimentazione e innovazione, di comunicazione e promozione culturale che aspira alla costituzione di un orizzonte in cui ogni soggetto può sperimentare e poi vivere “la dignità dell’essere in quanto tale”.
Nello specifico, l’approccio multidisciplinare delle varie professionalità coinvolte nella gestione della comunità consente di rivolgere una particolare attenzione all’ascolto della creatività individuale, alla qualità ambientale e alla tutela di una dimensione etica nei rapporti che intercorrono tra le persone della comunità. Le innovazioni metodologiche non si pongono unicamente come lotta al pregiudizio; sono infatti finalizzate a valorizzare strategie di intervento basate sulla socializzazione delle problematiche del disagio, l’integrazione territoriale, il recupero dell’autonomia e della comunicazione interpersonale, lo sviluppo delle potenzialità del singolo e il rafforzamento della sua autostima.

Le innumerevoli attività svolte dalla Fondazione sono da un lato l’occasione per riscoprire il malato come persona, osservarne i progressi, renderne visibile il mondo nascosto e svilupparne le abilità necessarie al reinserimento nei rispettivi ambienti di vita, dall’altro rappresentano il tentativo di stabilire una relazione emotiva tra i pazienti e il mondo esterno.
Nell’ambito delle iniziative della Fondazione Bosis, colpisce senza ombra di dubbio il valore attribuito alla nozione di paesaggio, in particolare nei progetti sviluppati da Cascina Germoglio, una delle tre comunità terapeutiche create dalla Fondazione. Il paesaggio assume una valenza importante rispetto alla sofferenza psichica e ai percorsi di cura perché si pone al di là, è altro, rispetto ai pesanti condizionamenti materiali che caratterizzano la nostra società. L’obiettivo è quello di favorire esperienze che possano contribuire a realizzare e promuovere una rivitalizzazione sociale significativa. Sono, infatti, stimolate le dinamiche di gruppo: le persone, accomunate dai medesimi obiettivi, sono considerate ugualmente importanti, la condivisione di spazio e tempo, l’esperienza di vita comune appaiono finalizzati alla ricerca di se stessi, alla riappropriazione di sé, del proprio corpo e della propria esistenza, una vera e propria dichiarazione di libertà.

La Fondazione, in particolare, ha dato vita a un progetto che ancora oggi la pone all’avanguardia nell’ambito della montagna-terapia: il trekking internazionale. Nell’ottobre del 1998, infatti, un gruppo di pazienti psichiatrici si recò, sotto la guida dell’alpinista Agostino Da Polenza, in Nepal, alla piramide del Consiglio Nazionale delle Ricerche posta a 5.050 metri nella valle del Kumbu, alle pendici del monte Everest. La spedizione richiese, oltre ad un numero di operatori congruo alle esigenze, una valida équipe di supporto all’escursione (guide, sherpa per il trasporto di attrezzature pesanti etc.) e un’adeguata preparazione fisica da parte dei pazienti, viste la difficoltà dell’escursione e la particolare altitudine del percorso scelto. Due anni dopo (dicembre 2000), il gruppo “LiberaMente” decise di recarsi in Patagonia, svolgendo un percorso itinerante tra Argentina e Cile. Per poter raggiungere mete così lontane, occorre prepararsi a un lungo percorso che si svolge utilizzando mezzi di trasporto che possono creare qualche problema nel paziente psichiatrico, come ad esempio l’aereo. Occorre quindi che fra paziente e operatore vi sia una grande fiducia reciproca per poter superare insieme quelle paure che possono precludere la possibilità di usufruire di un’opportunità unica come è stato il trekking nella Terra del Fuoco. A contatto con la natura incontaminata incontrata lungo il percorso, la riabilitazione psichiatrica diviene un’esperienza di vita in comune da cui emerge la necessità di “fare gruppo” e di condividere insieme non solo la fatica ma anche la soddisfazione di aver portato a termine l’impresa e la consapevolezza di esplorare luoghi unici proprio perché sono stati raggiunti a piedi, senza servirsi della comodità dei mezzi di trasporto. Tra il gennaio e il febbraio del 2003, un gruppo di ospiti della Fondazione Bosis ha affrontato un lungo viaggio in Africa, durante il quale hanno visitato il Kilimanjaro National Park in Tanzania. Camminare in montagna vuol dire essere consapevoli dei propri limiti, fisici e psichici, ma anche fare di tutto per superarli e andare oltre grazie alle forze e alla determinazione di ogni componente del gruppo. L’esperienza di montagna-terapia della Fondazione Bosis è stata decisamente positiva e i responsabili di tale iniziativa hanno riconosciuto l’importanza che tale tecnica ha nell’ambito del percorso riabilitativo dei pazienti. Grazie a questi progetti i pazienti hanno avuto modo di mostrare le proprie capacità, dal momento che è stata data loro la possibilità di riproporsi in modo nuovo, lontano dai luoghi di cura che agli utenti spesso ricordano la parola “malattia” piuttosto che quella di guarigione.

Caratteristica innovativa dell’intero percorso di recupero studiato per gli ospiti della Cascina Germoglio è il progetto “Equus natura solidale”, finalizzato ad impegnare fisicamente e culturalmente i pazienti mediante l’ippoterapia. Il cavallo diviene un compagno di viaggio con cui e tramite cui comunicare, assaporare gli odori della campagna, affrontare con semplicità i travagli del cammino. Il progetto mira all’integrazione di corpo, mente, desideri e immaginario, attraverso la possibilità di lavorare la terra, accudire gli animali, apprendere, viaggiare, dialogare, giocare o praticare altri sport, nell’ottica di una riscoperta sociale del proprio inevitabile patrimonio di dolore, di diversità, quale forma di comunicazione nuova e altra alla quale tutti debbono e possono attingere ripartendo da se stessi. Obiettivo del progetto è far emergere le differenze individuali di tutte le persone coinvolte, risorse preziose che se ben amalgamate possono costituire l’asse portante di ogni individuo e consentire un’esperienza di vita significativa. Accanto al cavallo, infatti, il vero protagonista di Equus è il Gruppo: le attività sono nate ed esistono perché c’è collaborazione e reciprocità tra i partecipanti . Il Gruppo offre protezione al singolo e la possibilità di rafforzare il proprio io e di aumentare il proprio valore, un percorso che implica rispetto e responsabilità reciproca e promuove lo scambio affettivo che scaturisce dalla comunicazione aperta.
Merita un accenno anche il “Progetto Bicicletta” nato dall’idea di creare uno spazio ludico ed aggregativo entro cui sviluppare una serie di abilità di base e l’interesse per la disciplina da cui far scaturire in un secondo momento la costruzione di un gruppo entro il quale promuovere relazioni adeguate tra i suoi componenti, oltre a favorire la distensione, l’irrobustimento muscolare e il rilassamento.

Evento giunto alla quarta edizione è “Cascina Germoglio in festa”, nato allo scopo di creare un momento di incontro all’interno della comunità tra operatori, volontari ed ospiti che si impegnano al massimo per offrire una festa diversa e ricca di spettacoli equestri e cinofili, esposizioni di auto e moto. In occasione dell’ultima edizione, è stata presentata la piece teatrale “Circo Bosis”, prodotta in collaborazione con Sipario Toscana la Città del Teatro di Cascina (Pisa): una carovana di persone e animali che rappresentano i valori della follia in un viaggio che coinvolge alcune prestigiose città italiane e internazionali e che alludendo alle origini e ai misteri di esistenze marginali, si ispira alla sacra rappresentazione utilizzando atmosfere del circo, simboli e sonorità del melodramma.
Di nuova nascita sono, invece, “L’Hostaria Germoglio”, un vero e proprio ristorante che si trova nell’area maneggio-fattoria di Cascina Germoglio ed in cui oltre a cuochi professionisti, sono impegnati gli ospiti della Fondazione che vi lavorano come camerieri, e la “Scuola Pony”, sorta per offrire ai bambini del territorio bergamasco l’opportunità di imparare a cavalcare, ma soprattutto per trasmettere ciò che la Fondazione intende per cultura equestre.
Tra le altre attività promosse dalla Fondazione, appare doveroso ricordare: la mostra e la pubblicazione “L’arte dei Puri” (1999), lo spettacolo “Buio e Altro” (1999), il film documentario “Il sottile filo rosso” (2000), la pubblicazione del libro “Oltralto” (2006), oltre alle molte iniziative e pubblicazioni sulle attività formative e di socializzazione.
L’équipe operante presso la Fondazione Bosis, consapevole che all’interno di ognuno esista un potenziale, presente e tuttavia sconosciuto, latente e suscettibile di essere scoperto o riscoperto e approfondito, si impegna affinché il paziente scopra un modo diverso di relazionarsi con gli altri, le parti sane, sempre presenti, ricevano una motivazione forte a riattivarsi e attraverso una crescente e costante ri-socializzazione, integrazione territoriale, recupero dell’autonomia, dell’espressione e comunicazione sociale da parte dei soggetti ai quali sono rivolte le prestazioni, divenga per essi accessibile un livello esistenziale meno doloroso. La sfida, come sottolineato da Pier Giacomo Lucchini, Presidente della Fondazione, non è tanto quella di proporre un sintesi conciliatrice tra sano e malato, normale e folle, quanto quella di proporre un cambiamento culturale che inviti a scoprire la persona al di là di ogni retaggio ideologico. Non un’operazione di rimpianto di ciò che sarebbe dovuto essere nel passato, ma uno sforzo nel presente e nel futuro per ritrovare il senso autentico, oltre che la solidarietà, che è riabilitazione.

Desidero ringraziare il Dott. Pier Giacomo Lucchini e il Dottor Marco Facoetti, rispettivamente Presidente della Fondazione Bosis e Responsabile di Cascina Germoglio, per avermi accordato, oltre alla loro disponibilità di tempo, il permesso di scrivere della Fondazione e del suo operato e per aver generosamente messo a mia disposizione materiale informativo prezioso e difficilmente reperibile necessario alla redazione dell’articolo.

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