Il voto “a maggioranza” appare oggi come il più logico e scontato dei metodi di voto. Dal più piccolo al più grande contesto, che si tratti di una piccola o una grande assemblea, è il “maggiore numero” a determinare, generalmente, la scelta fra più opzioni, è la conta finale che definisce per aggregazione di preferenze, per elezione, assoluta o relativa, l’esito finale. Ma non è sempre stato così.
Un sistema che oggi ci appare quasi scontato, ha affrontato un lungo percorso storico prima che venisse accolto e, ancora oggi, alcuni contesti ne appaiono esclusi con ragionamenti e circonlocuzioni giuridiche e filosofiche che ne vietano l’applicazione.
Nell’Atene di Pericle (V secolo A.C.), ad esempio, è la maggioranza dei cittadini a prendere le decisioni: la Polis-Stato greca – fulgido esempio di democrazia diretta – riconosce nel maggior numero il metodo più equo per prendere decisioni per la collettività.
Tuttavia, anche in questa antica democrazia, culla della democrazia occidentale, a godere del diritto di cittadinanza sono pochissimi cittadini (ossia uomini, liberi e con un certo status economico) per cui, di fatto, è la maggioranza all’interno di una minoranza a prendere decisioni per la collettività.
I più grandi filosofi del tempo non mancano di sottolineare alcune distinzioni: Aristotele, nel valutare che tutti i cittadini insieme portino più sani giudizi non meno retti di qualsiasi singolo sapiente, punta a elogiare la praticità delle maggioranze dal punto di vista tecnico; mentre Platone, costatando l’infondatezza dell’uguaglianza fra gli uomini, vede nel saggio-filosofo l’unica figura in grado di governare in modo illuminato.
Aristotele appare come il difensore della capacità intellettuale della folla; Platone, al contrario, evidenzia che si contrappone al governo dei saggi il governo della moltitudine.
Nell’Antica Roma, al contrario, a causa dello spirito autoritario la maggioranza era priva di senso per cui essa non è un fattore portante della costituzione romana. La struttura stessa delle società impedisce la frammentazione della sovranità che è considerata come indivisibile e della quale ciascuno è portatore integralmente.
Uno dei pochi momenti della vita pubblica in cui prevale la maggioranza è l’elezione dei rappresentanti dei comizi tribuni, seppure con metodi approssimativi come una sorta di scrutinio parziale penalizzante nei confronti delle tribù di minor conto.
Non è comunque evoluzione di poco conto se si considera che nelle società di tipo primitivo è richiesta sempre l’unanimità.
In tali contesti, infatti, la scelta è posta al massimo fra due opzioni con modalità che travolgono la posizione eventualmente dissenziente del singolo. Fra le popolazioni germaniche che Cesare descrive efficacemente nel suo De Bello Gallico, l’acclamazione (ossia il battere degli scudi) è, non a caso, l’espressione della scelta espressa dal gruppo/tribù dove la voce del singolo (voce intesa come “voto”) viene travolta e inglobata dal “clamore” della moltitudine che alla fine appare come unanime.
Qui è la collettività a essere considerata l’elemento base costitutivo della società, e il tentativo del singolo di dissentire è visto come atto eversivo. Consentire piuttosto che dissentire, rappresentava dunque un modo per sancire la propria appartenenza identitaria.
Altri esempi di voto all’unanimità sono offerti dalla Storia. È nota quella accordata nel 1793 dalla convenzione nazionale francese alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e, nelle attuali assemblee sovrannazionali, si è proceduto talvolta a elezione per acclamazione unanime tutte le volte in cui non si manifestavano opposizioni nelle candidature uniche.
Ambito totalmente differente è rappresentato dalla Chiesa in cui ha ugualmente prevalso l’unanimità e dove, alla rozza materia del computo numerico, si è sostituita una sorta di “illuminazione divina” secondo la teoria delle maior et sanior pars, ossia che nella parte maggiore era identificata la parte più sana, quella nella quale il Soprannaturale esprime il suo responso.
Tutt’ora nel Conclave per l’elezione del Pontefice non sono note le minoranze (e non è un caso che il Conclave – letteralmente chiuso a chiave – sia un luogo non pubblico e inaccessibile) ma solo l’espressione della totalità senza alcuna somma algebrica. Nel Conclave, nella segretezza dello scrutinio, la maggioranza equivale alla totalità e alla “voce di Dio”.
Emerge chiaramente in questo breve excursus come si tratti di meccanismi che tendono a tutelare la collettività con usi, apparati giuridici e/o teologici che tendono a impedire che le minoranze stravolgano e mettano a rischio la collettività o il gruppo.
E non è neppure un caso che spesso le stesse modalità del dissenso possano essere espresse con metodi che scoraggiano, per usare un eufemismo, chi ne è promotore: nell’età comunale italiana a partire dall’XI secolo, al consenso è spesso lasciata la posizione più sicura (es. restare seduti) e al dissenso quella più pericolosa (es. alzarsi in piedi).
Parlare di democrazia significa necessariamente parlare di maggioranza perché è nell’essenza stessa dei governi democratici che il dominio della maggioranza sia assoluto. Ma alla maggioranza può essere delegata qualsiasi decisione? Il francese Alexis de Tocqueville – filosofo, giurista, sociologo, politico – già nel XIX secolo aveva individuato nella sua principale opera “La democrazia in America” (1835-1840) quella che chiamava tirannide della maggioranza.
Il riferimento specifico riguardava gli Stati Uniti dell’epoca, simbolo di libertà e autodeterminazione rispetto all’Europa soggiogata ancora dalla monarchia assoluta.
Ancora oggi, il rischio che il principio di maggioranza sia assolutizzato è vivo, ed espressioni come quella di tirannide maggioritaria non sono affatto cadute in disuso. La preoccupazione si pone, attualmente, in circostanze che non riguardano scelte fra opzioni di carattere tecnico bensì quando entrano in gioco valori legati alla persona e, in ultima istanza, ai fondamenti stessi della democrazia.
Sono le cosiddette libertà individuali che possono essere messe in discussione dalle maggioranze laddove vi sono principi che non possono essere oggetto di negoziazione, valori etici davanti ai quali ciascuno deve essere libero di giudicare da sé.
Democratico è, infatti, lo Stato che a maggioranza sancisce i diritti e li preserva ad oltranza da una decisione maggioritaria che, violandoli, si dimostrerebbe tirannica. Pur nell’efficacia pratica del metodo, il pericolo si sostanzia nell’attribuire “ai più” l’incontrastato riconoscimento di infallibilità mentre ad essi non sono connaturati per automatismo né saggezza né giustizia.
Quali possono essere, concretamente, i freni a tale deriva? Certamente nella presenza di poteri intermedi che in qualche modo pongono un limite al dispotismo (in Italia lo è stata l’istituzione della seconda Camera, della Corte Costituzionale, e in qualche modo delle amministrazioni locali) ma anche nell’obbligo di maggioranze speciali, cosiddette “qualificate”, quale vincolo contro le intemperanze e contro la sopraffazione sulle minoranze.
Nelle attuali democrazie il sussistere delle minoranze è un’esigenza fondamentale della stessa democrazia. Le democrazie si giovano proprio della presenza stessa di minoranze/opposizioni perché il contraddittorio è basilare e perché pone un freno agli abusi di potere portando sul terreno della legalità posizioni che, se non venissero rappresentate, finirebbero per avere spazio con mezzi illegali e persino violenti.
Sotto questo punto di vista si comprende meglio la sensibilità al tema del sistema elettorale che caratterizza ogni Paese: da esso deriva la stabilità e l’efficienza di un ordinamento statuale e la stessa forma di governo, sebbene dibattiti tuttora in corso siano prevalentemente all’insegna del tema della maggiore o minore governabilità come nel caso del dibattito, sempre aperto, su sistema proporzionale versus maggioritario e le specifiche realtà nazionali.
L’eguaglianza formale attribuisce a ciascun cittadino uguale peso, essa è un postulato fondamentale delle moderne democrazie in quanto cerca di assicurare la libertà non di questo o quell’individuo perché questo vale più di quello, ma piuttosto del maggior numero di cittadini. L’adozione del suffragio universale ha richiesto comunque delle regole del gioco che, in parte, comportano il disconoscimento dell’uguaglianza che sta alla base del concetto di democrazia. Un regime di democrazia rappresentativa, quali sono le moderne democrazie, presuppone una maggioranza che prevale su una minoranza per quanto le regole del gioco consentano alla minoranza di divenire, in un secondo momento, essa stessa maggioranza.
Le elezioni – che combinano in sé l’insieme delle operazioni funzionali alla selezione di una leadership – si esplicano attraverso sistemi elettorali ai quali è affidano il compito di trasformare i voti in seggi. Il sistema elettorale vigente in ogni paese è uno degli elementi caratterizzanti la stabilità e l’efficienza, della cosiddetta maggiore governabilità. Due sono le macro categorie: maggioritari e non maggioritarie.
Il meccanismo maggioritario, così come è organizzato in molte democrazie, riconosce solo i voti della maggioranza e nega quelli delle minoranze intaccando per così dire la loro validità.
Un sistema proporzionale garantisce senza dubbio il principio libertario e di salvaguardia di quello egualitario. Esso, manifestandosi nei centri decisionali per esatte proporzioni, fotografa le posizioni politiche dell’elettorato in ragione di un rispetto fedele delle più esigue minoranze anche a costo di una polverizzazione della loro rappresentanza.
La Gran Bretagna rappresenta il modello maggioritario per eccellenza, quello che attraverso il meccanismo del plurality first past the post, consente l’elezione in ciascun collegio uninominale ad un solo turno il candidato che ha ottenuto la maggioranza semplice. Si tratta di un meccanismo drastico che ha favorito il dualismo nella scena politica tra partito Laburista e partito Conservatore a scapito di quello Liberale. Questo sistema (vigente anche in India, Canada, Nuova Zelanda, Nord America) favorisce la vittoria con una maggioranza relativa consentita anche con uno scarto minimo ma, spesso, con un super premio maggioritario che ben si correla con il ruolo preminente del Primo Ministro leader del partito di maggioranza. Questo sistema favorisce uno stretto legame fra elettori ed eletti dando maggior risalto più all’uomo che al partito semplificando la rappresentanza.
In Francia vige il maggioritario uninominale a doppio turno ossia vince chi ottiene la maggioranza assoluta salvo, nel caso questo non si verifichi, andare al secondo turno. Anche questo sistema caratterizza una forma stato con prevalenza del potere esecutivo rispetto a quello legislativo. Tuttavia la particolarità del ballottaggio attenua notevolmente le lacerazioni che porta con sé un sistema bipartitico. Il secondo turno, infatti, anche per via delle soglie imposte all’accesso, costringe i partiti a coalizzarsi perché sanno che a distanza di una o due settimane dal primo voto devono passarsi a vicenda i rispettivi elettori (i candidati implicitamente dicono: “Mi ritiro in favore di”). Il doppio turno, oltre ad essere un freno al frazionamento politico, è un efficace deterrente ai cosiddetti partiti antisistema e offre agli elettori di quei partiti che non hanno superato il quorum di accesso al secondo turno di esprimere una preferenza alternativa.
Si può così affermare che l’assioma elettorale francese agisce in modo che “al primo turno si sceglie, al secondo si elimina”.
La Repubblica Federale Tedesca ha un sistema elettorale che può definirsi misto tra maggioritario e proporzionale: per l’elezione del Bundestag è previsto che la metà dei rappresentanti sia eletta a maggioranza relativa mentre l’altra metà su un piano di proporzionalità di ciascun Land.
Tale sistema, grazie anche ad alcuni meccanismi quali una sostanziale autonomia del governo nei confronti del parlamento, ha frenato una eccessiva frammentazione rendendolo a vocazione neutrale. L’adozione della clausola di sbarramento al 5% (la cosiddetta Sperrklausel) ha, inoltre, significativamente frenato un’eccessiva polverizzazione partitica sebbene a sfavore della rappresentanza di minoranze che possono identificarsi proprio in quei partiti che tale soglia si sbarramento non superano.
In Italia, la breve vita (circa venti anni) del sistema elettorale maggioritario sui generis (definito, nelle sue versioni, con termini pittoreschi e poco idilliaci dal Mattarellum, al Porcellum all’Italicum), non consente di esprimere considerazioni su dati storici significativi. La questione “sempre aperta” sul sistema elettorale che caratterizza lo scenario nazionale, colloca il contesto italiano, per la particolarità del suo funzionamento, nel gruppo delle leggi elettorali per così dire ibride.
Non ultima, tra le varie questioni legate all’applicazione pratica del sistema elettorale vi è quello della rappresentanza femminile per la quale sorge spontanea la domanda se un sistema elettorale sia in grado di condizionarne la presenza.
Tutte le moderne democrazie soffrono di una carente presenza di donne elette la cui percentuale è nettamente inferiore alla percentuale di donne candidate e delle donne nella popolazione. Il suffragio elettorale femminile relativamente recente ha certamente influito su questi risultati ma numerosi studi confermano che i sistemi elettorali hanno il potere di aumentare o ridurre le opportunità delle donne di essere elette.
È indubbio che la percentuale di donne elette è superiore nei sistemi proporzionali che non in quelli maggioritari che, prevedendo di norma la candidatura unica, di fatto penalizzano quelle femminili. In sistemi elettorali come quello italiano prima della riforma (la cosiddetta Prima Repubblica), il voto di preferenza multiplo facilitava la candidatura (e l’elezione) delle donne. In questo specifico esempio avevano un ruolo di primo piano i partiti che nello stilare le liste elettorali in ordine e posizioni più o meno favorevoli (la cosiddetta “posizione alta”), mettevano in pratica una vera e propria manovra di condizionamento psicologico-politico nei confronti degli elettori.
Nelle circoscrizioni elettorali statunitensi, dove il candidato che ottiene la maggioranza relativa viene eletto, i partiti sono invece più riluttanti a candidare una donna per l’unico seggio disponibile.
Da tutto ciò si comprende bene come il tema su come prendere delle decisioni vincolanti per tutti sia un aspetto ex ante per una buona organizzazione per favorire espressioni civili per l’esercizio efficace dei poteri della collettività deliberante e per evitare il rischio che le minoranze si sclerotizzino e diventino strutturali per l’impossibilità a partecipare.
Forse bisognerebbe trovare un meccanismo che valorizzi la libertà di scelta più che la vastità della partecipazione. Tuttavia è indubitabile che, fra le tecniche decisionali utilizzate nelle varie epoche storiche, l’applicazione delle scelte “a maggioranza” sia quella che ha fatto emergere in misura minima il sentimento dell’ingiusta sopraffazione e della sopraffazione dell’ingiustizia.