Un numero, la malattia mentale, che vuole fare il punto dopo 30 anni dall’approvazione in Italia della legge 180, la legge che permise la chiusura del manicomi.
Abbiamo cercato di trattare diversi aspetti nei nostri articoli: dalla storia della follia, (nello spirito del testo di Michel Foucault, ossia contestualizzare e storicizzare la follia), all’economia della cura psichiatrica; al tema dell’anoressia, della vastissima letteratura, al legame tra follia e arte, alla terapia della musica, e ancora il tema del viaggio nella soluzione medievale della “nave dei folli” come soluzione per allontanare i malati dalla comunità. I molti racconti di come viene intesa la malattia, secondo la cultura occidentale o quella araba.
L’argomento è denso di significati, non solo pratici ma simbolici. La follia ha cambiato forma nel corso dei secoli, l’unico aspetto che non è mai cambiato è quello della diversità del folle, della non omogeneità al senso comune, alla comunità (religiosa, politica, sociale). Nell’antichità il folle era il viandante, costretto a vagare da città in città perché ripudiato dalla comunità, una condizione terribile. Nel medioevo si inventò la nave dei folli, un modo per nascondere dalla vista i malati e lasciati alla deriva lontano dalla comunità sana. I folli erano anche gli indemoniati, posseduti da uno spirito maligno. Solo dopo lo sviluppo dell’illuminismo, alla fine del ‘700, si comincia a pensare ad una soluzione per i malati, un luogo dove poterli ospitare, una sorta di primo manicomio. Ma non era ancora nata la volontà di curare i malati, era sufficiente separare quel tipo di malato dal resto della società.
Solo con l’opera di Charcot (1825-1893), che presso la Salpetrière di Parigi curava pazienti isterici tramite ipnosi, si inizia a pensare che esista una cura per alcune malattie e non una detenzione a vita. Poi agli inizi del 1900 nacquero la psicologia e la psicoanalisi, ma continuava ad essere dominante la considerazione del solo aspetto organico e fisiologico della malattia mentale. Il paziente veniva considerato irrecuperabile, in quanto condannato da un danno cerebrale, gli si precludeva qualsiasi possibilità di riabilitazione.
Inizia anche un lunghissimo periodo di sperimentazioni sui pazienti, non consenzienti, di terapie violente e invasive: la lobotomia frontale, lo shock cardiazolico, l’elettroshock, lo shock insulinico.
Il contributo di nuove discipline come la psicanalisi, la filosofia fenomenologica, la sociologia, la psicologia sociale, hanno esteso la prospettiva di pensiero sulla follia. Ad analizzare cause che potevano essere sociali e non solo individuali. Si inizia a ragionare anche sui luoghi della follia: i manicomi non aiutavano, semmai peggioravano le condizioni dei malati.
“Vi sono, sì, dei luoghi riservati ai soli pazzi: l’ Hôtel-Dieu accoglierà solo alienati; Bethlem Royal Hospital a Londra accoglierà solo lunatici, ma nella generalità dei casi i folli, i furiosi saranno mescolati, confusi con gli altri internati, semplicemente in una sorta di prigione”.
Storia della follia nell’età classica, Paul-Michel Foucault, 1961
Il manicomio nasce come Istituzione totale. Erving Goffman (sociologo americano), ne parla molto bene ne suo testo Asylums. Il manicomio era stato concepito come luogo di reclusione forzata, esattamente come un carcere, o un sanatorio:
“le istituzioni ideate e costruite per recludere chi rappresenta un pericolo non intenzionale per la società (ospedali psichiatrici, sanatori)”;
“le istituzioni finalizzate a recludere chi rappresenta un pericolo intenzionale per la società (carceri, campi di prigionieri di guerra)”;
Erving Goffman, Asylums, 1961
Nel secondo dopoguerra si crea un movimento trasversale di diverse discipline: dalla filosofia alla sociologia, dalla storiografia e parte della psichiatria che vuole cambiare il concetto stesso di Istituzione totale e totalizzante, dove i malati erano di fatto dei reclusi. Il rapporto tra malati e medici era quello di detenzione del potere nei confronti di subordinati, di casi clinici e non di persone. Il ruolo del personale infermieristico era quello esclusivamente di controllo, non certo di aiuto ai malati. La schizofrenia, la malattia forse più conosciuta, è stata anche usata a fini politici. Stalin inventò la “schizofrenia latente”, uno strumento di potere che gli permetteva di giudicare e internare i suoi oppositori politici interni. Non erano palesemente schizofrenici, ma si correva il rischio (la latenza) che il male venisse fuori all’improvviso, perciò la detenzione preventiva era necessaria. Metodo usato anche da Hitler che pose le basi anche per l’eugenetica, dove separava i sani (razza ariana) dal resto dell’umanità, compresi i malati di mente, a cui venivano sottoposte le più violente sperimentazioni farmacologiche o genetiche. I manicomi hanno seguito la strada della sperimentazione farmacologica sui malati in quanto non era necessaria nessuna loro autorizzazione, si ricorda anche l’inoculazione della malaria.
La chiusura del manicomio come Istituzione parte in Italia dal medico e psichiatra Franco Basaglia, fondatore e animatore del movimento Psichiatria democratica, nato sotto la spinta rinnovatrice degli anni settanta. Il suo pensiero si è nutrito indirettamente da molte discipline, non solo quelle appartenenti alla sfera medica, le varie forme di pensiero: la fenomenologia di Husserl, l’esistenzialismo di Sartre e la filosofia dell’essere di Heidegger, la sociologia di Gofmann e molta della produzione di Foucault. L’esigenza di capire il fenomeno della follia attraverso diverse discipline, rispecchia sicuramente il periodo in cui si muove Basaglia. La società si diversifica, cambiano le esigenze dei cittadini, aumentano anche le esigenze di diritti dei singoli, diritti di libera scelta e autodeterminazione che a Trieste Basaglia prova a trasferire all’interno dell’ospedale psichiatrico. Il successo è evidente,documentato da molti reportage che vennero fatti all’interno della struttura, quello di Sergio Zavoli rimane forse il più famoso, come le immagini di Carla Cerati.
Questo tipo di cambiamento presuppone un cambiamento radicale nei confronti della stessa pratica psichiatrica. Nasce il bisogno soprattutto di ridefinire la malattia, oltre al metodo di cura bisogna ridefinire i confini delle patologie. Inizia una lenta ma inesorabile rivoluzione nei confronti del mondo delle malattie mentali. «Goffman sosteneva che ciò che consideriamo sintomo di malattia mentale è la violazione delle regole cerimoniali della vita quotidiana. Una violazione grave e consistente di queste regole è innanzitutto ciò che fa sì che una persona sia messa in ospedale psichiatrico. Coloro che hanno compiuto violazioni più gravi sono messi in “reparti arretrati” mentre coloro che sono considerati meno “malati”, o in via di guarigione, sono messi in un “buon reparto”, dove sono maggiormente osservate le regole dell’interazione ordinaria.» (Randall Collins)
Il movimento di Psichiatria democratica porta alla luce le molte violenze che le persone subivano in manicomio, ma anche prima. L’istituzione manicomiale peggiorava le condizioni di persone deboli, maltrattate nella maggior parte dei casi in famiglia: non solo abusi sessuali, ma restrizioni della libertà di pensiero, costrizioni di tipo gerarchico che potevano causare problemi psicologici. Problemi che potevano derivare dall’infanzia, come spiegato benissimo da Freud.
Si metteva alla luce un intero mondo sociale, si rendevano responsabili tutti gli aspetti della vita moderna: l’educazione, la scuola, la società.
La correlazione di questi aspetti poteva favorire una crescita felice o malata. La stessa correlazione di aspetti sociali, educativi ed affettivi, vengono usati nella seconda fase della rivoluzione basagliana. Il malato è una persona che deve essere aiutata a vivere, a recuperare la capacità di essere indipendente, anche economicamente e quindi sono utilissimi i lavori retribuiti. Non più manicomi, ma strutture che assomiglino ad una casa, dove i malati convivono e condividono gli spazi. Dove si potrebbero e dovrebbero creare le condizioni per la riabilitazione. Dove diventa determinante il ruolo degli infermieri, degli educatori del personale medico che deve interagire continuamente col paziente, creando un percorso di cura. Un percorso che è multidimensionale, fatto di crescita culturale, economica, sociale.
Dopo trent’anni dalla legge 180 possiamo vedere che ci sono molti problemi da risolvere, che la legge non è quello che aveva progettato Basaglia. Che il rapporto tra i medici e il malato non è cambiato, che il malato è considerato sempre un “diverso”, una persona al di fuori dei normali canoni della vita quotidiana. I manicomi nel 1961 in Italia, ospitavano circa centomila malati. Nel 1978 si decide di chiudere con questo metodo assurdo, ma non tutto è finito bene. La realtà per esempio dei manicomi criminali che viene descritta da Barbara Barsini è ancora in piedi come e peggio di prima se possibile.
Buona lettura
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