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Al via giovedì 6 agosto la XXI edizione del Festival dei Tacchi di Jerzu. Organizzato dal Cada Die Teatro, con la direzione artistica di Giancarlo Biffi, la manifestazione vedrà avvicendarsi dal 6 al 10 agosto, nei suggestivi scenari naturalistici dell’Ogliastra, alcuni tra i più significativi protagonisti del teatro contemporaneo che, attraverso la rilettura dei classici e la riscoperta delle gesta di antichi eroi, inducono a riflessioni profonde sull’attualità.

Sarà Moni Ovadia a calcare per primo il palco allestito alla Cantina Sociale Antichi Poderi, nella serata di giovedì 6 alle ore 21.30. L’artista e intellettuale di ascendenza ebraico sefardita presenta il reading Ulisse Achab Noè – da Omero, Melville, Il Libro dei Libri che, insieme a L’Isola del Tesoro – Robert Stevenson, che avrà luogo venerdì 7 con protagonista Giuseppe Cederna, è frutto della collaborazione con il regista teatrale Sergio Maifredi, ideatore del progetto Capitani coraggiosi, una produzione del Teatro Pubblico Ligure che narra dei viaggi dei personaggi descritti nelle pagine della Bibbia, di Omero, Dante e Melville che, navigando sulle onde dello stesso mare “per seguir virtute e canoscenza”, hanno compiuto, in nome dell’Umanità, il “folle volo” di dantesca memoria.

Festival dei tacchi

Il mare, e nella fattispecie il nostro Mediterraneo – racconta Moni Ovadia a Mediterranea – è stato la culla della civiltà occidentale. Il mare, anziché separare le terre, come si legge nei manuali scolastici, secondo me invece le unisce. Così quella che sembra essere la condanna di Odisseo, cioè il non poter tornare subito a casa, diventa il suo privilegio perché, navigando, naufragando, perdendosi e ritrovandosi, forgia la sua identità. Pensiamo al famoso verso del Canto XXVI dell’Inferno dantesco, in cui Dante incontra Odisseo, reo di aver sfidato il limite estremo del mondo conosciuto, le colonne d’Ercole, compiendo il “folle volo”, che metaforicamente è il limite stesso della conoscenza umana, nonché di aver conquistato Troia attraverso lo stratagemma del Cavallo, dunque con l’inganno. Achab – continua l’attore – il capitano della baleniera del romanzo di Melville Moby Dick, subisce un destino analogo: affonda negli abissi oceanici inghiottito da un’enorme montagna scura in virtù della sua maniacale ambizione di sfidare la potenza di un fenomeno naturale, ingaggiando una lotta impari col Bianco Leviatano.

Achab, al pari dell’Ulisse dantesco, è un antieroe, “insieme empio e simile a un dio” nella sua smania di superare i limiti dell’umano, come ci ricorda Harold Bloom ne Il Canone Occidentale. Quanto a Noè il “giusto”, o supposto tale – precisa – perché non combatte per perorare la causa umana, ha il compito affidatogli da Dio di diventare il capostipite di un’umanità rinnovata. Anche nella parabola biblica il mare ha una valenza simbolica in quanto, a causa della spaventosa malvagità degli uomini, il Santo Benedetto decide di cancellare l’umanità sommergendola nelle acque. Secondo la narrazione talmudica – aggiunge – Noè affronta una perigliosa navigazione e viene colto da grande disperazione nel vedere dinanzi a sé a perdita d’occhio solo distruzione e morte. Noè si chiede il perché di tanto orrore, e questo ci insegna che persino il più malvagio della terra ha diritto a una perorazione. Non ci può essere dunque “virtute e canoscenza” senza la dimensione etica”.

Moni Ovadia

Il mare non è solo culla di civiltà e simbolo di hybris, tentativo di superamento del limite umano nel suo desiderio di conoscenza, ma è anche terreno di speranze tradite e plaga di morte. Se un virus venuto da lontano sembrava averci fatto comprendere che le distanze geografiche non sono che un’invenzione umana, riemergono attualmente l’egoismo sociale e le discriminazioni nei confronti di chi fugge dalla guerra e dalla disperazione chiedendo di essere accolto all’interno dei nostri confini.

“Il Covid ha dimostrato che la caratteristica saliente dell’uomo – spiega l’artista – non è la forza, ma la fragilità. Ogni volta che presumiamo di essere forti, seguono delle catastrofi. L’umanità si trova davanti a un bivio: o si accetta l’essere umano come un unicum, che secondo la definizione tassonomica dell’uomo moderno è l’Homo Sapiens Sapiens Africanus, o si torna alla logica della guerra e della brutalità. Ciò che accade nel Mediterraneo – lamenta – è un orrore. Trasformare il mare delle speranze, della conoscenza, dello scambio fertile dele merci e dei saperi in un cimitero è un crimine spaventoso che grida vendetta al cielo. Non arriverà un altro diluvio universale a redimerci, avendo il Padre Eterno, ammesso che esista, constatato la totale inutilità del primo. Gli uomini sono specialisti – osserva – nel non saper trarre insegnamento dal passato. Siamo vittime di una sorta di maledizione endemica per cui gli uomini che conquistano il potere sono sempre quelli che fanno prevalere le ragioni economiche sulle ragioni umane, quell’interesse che non conosce virtute e che non può portare ad altro che alla guerra, alla morte, alle dittature, allo scempio del pianeta. E’ la stessa ossessione monomaniacale e cieca di Achab verso il suo obiettivo. All’interno dei limiti – aggiunge – l’umanità è in grado di fare cose grandiose, riuscendo persino a manipolare il codice genetico, ma se non agisce sulla base di principi etici nel rispetto della vita, della salute propria e del pianeta e degli animali, è destinata all’autodistruzione. Penso agli wet market di Wuhan, dove si scannano gli animali selvatici per il ludibrio di una gourmandise feroce. E’ necessario porsi dei limiti – suggerisce Ovadia – per esempio praticando un’alimentazione controllata, anche nel rispetto del mondo animale e dell’habitat in cui viviamo. C’è qualcosa di titanico nel superamento dei limiti da parte dei “capitani coraggiosi”, ma anche qualcosa di terribile. ”.

Si tratta dell’esasperato antropocentrismo contemporaneo, secondo l’artista, che non si pone in relazione paritaria e dinamica con gli altri esseri viventi e con una natura che pensa di poter sovrastare, nonostante la pandemia abbia ridimensionato l’arroganza umana. “Siamo i custodi della terra – avverte – non i padroni. Gli allevamenti intensivi degli animali, le perforazioni del sottosuolo per ricavare petrolio o fluidi geotermici, le esplosioni nucleari sotterranee: tutto ciò ha delle conseguenze catastrofiche sull’ecosistema. In nome del potere e dell’interesse l’uomo è disposto ad ammazzare, devastare, affamare, sfruttare, torturare”.

Moni Ovadia

Nonostante queste amare considerazioni, il teatro rimane per Moni Ovadia un importante strumento pedagogico che, a differenza dell’insegnamento tradizionale che fornisce strumenti concettuali, è in grado di istruire gli uomini attraverso le emozioni.

“Non c’è niente – ricorda – che Shakespeare non abbia prefigurato dell’uomo contemporaneo, dal marxismo allo stalinismo sino alla psicanalisi. Il teatro insegna le responsabilità, la relazione con l’altro, la socialità, la gestione delle emozioni: per questo dovrebbe costituire una materia obbligatoria in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Il teatro inoltre, grazie alla pietas della finzione, sublimando la tragicità del reale impedisce che l’uomo rimanga pietrificato dall’orrore della Medusa, consentendogli di avvicinarsi alla verità, che non è quella dei chierici, ma è la verità umana. Mi viene in mente il verso del sonetto romanesco recitato da Gigi Proietti: “Viva er teatro, dove tutto è finto ma niente c’è de farzo”. Una verità, quella interiore, tanto più preziosa in un’epoca afflitta da infodemia, ovvero la circolazione indiscriminata di una quantità eccessiva di informazioni non vagliate con accuratezza e spesso false. Secondo l’artista il teatro, in virtù dello scambio vitale fra gli attori e un pubblico sempre diverso ogni sera, che muta in ogni istante i suoi umori, è inoltre sacrario, sia pur di una sacralità laica, della relazione umana. Per questo nessun surrogato digitale potrà mai sostituire il teatro dal vivo.

“Considero l’espressione “distanziamento sociale” la più scellerata dell’epoca – commenta Ovadia – Certo, non dobbiamo contagiarci, ma trovare delle modalità che non impediscano o fermino le attività artistiche, come è accaduto durante la pandemia. I nostri governanti non sono formati per capire che l’istruzione e la cultura dovrebbero essere le priorità dell’agenda politica di ogni governo, perché da queste deriva l’eccellenza della sanità, dell’economia, della vita sociale. Occorre che tutti i cittadini, compresi i politici – prosegue – siano formati dalla più tenera età a una cultura dell’uguaglianza, foriera di democrazia, e dell’accoglienza, intesa come solidarietà reale, e non pelosa beneficenza. Solo un sapere e una cultura che glorificano la vita possono sconfiggere la subcultura dell’arroganza e della violenza”.

Investire sulla cultura, secondo Movi Ovadia, non contribuisce solo all’elevazione spirituale dei cittadini, ma produce un indotto economico tale da poter risollevare le sorti di un Paese come l’Italia ricco di risorse artistiche, che non vengono adeguatamente valorizzate, e naturali, che si tenta di devastare cementificando.

Moni Ovadia

“Non abbiamo capito – continua – che il sistema di vita che abbiamo costruito è marcio, fondato sui codici dello spettacolo che, come afferma il filosofo francese Guy Debord nel suo saggio “La Société du Spectacle”, vive per legittimare se stesso, nell’accumulo feticistico di beni materiali a scapito delle relazioni umane”. In un mondo votato all’apparire piuttosto che all’essere, alla finzione piuttosto che all’autenticità, si finisce per diventare, aggiunge l’attore, come il protagonista del film “Oltre il giardino” di Hal Ahsby con Peter Sellers, che, dopo una vita passata davanti alla televisione, crede di poter trasformare la realtà cambiando canale col telecomando, o attraverso sentenze banali come “Fintanto che le radici non sono recise, va tutto bene, nel giardino”.

Il pensiero corre inevitabilmente alla formula apotropaica “andrà tutto bene” utilizzata spesso durante la pandemia anche nella comunicazione istituzionale, nei confronti della quale l’artista appare scettico. “In un Paese che si trova in posizione ancillare rispetto ai grandi potentati politici e finanziari e afflitto da analfabetismo di ritorno – argomenta – nonché dominato da un’insicurezza e un terrore che l’hanno portato in passato ad accettare governi infami con l’illusione di essere protetto, nell’eterno scontro fra il vitello d’oro e la legge, fra Mammona e l’etica, ha vinto il dio danaro. Tuttavia – conclude – credo nel potere e nella forza del singolo, se penso a figure come Gandhi, Mujica, Gino Strada, che con la loro azione possono sovvertire il paradigma dominante di sviluppo e rimettere al centro dell’interesse pubblico la salute, lo Stato sociale, la cultura, la solidarietà internazionale”.

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