Articolo di Massimiliano Fortis
La mia migrazione è di quelle che si possono catalogare come “economiche”. Dopo cinque anni in Spagna, per studi di dottorato, e una parentesi di due anni in Sardegna che ha coinciso con la nascita del figlio, con moglie e figlio sono partito per il Cile.
La scelta è stata dettata da un fattore contingente, la crisi e la difficoltà di incontrare un lavoro congruo agli studi realizzati. Al fattore contingente, si potrebbe aggiungere uno strutturale: la scarsa inclinazione dei vari governi italiani succedutisi negli ultimi vent’anni di finanziare la ricerca scientifica e sostenere le università. In Sardegna, a parte il discusso programma Master and Back e la Legge 7/2007 (purtroppo trasformata in una tantum), questi limiti diventano asfissianti e occludono la possibilità a nuovi ricercatori di dedicarsi alla ricerca. Parlare di baroni e di caste, in un certo senso è fuorviante. Il problema è che la politica economica, sociale e culturale applicata in Italia contempla marginalmente il finanziamento della ricerca: prima di tutto non ci sono soldi! Poi, spesso, quelli che ci sono, vengono aggiudicati – o spartiti, a seconda dei casi – da chi nell’Università ha messo radici da decenni. La prospettiva, come neo dottore di ricerca, è una trafila di saltuari contratti di ricerca, progetti, consulenze per 5 – 10 anni, prima di riuscire a consolidarsi con un posto e uno stipendio stabile. Considerato questo e considerato che un figlio va mantenuto con la “pappa” e non con una pubblicazione Thompson Reuters, abbiamo deciso che era meglio provare a “fare ricerca” da un’altra parte.
Perché il Cile? Essenzialmente per due ragioni. Una “familiare”: mia moglie è cilena e, oltre alla famiglia, poteva contare su una rete di conoscenze che ci avrebbero aiutato nell’inserimento e nel trovare lavoro. L’altra, diciamo “strutturale”: in Cile esiste un’impressionante quantità di università pubbliche e soprattutto private in cerca di figure professionali come le nostre e c’è un interesse da parte del governo di attrarre “capitale umano specializzato”.
La mia è una migrazione recente, meno di un anno, per cui non posso dare ancora una valutazione esaustiva. Ciò che posso dire è che quando si ragiona di processi migratori, non bisogna caricarli di valenze sentimentali universalistiche, né positive (la bellezza di conoscere il mondo, l’apertura verso il diverso) né negative (la paura dell’invasione). La migrazione è un elemento che ha caratterizzato da sempre la storia dell’umanità, fatto sia di esodi di popoli che di spostamenti dettati da necessità individuali. Alla fine però, ogni migrazione è un percorso personale e intimo, con costi notevoli e determinati benefici, la cui valenza è vincolata esclusivamente ad aspirazioni e bisogni individuali. Non essendomi ancora stabilizzato nel nuovo contesto, le sensazioni che provo nello stare in un paese, per molte cose, completamente diverso sono vive e in continua evoluzione. Qui presenterò alcuni aspetti del sistema socioeconomico per le analogie con il futuro prossimo venturo che sembra toccherà all’Europa, in particolare quella mediterranea.
Il Cile si estende per circa 4500 kilometri lungo la costa pacifica dell’America meridionale, per cui possiede un’incredibile varietà di climi ed ecosistemi che lo rendono ricchissimo di distinte risorse naturali: minerali (rame, litio, oro), forestali, agricole, marine, paesaggistiche. Lo sfruttamento di questo potenziale è stato ceduto a multinazionali straniere, a prezzo irrisorio, durante la dittatura militare di Pinochet e, poi, avvallato dai governi di centro-sinistra dell’ultimo ventennio. Questo ha implicato una notevole crescita dei principali indicatori macroeconomici, ma in termini di benefici reali, questa situazione ha giovato a 7 grandi famiglie economiche del Paese e a una percentuale limitata della popolazione.
Il Cile è la culla del liberismo economico, molto più che gli Stati Uniti. È dove gli economisti formatisi alla scuola di Chicago hanno potuto sperimentare, come su cavie in laboratorio, la distruzione dei freni statali all’economia di mercato, grazie anche alla sospensione delle garanzie democratiche e dei diritti umani. Qui è come vivere il futuro che i brillanti economisti della Troika stanno tessendo per i paesi dell’Europa mediterranea, i cosiddetti P.I.G.S.: lo Stato “leggero” che “osserva” le relazioni tra soggetti economici, dopo aver privatizzato i beni pubblici e abbandonato i servizi primari (educazione, sanità e previdenza). Allo stesso tempo è saltare al passato con le friggitorie ambulanti agli angoli delle strade; i raccoglitori di cartone che instancabili seguono percorsi non tracciati, tirando carretti montati su una bicicletta; la spazzatura gettata sui marciapiedi in balia di cani randagi; urbanizzazioni intere per anni senza acqua potabile; le linee elettriche e del telefono volanti, avvinghiate in un indecifrabile ammasso di cavi che si estende per le città, sospeso a cinque metri d’altezza; le case in “adobe”, in terra cruda, che resistono all’avanzata speculativa dei grattacieli.
Il futuro che aspetta l’Europa mediterranea qui ha il nome di AFP, ISAPRE, “educación compartida”: la previdenza e la sanità privatizzate, il sistema educativo “misto”, privato ma con finanziamento statale.
Il sistema previdenziale viene completamente privatizzato e reso obbligatorio durante la dittatura – e mai rivisto nei vent’anni di centrosinistra. Benché quando fu approvato si teorizzò l’obiettivo minimo di garantire pensioni pari al 70% dello stipendio, in questi anni i dati mostrano che il valore delle pensioni della maggior parte della popolazione non arriva al 50% dello stipendio che, in valore assoluto, significa dover sopravvivere con 200-300 euro al mese in un paese dove il costo della vita è cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni, livellandosi agli standard italiani.
Anche le Istituzioni Sanitarie Previdenziali (ISAPRE) sono un lascito del governo militare. Dal 1983 ogni lavoratore cileno ha la facoltà di decidere se destinare il 7% del suo salario al Sistema Sanitario Nazionale (FONASA) o ad una ISAPRE, società privata che gestisce l’assistenza sanitaria integrale attraverso una rete de cliniche, ospedali, medici specialisti e di base e farmacie. La copertura sanitaria attraverso un’ISAPRE si conforma come una polizza assicurativa, nella quale l’Istituzione offre una serie di prestazioni in funzione della quota versata annualmente. In generale, in relazione allo stipendio medio, le polizze stipulate coprono solo in minima parte il costo delle prestazioni offerte, per cui l’assicurato deve comunque pagare quando effettua una visita medica. La perversione di un sistema in cui l’attenzione sanitaria deve generare un beneficio economico per la clinica che assiste, trasforma il medico in commerciante e il paziente in cliente a cui vendere, seppur indirettamente, farmaci o ulteriori visite più o meno necessarie. Il meccanismo economico che muove e fa prosperare questo business non è la “salute”, bensì la “malattia”, vera o presunta.
La forza delle ISAPRE ha coinciso con il progressivo peggioramento della qualità dell’attenzione sanitaria pubblica, da imputare ad un processo di “abbandono” da parte dello Stato (tempi di attesa lunghi per visite specialistiche o pronto soccorso, riduzione del personale, limitata disponibilità di posti letto, strutture sanitarie obsolete, etc.). In questa maniera, chi ricorre a FONASA per l’attenzione sanitaria sono le classi con limitate risorse economiche, in particolar modo gli immigrati (principalmente immigrati peruviani e boliviani).
Il liberismo però, ha i suoi limiti: quando si tratta di politiche sociali si trasforma in conservatorismo, strizzando un occhio alle gerarchie cattoliche, rispetto alle tematiche relative a sessualità, aborto, omosessuali, e agli istinti nazionalisti, limitando i diritti dei migranti.
La legge sull’immigrazione, risalente al periodo di Pinochet, contempla distinte possibilità per poter richiedere e accedere ad un permesso di residenza come straniero. Un visto turistico valido 3 mesi, eccezionalmente rinnovabile per altri 3 mesi, che permette risiedere nel Paese ma senza svolgere attività lavorative. Il permesso di residenza lavorativo, concesso in virtù di un contratto di lavoro con validità un anno, alla scadenza del quale può essere confermato come definitivo. Il permesso di residenza per motivi familiari, per vincoli con cittadino cileno; anche in questo caso prima viene concesso per un anno e poi in via definitiva. Per la concessione di qualsiasi permesso di residenza è necessario dimostrare la facoltà di mantenersi nel Paese. Concessa la residenza, uno straniero ha, sostanzialmente, gli stessi diritti di un cileno, salvo il diritto di voto che si ottiene dopo una permanenza di almeno 5 anni. Una normativa apparentemente liberale. L’inghippo sta nel fatto che la concessione del permesso viene derogata all’interpretazione – o arbitrarietà – dei funzionari della polizia. A questo punto, si alzano le barriere per i migranti, o meglio alcuni migranti.
Negli ultimi dieci anni, il Cile ha consolidato e stabilizzato la propria economia, ricevendo progressivamente un flusso sempre più consistente di investimenti stranieri e di migranti, provenienti dai paesi limitrofi (peruviani, boliviani, argentini, colombiani). Negli ultimi due o tre anni, ad essi si sono aggiunti nuovi migranti provenienti dall’Europa in crisi, soprattutto spagnoli.
La concessione del permesso per gli “europei”, in genere con un’educazione superiore e una specializzazione professionale, non soffre particolari problemi, a parte la lentezza del processo burocratico e le snervanti file che ne derivano. Per gli altri, in particolare quelli con maggiori difficoltà economiche e scarsa specializzazione, accedere al permesso diventa una corsa ad ostacoli che induce a permanere nell’”illegalità”, o meglio, senza la documentazione in regola e quindi sotto la minaccia dell’espulsione. Chi entra in questa condizione, in teoria, ha comunque il diritto all’attenzione sanitaria nel pronto soccorso, ma alla fine sono poche le persone che, “indocumentate”, ne fanno effettivamente uso pur avendone bisogno. E sono molti i medici che si rifiutano di assisterle, esclusivamente per un atteggiamento razzista, come riportato da una ricerca svolta ad Arica, città al confine con il Perù e seconda frontiera più “trafficata” dell’America latina.
Dopo venti anni di immobilismo, o peggio, di rafforzamento delle politiche neoliberali da parte dei governi di centrosinistra, qualcosa sembra che inizi a cambiare. L’assuefazione al libero mercato inizia a incrinarsi e il modello mostra le sue crepe. Per le giovani generazioni cilene l’obiettivo futuro è raggiungere il modello statale di garanzia dei diritti e dei servizi, come quello che in Italia è stato ottenuto con le lotte studentesche e operaie degli anni ’60 e ’70 che qui è stato incarnato dalla breve e intensa esperienza del governo dell’Unidad Popular di Salvador Allende. Sono loro, gli studenti universitari e medi, la coscienza critica di questo paese. Sono loro che, dal 2011, con un instancabile movimento per un’educazione pubblica, gratuita e di qualità, hanno fatto fare un salto in avanti all’elaborazione politica e alle rivendicazioni per una giustizia sociale (link a arrexini.info).
Quest’esperienza di migrazione è come un “ritorno al futuro”: catapultato nel liberismo senza limiti, ma contemporaneamente testimone del tentativo di un suo superamento, attraverso una rielaborazione del ruolo dell’economia e dello Stato, posti al servizio della collettività. Ciò che in Europa sarebbe stato auspicabile succedesse, per superare una crisi che è sistemica e non dovuta ad un debito pubblico troppo elevato. Quali siano stati, invece, i rimedi adottati si è visto. E i risultati, drammatici, sono sotto gli occhi di tutti.