Articolo di Francesca Fiore
Lampedusa non è solo un avamposto dell’estremo sud italiano; non è solo terra di migranti, crocevia di culture e punto strategico dal punto di vista geografico. Per moltissimi, è la porta dell’Europa, attaccata e agognata da chi sogna una vita migliore. Lampedusa è un’isola, con una storia e un’identità ben precise, che vengono ogni giorno messe in discussione da uno stato che la considera un problema, più che una risorsa. Perché vivere a Lampedusa è difficile, se non impossibile.
Questa storia non parla di viaggi della disperazione, di leggi in materia d’immigrazione o di accoglienza. I problemi dei lampedusani con la gestione dei flussi migratori sono ben noti, così com’è noto lo spirito di apertura e accoglienza di questi isolani nei confronti delle altre culture. Questa storia parla di un abbandono, da parte dello stato italiano, nei confronti di un’isola che ha dato molto al paese intero. Questa storia vuole raccontare quanto sia difficile, per un lampedusano, nascere, vivere e morire sulla sua isola.
Si parla spesso di spopolamento delle zone montane e delle isole più piccole, imputando il problema a cicli economico- sociali, che sembrano impossibili da modificare. Ma non si citano mai i reali problemi di chi vive in queste zone, nè delle eventuali soluzioni da mettere in campo. Per un lampedusano la vita sulla sua isola è una scelta difficile. E lo ancora di più quando per vivere nel luogo in cui sei nato devi superare ostacoli impensabili per qualsiasi altro cittadino italiano. Solo per citarne due: la nascita e la morte.
Lampedusa non possiede un reparto di ostetricia, ha una sola ambulanza e un solo elicottero. Permettersi un figlio, non è una cosa da tutti. Ogni lampedusano sa che sul suo certificato di nascita ci sarà scritto Palermo, Agrigento o Catania. Ma il problema non è solo di appartenenza ideale, ma anche e soprattutto di risorse fattuali. Pensate solo ai controlli di routine: anche l’isola fosse fornita di ginecologi a dovere, per ogni controllo più approfondito una famiglia lampedusana deve comuqnue prenotare un volo e un soggiorno a Palermo, nel migliore dei casi. In realtà, l’unico ginecologo presente sull’isola deve fare di tutto: dalle visite routinarie, passando per il monitoraggio delle partorienti, fino alla sepoltura dei cadaveri. Un mese prima della fine della gravidanza ci si deve trasferire, sobbarcandosi le spese per un eventuale appartamento e per un mese di vita fuori casa. Per non parlare delle eventuali complicanze: un’ora e mezza di volo è il tempo minimo di trasferimento a Palermo con l’eliambulanza, mentre fino a qualche anno fa erano disponibili voli per l’ospedale di Malta, a soli quindici minuti.
La stessa cosa vale per moltissimi esami clinici e cure mediche per cui l’isola non è attrezzata. Per i malanni più banali ci sono i turni: vanno da lunedì per una visita con l’otorino, a giovedì per una con l’oculista. In un’isola che conta sei mila abitanti, ma che tocca picchi di trentamila persone nei periodi estivi, le catastrofi per malasanità si ricordano tutte. Anzi, per assenza di sanità. Una volta nato, il piccolo lampedusano, non avrà una vita facile. Anche con la scuola la situazione non è migliore: basta dire che l’unico liceo dell’isola è stato chiuso ad Agosto di quest’anno per un pericolo di crollo. Trovare lavoro è ancora più difficoltoso: la maggior parte degli abitanti dell’isola è impiegato nel settore turistico che, con le emergenze immigrazione e la mal gestione delle notizie da parte dei media e della politica, quest’anno ha subito un drastico calo, superando il 30% di deficit. Il fatturato delle imprese dell’isola, dalla primavera –ovvero l’inizio dell’emergenza- ad oggi, è sceso dell’80%. A lanciare l’allarme sulla crisi di Lampedusa è stato Claudio Melchiorre, membro del comitato di presidenza dell’Istituto ricerca consumatori di Catania, che da mesi raccoglie le denunce di centinaia di esercenti, tra ristoratori, baristi, affitta camere e albergatori, ridotti in ginocchio dall’emergenza immigrazione. La crisi internazionale e i problemi locali sono una miscela esplosiva per lo spirito dei lampedusani, tanto da spingere l’istituto a chiedere i danni al governo italiano che, a parere degli isolani, non solo ha gestito male i problemi dell’isola ma li ha strumentalizzati per questioni politiche. Di fatto le alternative sono poche: la protesta caparbia oppure l’abbandono.
E si arriva alla fine della vita, su quest’isola di 20 chilometri quadrati, che dista 205 chilometri da Porto Empedocle e 167 da Rascaboudja, in Tunisia. Anche morire è complicato, su questo avamposto che vanta una flora e una fauna eccezionale. Se si è fortunati, si muore in modo naturale, sulla propria isola, nella propria casa. Ma se si è malati, il trasferimento a Palermo è d’obbligo ed è comunque una fortuna, dati gli scarsi mezzi già citati. Problemi ulteriori sorgono dopo la morte: l’isola non è attrezzata per il trasporto delle bare. Per cui, le famiglie che possono permetterselo devono affittare un aereo speciale, le altre devono far seppellire la salma altrove.
In tutto ciò si devono aggiungere problemi già noti ad altri comuni italiani, ma che per un’isola come questa diventano ostacoli insormontabili. Come il piano regolatore mai esistito: c’è solo un piano di fabbricazione, che risale al 1974 e che ha prodotto 3mila pratiche di condono edilizio, depositate nella sede provvisoria del Municipio. A Cala Creta, i Dammusi con vista sul mare, le case storiche di Pantelleria, costano 800 mila euro, benché ancora da condonare. Mentre non esiste un piano di edilizia convenzionata.
E poi ci sono le tasse e la mancanza di servizi. Uno su tutti: l’acqua. I lampedusani pagano 800 euro l’anno per il trasporto dell’acqua dalla Sicilia, spesso insufficiente, ma nessuna casa dispone di un contatore: semplicemente si paga a forfait. Stessa emergenza per la spazzatura: fra le 800 e le 900 euro l’anno a testa, per il trasporto sull’isola madre della differenziata. Ma di fatto, in molti periodi, Lampedusa è sopraffatta dalla spazzatura.
In fin dei conti, è facile fare delle conclusioni affrettate, soprattutto se “spinte” dai media. Si crede spesso che il problema principale dell’isola sia l’immigrazione clandestina, ma alla luce delle notizie sulla vita dei lampedusani ben si comprende che quelle proteste, come il blocco del porto, poco hanno a che fare con il razzismo. Anzi, per il lampedusani non avere più l’emergenza in casa sarebbe quasi un problema. Per quanto sia paradossale, la maggior parte dei fondi per l’isola viene elargita dall’Europa, per la questione immigrazione. Perdere anche questo significherebbe quasi scomparire. Piuttosto, quelle proteste affondano le loro ragioni nella rabbia e nella delusione verso uno stato che da sempre promette di risolvere i problemi dell’isola, ma che spesso l’ha strumentalizzata per ragioni politiche. Perché vivere a Lampedusa, oggi, non è solo una scelta, ma è anche un atto di protesta.