L’esistenza dell’uva in Puglia è fatto antecedente ai rapporti tra popolazioni autoctone e i Fenici che si spinsero con le loro navi lungo i litorali della regione a partire dal 2000 a. C. per finalità commerciali. Gli antichi naviganti introdussero in quelle terre nuovi vitigni e tecniche dell’allevamento della vite più efficaci e altrettanto fecero col popolo illirico degli “Histri” che popolarono l’Istria, la Valle del fiume Arsa e la baia di Kalavojna (nome dato in seguito dai greci: “kala” e ”oenos” significano ”buon vino” appunto).
Intorno al 1200 a. C. dall’Illiria, regione bagnata dal Mare Adriatico corrispondente a gran parte dei Balcani occidentali, inclusa la Dalmazia, iniziarono le prime migrazioni in Puglia, in particolar modo verso l’area meridionale del Salento; la prima tribù illirica a popolare la regione fu quella degli Japigi (dal nome di Iapige figlio di Dedalo e capo dei cretesi stabilitisi a Taranto, oppure del figlio di Licaone e fratello di Dauno e Peucezio); a queste genti probabilmente originarie dell’Albania seguirono, nel VII sec. a.C. le sottotribù dei Peuceti e dei Dauni.
Tra il IX e il X secolo a.C. nuovi flussi migratori di altre tribù si spinsero verso la Puglia oltre ai Dorici: i Choni e i Messapi.
Questi ultimi si attribuirono, con buona probabilità, un nome ispirato alla leggenda di Messapo condottiero beota, dimostrando di essere un ramo di popolazioni ben più arcaiche di quelle illiriche di cui erano tuttavia parte o di averne almeno avuto contatto… gli abitatori di Beozia ed Eubea, le cui terre erano già famose per i rinomati vini. Stando però alle testimonianze letterarie di Erodoto si supponeva i Messapi potessero addirittura provenire da Creta. Comunque sia, forti della lingua e di una civiltà definita da usanze e costumi comuni i Messapi si fusero con gli Japigi dando inizio alla cultura e al popolo di Messapia, la “Terra tra i due Mari” corrispondente alle Murge e al Salento, sino a confondersi con essi (Strabone non a caso considerava Messapia e Japigia la medesima cosa).
Per quanto le fonti storiche siano incerte, e le tribù degli Japigi e dei Messapi vengano spesso considerate un’unica etnia, nata all’alba delle grandi migrazioni indoeuropee verso l’areale mediterraneo e le loro lingue, l’illiro e il messapico, pressoché identiche, vengano equiparate alla fonetica egeo-anatolica. È certo che introdussero in Puglia nuove forme di viticultura, come d’altronde fecero i Greci dall’VIII sec. a.C., coi quali mantennero relazioni di reciproco rispetto e indipendenza culturale.
Tra realtà e leggenda, migrazioni e incroci di civiltà, le viti antenate del Primitivo attestarono la loro presenza nei Balcani e in terra di Japigia, il vasto territorio comprendente la Daunia, la Peucezia e la Messapia, sopravvivendo al tempo e alle dominazioni che modificarono il volto dei territori uniti dal Mare Adriatico.
E la vite migrante con l’uomo apporta civiltà e sapere per l’uomo ovunque attecchisce…
L’incertezza storica sull’origine delle prime popolazioni riguarda, per concordanza, anche lo stesso Primitivo così come lo conosciamo oggi, tanto che di dubbi a riguardo sarebbero intrise anche le tesi degli “archeologi della vite”; ma diversi studiosi di ampelografia, non ultimo il dottor Antonio Calò, attribuivano l’arrivo o la comparsa del Primitivo in Puglia, nel XVII secolo, al merito dei monaci benedettini.
Rispetto al monachesimo, però, bisognerà tener in conto che una precedente opera di diffusione delle uve Primitivo nelle odierne province di Bari e Taranto, potesse essere già in atto nella seconda metà del IV secolo grazie ai monaci Basiliani trasferitisi dalla Grecia, ancor prima dell’ordine fondato da Benedetto da Norcia nel 529; il processo di insediamento in terra pugliese dell’ordine benedettino invece avvenne a cominciare dal 1086 per tramite dei monaci della Badia di Cava de’ Tirreni a Sant’Agata di Puglia, favorito dai re normanni (anche la Casa di Svevia nel 1194 favorì la viticultura, proteggendo le vigne esistenti e incoraggiandone coltivazione e sperimentazione di altre come volle Federico II) e sostenuto dai feudatari, dalle donazioni enfiteutiche e, non ultimo, da una serie di eventi dovuti “in primis” alla riforma gregoriana e, via via nei secoli, al decadimento degli istituti monastici brasiliani.
Va riconosciuto che senza i monasteri e la perseverante attività dei benedettini non sarebbe rimasta traccia di quelle viti, e don Filippo Indellicati, primicerio della chiesa di Gioia del Colle, non avrebbe potuto selezionare le barbatelle di Primitivo e darne la definizione per la prima volta nel XVII secolo: il dignitario papale infatti notò che tra le uve ch’egli aveva a cuore v’era una qualità che in agosto già raggiungeva la maturazione fenolica, precocemente rispetto alle altre, e per tanto nel gergo dialettale locale venne chiamata “Primativo” (“Primativus”) o “Primaticcio”, non escludendo però che l’etimologia provenisse dalla stessa carica che l’Indellicati ricoprì nella comunità gioiese.
La migrazione e le attività umane, dunque, il veicolo.
Il Tempo e il Terreno fautori col Clima dell’adattamento e del mutamento.
Quindi alla natura la selezione…e alla mano dell’uomo poi.
Nel 1881 un matrimonio fortunato lascia che le viti di Primitivo di Gioia del Colle sposino nuove terre: la contessina del casato dei Sabini d’Altamura convolando a nozze con don Tommaso Schiavoni Tafuri, nobiluomo e ricco possidente di Manduria, portò in dote le pregiate barbatelle gioiesi che presto proliferarono nelle “Murge tarantine” dando alla luce una nuova variante locale.
La buona propensione al viaggio del Primitivo non cessò certo nella cittadina di Manduria!
Il vermouth nell’800 aveva bisogno dei vini pugliesi e anche le terre d’Oltralpe: Torino era assetata di Primitivo e ancor di più lo era la Francia che, messa anch’essa in ginocchio dalla fillossera, doveva instillare nelle sue flebili bottiglie: forza, colore, alcol e morbidezza dei vini del Sud; grazie agli studi accurati condotti dal medico e sommelier Giuseppe Baldassarre sappiamo che il Primitivo, durante la fase di ricostruzione del “Vigneto-Puglia” agli inizi del ‘900 (giustificando e confermando la tesi del Calò in quanto a espansione degli ettari vitati a Primitivo), varcò anche i confini della Campania: si afferma nel suo libro che il Conte Falco, proprietario di una vigna a Gioia del Colle, risollevò con esso la viticoltura ai piedi del monte Massico, presso Mondragone, dando nuovamente lustro alla tradizione del vino Falerno.
Con un bagaglio ricco di una selezione naturale millenaria, memore di ogni luogo in cui abbia messo radice e della mano degli uomini che pazientemente l’hanno allevata e addomesticata, la stessa vite un tempo giunta anche in Puglia riprese il viaggio.
Verso l’Oceano e l’America.
Approdando nel New England per conto della prima e più importante azienda di vivai di alberi da frutto degli “States”, la “William Robert Prince” (fondata nel 1737), la vite viene da subito soprannominata “Rough Black” e piantata a Long Island da George Gibbs; erano gli anni tra il 1820 e il 1829 e quella pianta proveniva dall’orto botanico viennese di Schönbrunn, dall’Impero Austro-Ungarico; da Long Island fu portata a Boston, la rinominarono “Zenfendal” o “Zinfindal” e i viticoltori californiani, Frederick Macondray tra i primi, dovettero attendere sino al 1849 per mettere le mani su questa varietà procurandosela dalla “Massachusetts Horticultural Society”, completando un’ampia estensione di vgne nel 1859 prima a “Santa Cruz Mountains” e “Santa Clara Valley”, poi “Sonoma” e “Napa Valley”.
In realtà se questa varietà poté toccare la sponda atlantica degli Stati Uniti e, in seguito, farsi accarezzare dal lungo soffio dell’oceano Pacifico fu per volontà di Thomas Jefferson, grande intenditore di vino (dal medico e filosofo Filippo Mazzei prese anche lezioni di enologia e viticultura) : infatti il terzo presidente d’America commissionò a suo tempo Agoston Haraszthy (Pest, Ungheria 12 Agosto 1812 – Corinto, Nicaragua 6 Luglio 1869), ritenuto tra i padri della viticoltura californiana e responsabile di aver portato la fillossera in Europa) il quale si incaricò di selezionare lo Zinfandel direttamente dal suo paese di origine, proponendo anche altre talee di “Vitis europea”.
Quando l’Università di Davis, nei pressi di Sacramento, fece il primo censimento ufficiale delle viti coltivate in California il nome trascritto nei documenti era divenuto definitivamente “Zinfandel”.Correva l’anno 1885.
Era iniziato il cammino di una vite verso un’altra terra promessa, verso un nuovo concetto di vino. E tutt’altra enologia. E Il debito di riconoscenza verso queste uve per aver fatto la fortuna dell’enologia californiana moderna è enorme ( 200.000 gli ettari vitati oggi) e ha dato impulso a studi sull’origine delle varietà Zinfandel, sul percorso che l’ha condotto fino al Nuovo Mondo e sull’analogia intercorrente tra esso e determinate varietà viticole europee.
Nel 1967 fu proprio un docente dell’università di Davis, il prof. Austin Goheen, di passaggio a Gioia del Colle, ad accorgersi di quanto Primitivo e Zinfandel fossero simili e ciò spinse a condurre test biochimici che diedero come esito sul confronto delle due viti analisi pressoché identiche; ma la tecnologia dell’epoca non aveva raggiunto un grado di efficacia assoluta ecco perché nel 1990 Carole Meredith, professoressa del dipartimento di viticultura ed enologia alla U.C. Davis, decise di condurre una ricerca, ancora più approfondita, in Croazia; avvalendosi sia della collaborazione dei dottori Ivan Peic ed Edi Maletic, della Facoltà di agronomia di Zagabria, che del materiale scientifico raccolto dall’ampelografo Marcel Jelaska dell’ “Istituto per le Culture Adriatiche e bonifica del terreno carsico” a Spalato, scaturito da osservazioni e confronti dal 1950 al 1968 sulle variazioni clonali della vite “Plavac Mali Crni”.
Nel 1998 la studiosa americana stabilì in maniera inconfutabile che Primitivo e Zinfandel hanno la stessa identità, sfruttando la biologia molecolare e le tecniche di analisi genetiche come il “dna fingerprinting”; inoltre, grazie ai colleghi croati della facoltà di agronomia di Zagabria, individuò nello Zinfandel e nel “Dobricic” (vitigno diffusissimo sull’isola di Šolta) i genitori del Plavac Mali, ampliando, nel 2001, lo spettro delle indagini ampelografiche nella zona di Kaštela ed individuando le viti dalmate di ” Crljenak Kaštelanski” che Agoston Haraszthy portò con sé in America riconoscendone il dna dello Zinfandel.
Il Primitivo con le sue nove varietà clonali classificate, il Crljenak Kaštelanski con le specie che da esso sono scaturite e diffuse in Croazia e lo Zinfandel sono la medesima vite.
E migrando come accade per gli uomini di ogni epoca il Primitivo ha trasportato corredi genetici, memorie di tempi e di terre lontane, vicende umane, assumendo caratteristiche nuove, quelle dei luoghi che il destino ha assegnato loro, fortificandovi radici e identità.
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