PAN, il mito. Il dio caprio, colui che produce ‘vibrazioni’ di terrore miste a godimento, che con le sue zampe animalesche, non restituisce l’idea della sicurezza, della stabilità, ma di qualcosa pronto ad ‘aggredire’ l’oggetto desiderato, portandolo a sé, senza dargli il tempo di reagire, di rendersene conto, così da ‘avvilupparlo’ nella sua bramosia di possesso. Ed il PAN(ico) si diffonde, si ‘dispiega’ nell’oggetto/soggetto, che nel rendersi conto, nell’immediato, anche della sua propria corporeità erogena, ‘cade’ nella tensione panica, e si lascia ‘possedere’, durante la susseguente temporalità (e spazialità) dell’intero ‘attacco’.
PANICO, una condizione del soggetto, soprattutto nella Contemporaneità. Nel mezzo, la possibilità della creazione di un ‘paesaggio’, di ‘luoghi’, che dal pensiero si rivolgono al geografico, così da venirsi ad originare una sorta di ‘paesaggio emozionale’, che ratifica, attraversa, investe il soggetto panicato, tanto che una famosa frase di Goethe: “Quando mi prende una paura, invento un’immagine”, sembra poter prendere una dimensione di corporeità attualizzata. E, nella nostra epoca contemporanea, il panico e la dimensione che ne consegue del soggetto che ne è ‘investito’, sembra essere divenuta sempre più frequente, laddove tale soggetto sperimenta la necessità di costruirsi una sua ‘topografia’ possibile (diremmo, imprescindibile), nella quale lo scambio con l’Altro, nel suo porsi come ‘diviso’, possa parzialmente essere grazie anche a tutte le ‘procedure’ fobiche messe in atto, che in quel ‘geo-contorno’ possono essere espresse e mantenute, senza nessun (apparente) pericolo per sé.
Ma dove nasce, allora, il mito, e la possibile ‘localizzazione’ temporo-spaziale di un ‘paesaggio’ che fondi la narrazione, che descriva ciò che si attraversa e ciò che si evita?
Quindi, partiremo proprio da questo (semi)dio, che ci lascia narrare ciò che è il mito originario della condizione panicata, per poi, attraverso un ‘topos’, arrivare alla nostra epoca, dove il panico si fa, prevalentemente, (nuovo) sintomo psichico, e nello stesso tempo, ‘geografico’.
PAN, quindi, eco (come la Ninfa), di una Grecia immaginale, dove quella che sarà la morte del dio della selva, ‘annuncerà’ la futura nascita di Gesù Cristo; dalle loro possibili iconografie comparate, vediamo che Pan: vive in una grotta, crea musica, ha zampe pelose e piedi caprini, è fallico, mentre Gesù: vive tra i monti, ha il dono del Logos, ha gambe spezzate e piedi trafitti, è agenitale. Quindi, selva/monti, musica/logos(parola), Zoon/Körper, fallo/assenza. Tralasciando la ‘genesi’ del Cristo, ci rivolgiamo a quella del dio caprio, per lambirne i passaggi.
Pan, viene abbandonato dalla madre, una ninfa dei boschi (luogo panico), che lo aveva generato insieme al dio Ermes; questi, lo riesce a ri-trovare, e lo avvolge gentilmente in una pelle di lepre, se ne prende cura (il ‘Besorgen’ heideggeriano), portandolo con sé nell’Olimpo (luogo non-panico), dove viene accolto da tutti (da qui il nome Pan) gli Dei con benevolenza, gaudio, soprattutto da Dioniso.
Quindi, dalla pelle di lepre, suo ‘abito’, lui trae la ‘prossimità’ con il regno della Natura, mentre dal padre Ermes, la tendenza ad essere ‘ermetico’ (chiuso, introflesso, non ‘comunicabile’ emotivamente all’esterno, così come la dimensione dell’attacco di panico). Ma, esiste anche la ‘adozione’ spirituale di Dioniso, che gli consegna anche una certa tendenza a dare gioia, a farsi ‘sembiante’ di un godimento trasmissibile, ma soprattutto mediante rituali adatti a tale ‘trasmissione’, da celebrare in luoghi che si prestino a tale ‘opera’.
E questo ‘luogo’ consacrato a tale rituale è secondo la mitologia greca, l’Arcadia del Peloponneso, ossia il reale possedimento spaziale di Pan, una deserta e vergine ‘casa’ del dio della foresta, dove viveva anche la sua e la sua corte, composta da Driadi (‘dryas’, quercia in greco), le ninfe delle querce ed altri spiriti della natura. Tale topografia si presta ad una contigua similitudine con l’Eden (il ‘Gan Eden’ ebraico), il Paradiso terrestre della religione cattolica, dove Dio avrebbe creato gli esseri umani, partendo da Adamo ed Eva (e che, geograficamente, sarebbe una zona della Palestina), che però differirebbe dal primo, in quanto questo sarebbe ‘abitato’ solo da entità sovrannaturali, e non un luogo in cui le anime si rifugiassero dopo la morte.
Nella sua connotazione geografica, l’Arcadia si presenterebbe come una regione montuosa, quasi disabitata, prevalentemente occupata da pastori, che però ha assunto anche nella poesia i connotati di sogno idilliaco, in cui non era necessario lavorare la terra per sostenersi, perché la natura provvedeva già a donare all’uomo il necessario per vivere.
Quindi, luoghi e pensieri ‘panici’ si intrecciano, configurandosi come una possibile polarità di ciò che sia possibile attraversare/vivere e di ciò che, invece, non possa essere attraversato, se non in condizioni ‘rituali’. E tale polarità (che sembra essere un ‘presidio’ interno di Pan), la si ritrova anche nei ritmi degli esseri umani: piacere/dispiacere, coazione/inibizione, introversione/estroversione, fusione/separazione.
La paura (emozione primaria, riscoperta come ‘logos’ di massa, dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001) ha due ‘topoi’: una componente riguardante uno stimolo esterno, e uno relativo interno, senza stimoli accertati, ossia l’angoscia (la disposizione ontologica dell’uomo, il legame con il non-essere, che non si evidenzia con la paura della morte, ma di quel nulla su cui si fonda l’essere, in quel ‘luogo’ che è la vacuità, il Vuoto).
Il panico, tramite le componenti pulsionali, si presenta sotto forma di un’angoscia disturbante e può rivelare un ‘paesaggio’ mentale attraversato da un pensiero paranoico (panico di essere omosessuale, di essere un assassino, di essere ‘controllato’).
Nel soggetto panicato, rispetto al proprio ambiente, alla propria possibilità di ‘camminamento’ (Heidegger, 1927), tenderebbero a rilevarsi due modalità di ‘movimento’ della personalità (Balint, 1959): quella ocnofilica e quella filobatica. Nella prima, la libido tenta di connettersi con gli oggetti nell’ambiente (e quindi, anche a ‘spazi’, ‘luoghi’ che restituiscano sicurezza) abbarbicandosi ansiosamente ad essi, oppure, per contrasto, essendo respinta da essi e trascinata negli spazi intermedi.
In questi ‘passaggi’ ambientali, in questi luoghi, rappresentati da una città, da un strada, da un ponte, da un tunnel, dove ogni ‘passo’ può rivelare un transito ‘ossidionale’ (Virilio, 2004), può scatenarsi un attacco di panico nella sua multiforme dimensione: dirompe in maniera ‘sconvolgente’, a freddo, senza un avviso; si manifesta, all’inizio, con una sensazione di soffocamento (colpi di tosse vengono fatti, quasi per liberarsene), poi subentra la sensazione di stare sul punto di morire (magari, per infarto) e si ‘sentono’ le pulsazioni del cuore accelerate; brividi, sudorazione, stomaco ‘bloccato’; e poi, sensazione di stordimento, di intorpidimento, di perdere il controllo sugli eventi (talvolta, anche l’idea di poter impazzire).
Ed in tutto questo, il luogo dove ciò accade per la prima volta, diventa il punto originario della propria singolare paura, un ‘ancoraggio’ geografico che il soggetto, da quel momento in poi, non desidererà più attraversare, se non in compagnia di qualcuno, sentendosi, probabilmente, protetto dalla presenza di un altro che lo possa ‘strappare’ dal momento panico. La possibile complicazione del panico, è proprio il momento dell’”agorà”, dello spazio aperto, non delimitato da confini spazio-temporali, dove un soggetto può non sentire più il limite dato dell’estrema sensazione di paura, di illimitatezza del momento acutamente vissuto in quella dimensione, e di questo ne teme il ripetersi, il riproporsi, nell’eventuale identica situazione. Nasce così la ‘neo-geografia’ del soggetto panicato, l’instaurarsi nella propria mente di ‘percorsi’ possibili che dovranno differenziarsi da quelli im-possibili, quelli che non si potranno/dovranno più attraversare, pena la ‘tentazione’ panica, la proposta di scambio con l’Altro, che l’atteggiamento fobico che verrà ad inserirsi nel periodo post-panico, cercherà in tutti i modi di evitare. Si crea così un nuovo paese nel paese, una nuova città nella città (Recalcati, 2010), e si tracciano ‘mappe’ geo-mentali che serviranno da quel momento in poi, a dare la ‘direzione’, per il soggetto, verso l’evitamento della crisi panica.
I luoghi di possibile passaggio tendono a diventare ‘quartierizzati’, ‘parcellizzati’, e si divideranno in quelli frequentabili, e quelli assolutamente da evitare. Piazze, strade provinciali, tangenziali, autostrade, mercatini, ipermercati, teatri, cinema, tutto si può fare ‘segno’ del possibile scatenamento di una crisi panica. Queste ‘mappature’ serviranno al soggetto per (tentare di) sopravvivere, domare il momento, cercare di padroneggiare il luogo, correndo, però, il rischio di restare intrappolato nella banalità di un attimo sempre uguale, di una spazialità sempre indifferenziata, di una continua immersione nella “cronicità del quotidiano” (Basile, 2010). Ciò che il soggetto panicato sperimenta come positivo è, quindi, l’ordine, l’immutabile, il mai-diverso giornaliero, il comune momento che non si rivela come ‘Unheimlich’ (spaesante) nel suo porsi come diverso da ciò che sembrava.
Altrimenti, l’attimo dell’Improvviso potrebbe produrre una lacerazione, una ‘effrazione’, foriera di sofferenza, nella ‘normalità’ che faticosamente si tende a costruire, per non rischiare di avere quella continua sensazione di non avere più il controllo sulle cose, sui luoghi, finanche sulle persone. Sì, perché anche il ‘mondo-ambiente’, ciò che si era palesato fino ad allora come amichevole, come ‘Heimlich’ (familiare), nell’Altro dei soggetti prossimi a se stessi, può diventare una ‘rammentazione’ della propria condizione di soggetto panicato.
Allora, oltre alla ‘mappatura’ del mondo possibile, può cominciare una sorta di ‘desertificazione’ delle relazioni fino ad allora mantenute in vita (indipendentemente, dal ‘grado’ di affettività presente tra i soggetti); quindi, si può arrivare ad una sorta di ‘challenge’, di ‘eliminazione diretta’, delle presenze nella propria vita. Ne possono fare le spese parenti, amicizie, colleghi di lavoro, nuove possibili relazioni d’amore, tanto che si produrrà una nuova ‘agenda del quotidiano’, che abbia differenti ‘coordinate’, rispetto al passato pre-panico. E, d’altro canto, ci potrà essere la ‘elezione’ di uno o più soggetti ad accompagnatori fissi negli spostamenti che il soggetto dovrà fare, cosicché egli si possa garantire di non essere mai separato da qualcuno, mentre compie le sue ‘incursioni’ nei paesaggi-panici che non potrebbe non attraversare. Ciò porta, di riflesso, a pensare come questo soggetto abbia difficoltà a rendere responsabilmente soggettiva la propria separazione dall’Altro, che in questo caso, è l’Altro materno (non essenzialmente presente nella realtà, ma ‘presente’ fisso nel reale), che si palesa come soffocante, imprigionante, e non facilita la separazione. A latere della dimensione topografica, c’è anche l’insistente desiderio di ‘conoscere’ (per esempio, prima di un viaggio) i luoghi che si andranno a visitare, chiedere se esistano strutture ospedaliere (l’ospedale è il luogo di maggiore riferimento per un soggetto panicato, in quanto, ad ogni crisi, ci si recherà lì per tentare di creare un ‘argine’ a quelle sensazioni ‘deterritoriali’ che sono comparse, mentre magari si percorreva un tratto di strada o un tunnel), sapere in anticipo numeri telefonici di tali strutture, per essere certi che qualsiasi cosa accada, si possa raggiungere subito una voce ‘competente’.
Tutto, nel segno, per un soggetto panicato, di evitare la drammatica percezione che, rispetto al luogo nel quale si trovi in un momento di panico, non possano esistere ‘vie’ di fuga, che tutto l’Intorno, all’improvviso diventi, forzatamente, l’Interno, senza nessuna possibilità di evitarlo. Si potrebbe dire che, rispetto al soggetto anoressico (gr. ?νορεξ?α, anorexía, comp. di an- priv. e órexis ‘appetito’, ma anche, seguendo Aristotele, ‘tensione’), il soggetto panicato diventi ‘PAN-orexico’ (ossia, ‘tutto teso’), e quindi, costretto ad ‘introiettare’ lo spazio circostante, in preda allo smarrimento del proprio ordine simbolico.
Concludendo, l’idea che, nel soggetto panicato, diventi fondativa una ‘mappa delle (geo)possibilità’, un ‘navigatore emozionale’ pre-determinato sulla scorta delle crisi di panico succedutesi, rivela come si possa costruire una possibile lettura del Legame Sociale che verrebbe a mancare in tali soggetti, anche rispetto a quello che Mitscherlich definì il ‘feticcio urbano’ (Mitscherlich, 1968), laddove i deboli ‘confini’ della propria identità, nel loro crollo improvviso, possano trovare correlazioni significative con il crollo dei confini territoriali, imponendo la necessità di una nuova dimensione topografica a coloro che ne sono affetti.