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Non tutti sanno che l’Unesco ha dato, molto tempo addietro, la seguente definizione di giornalismo investigativo: la rivelazione di questioni che sono nascoste sia deliberatamente da qualcuno in una posizione di potere, sia accidentalmente dietro una massa caotica di fatti e circostanze, con l’analisi e l’esposizione di tutti i fatti rilevanti per il pubblico. In questo senso il giornalismo investigativo contribuisce in maniera cruciale alla libertà di espressione ed allo sviluppo dei media.

Se qualcuno si stesse chiedendo se sussista una differenza tra giornalismo investigativo e giornalismo d’inchiesta, la risposta è sì: Infatti, l’inchiesta in sé implica un’indagine approfondita, volta a cogliere quanto normalmente sfugge alla cronaca, mentre il giornalismo investigativo si caratterizza proprio per la volontà di illuminare preliminarmente tali vicende nascoste. Pertanto giornalismo investigativo e giornalismo d’inchiesta sono conseguenti e complementari; in buona sostanza, per attuare il giornalismo d’inchiesta occorre mettere in moto anzitutto le attività che caratterizzano il giornalismo investigativo al fine di dare notizia di quanto volontariamente o accidentalmente sia stato nascosto agli organismi di comunicazione e quindi all’opinione pubblica.

Un punto estremamente cruciale per chi vuole avviare investigazioni, elaborare un dossier e fornire notizie divulgate dal giornalismo d’inchiesta è rappresentato dal fatto che talvolta i soggetti dell’inchiesta non hanno la benché minima intenzione di divulgare le faccende che vengono messe sotto indagine e spesso, per fugare un certo “effetto Nordio”, non sono messi neanche a conoscenza del progetto di indagine, altrimenti tenterebbero a insabbiarlo oppure eludere domande. Non si tratta di trarre in inganno persone ignare di essere oggetto di indagini giornalistiche, ma di provvedere, deontologicamente e con riserbo, ad evitare ulteriori emorragie della verità che si vorrebbe portare alla luce, meccanismi tra l’altro insegnati all’università, attraverso corsi di formazione e perfezionamento specifici.

Come sostiene Hugo de Burgh, giornalista, teorico dei media e fondatore del China Media Centre all’Università di Westminster, un giornalista investigativo è una persona la cui professione è di scoprire la verità e identificare gli scostamenti da essa in qualsiasi modo lecito possa essere disponibile. D’altronde verità, oggettività ed equità sono alla base dell’etica del giornalismo stesso, palesando evidentemente che il giornalismo d’inchiesta non è affatto riconducibile ai concetti lungamente superati di destra o sinistra.

A scanso di equivoci è bene sottolineare che il giornalismo, per investigativo o di inchiesta, non può sostituirsi in alcun modo alla legge, all’autorità giudiziaria e agli organi di polizia, in quanto esso costituisce un’attività di ricerca e di divulgazione, ma sono più frequenti i casi in cui è stato d’ausilio che d’intralcio al lavoro degli inquirenti.

A proposito di leggi, stando al Potere Giudiziario il ruolo di condurre le indagini è riservato al Pubblico Ministero, e mentre il Giudice per le Indagini Preliminari esercita un controllo di legalità sullo svolgimento delle stesse, il Giudice dell’Udienza Preliminare valuterà se le prove raccolte siano sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio.

Ma cosa c’entra tutto questo con Report, la trasmissione di Sigfrido Ranucci in onda su Rai3, e il mondo del vino?

Intanto che Report, dietro il giornalismo investigativo, si occupa di giornalismo di inchiesta, un’attività legalmente svolta e tutelata al servizio della verità, indipendentemente dal fatto che essa possa piacere o meno.

Il vino è un asset strategico per l’economia del nostro Paese e di conseguenza si giova di una comunicazione di settore, condotta da professionisti a vari titoli e livelli che, pur non necessariamente, dovrebbero essere mossi dagli stessi principi etici di tutti gli altri giornalisti, salvo rilevare che la comunicazione in sé, per quanto faccia in una qualche misura anche cultura territoriale, è più asservito al marketing del vino che all’informazione sul vino, dedicata alle cantine e al grande varietà costituito da quel nugolo di fiere della vanità, messo in moto da guide, recensioni e premi, nati evidentemente per proteggere e promuovere un sistema economico, non certo per difendere il vino in tutte le sue più autentiche espressioni, non di fatto per ravvisare la coerenza a leggi, processi produttivi e disciplinari, e niente affatto per praticare giornalismo, tanto più che la critica enogastronomica è attualmente, nella migliore delle ipotesi, propaganda.

Infatti la propaganda, funzione della comunicazione persuasiva, è proprio quell’attività atta a diffondere idee, convinzioni e informazioni con l’obiettivo di indurre il soggetto target, il consumatore in questo caso, a specifici atteggiamenti e azioni, mediante il metodico, consapevole e pianificato utilizzo di tecniche di persuasione per raggiungere specifici obiettivi a beneficio di coloro che organizzano il processo.

Insomma non è che Lugi Veronelli e Robert Parker siano colleghi per il sol fatto che abbiano il vino come comune denominatore: è evidente che l’uno se ne è occupato in una maniera decisamente diversa dal secondo.

Chissà poi perché, a voler mettere assieme gli elenchi di tutte le guide enologiche e le recensioni delle bottiglie, tutti i vini siano al momento “tuttamente” buoni.

È propaganda dettata dalla comunicazione finalizzata al marketing o critica enologica di preciso?

Adesso, considerando che la comunicazione di settore è evidentemente acritica in quanto in essa è connaturata la sua funzione di propagandare e persuadere, perché accusare Report di incompetenza e di generalizzare, piuttosto che concentrarsi sulle verità oggettivamente affiorate grazie alle buone pratiche del giornalismo di inchiesta?

Forse che il Pubblico Ministero deputato alle indagini sul metanolo fosse un incompetente perché, pur avendo scoperto gravi fatti di illegalità, al tempo non era un esperto di vino, non fosse in possesso di un diploma di sommelier e non certo laureato in viticoltura ed enologia?

È vergognoso piuttosto l’atteggiamento buonista di certi soggetti che, nel corso degli anni, non hanno fatto altro che sminuire gli scandali del mondo del vino e i risultati oggettivi conseguito dai Nas e dall’Istituto Repressione Frodi, con oltre 2200 ordinanze di ingiunzione da parte dell’IQRF nel 2023 e con imbrogli e sequestri ancora all’ordine del giorno.

La ratio su cui si fonda il giornalismo di inchiesta e le indagini di un Pubblico Ministero non sono poi così dissimili, men che meno le finalità, bisognerebbe invece considerare che il movens della comunicazione e del marketing del vino è la spettacolarizzazione del vino stesso e di chi lo produce, dietro legittimo compenso; bisogna riconoscere obiettivamente le differenze e comprendere che parliamo di sport e campionati completamente diversi.

Va osservato che il giornalismo può fare comunicazione, ma non necessariamente la comunicazione fa giornalismo, eccezion fatta per il giornalismo enogastronomico; quest’ultimo comunque non dovrebbe fare comunicazione persuasiva, non dovrebbe fare propaganda, non dovrebbe fare marketing e quando tratta di territorio esso non dovrebbe certo coincide con la proprietà di un’azienda, come in realtà spesso s’intende: sennò a qualche lettore verrà da notare che con tutto ‘sto amore per il territorio, se fosse vero, ci si potrebbero asfaltare tutte le strade che conducono alle cantine, no?

Fondamentalmente, se una cospicua fetta di comunicatori del vino, di addetti ai lavori e di esperti in materia di vitivinicoltura, si solleva contro Report, tutte le volte che parla di vino, accusando Ranucci di incapacità e pretendendo che siano proprio gli esperti a parlare, accusa sé stessa di ignoranza, nella migliore delle ipotesi e se non a conoscenza dei fatti, o più semplicemente sta facendo ammissione di omertà, visto che gli esperti dovrebbero essere loro e sempre loro a dover “cantare”.

Sull’atteggiamento omertoso e sul nascondere, per dire, la polvere sotto al tappeto ci sta poco da aggiungere, poiché dietro alle attività economiche ci sono degli interessi tra commissionari e committenti la comunicazione, la web reputation e il wine marketing, pertanto è bene ribadire quanto segue:

La comunicazione del vino tradisce il vino in nome della sua spettacolarizzazione e del business!

Chi sapeva, spingendosi al punto di parlare di acqua calda, soltanto dopo che però i fatti sono diventati notizia su Report, evidentemente è intellettualmente disonesto, ha mancato di tempismo e se ne è stato zitto per convenienza o quieto vivere. E chi non sapeva? Pure. Anche perché di voti di ammissione non è ancora pervenuta traccia.

Chi non era al corrente dei fatti riportati nella puntata del 22 dicembre scorso, come nelle puntate precedenti, dovrebbe un attimino ingoiarsi tutte le parole di elogio per i vini delle cantine imputate, avendo lautamente pontificato su di esse fino alla genuflessione, dovrebbe cancellare i selfie con le super bottiglie, eliminare le recensioni dove nei calici trapelava, a loro dire, il terroir e proprio tutte, ma tutte, le proprietà organolettiche dei vini fatti con uve dichiarate assolutamente di quello specifico vitigno, allevato specificatamente in Toscana.

Ma insomma, si fa prima ad ammettere di essere degli ipocriti e mediocri che hanno perso di credibilità, bruciando nel frattempo quantità monumentali di guide, articoli e recensioni, o attaccare Report e dare dell’incompetente a Ranucci?

Se qualcuno aveva la verità a portata di mano, a non raccontarla si potrebbe serenamente parlare di collusione, mentre se quella verità abbia in una qualche misura folgorato qualcuno, smascherando una certa ignoranza, probabilmente una ignoranza consapevole, ferendone l’orgoglio da assaggiatore, si è preferito attaccare chi la sostiene soltanto per difendere affermazioni risibili su vini e aziende implicate, allora la questione è ben diversa: l’incompetente, ad esser cortesi, non è Ranucci, ma quel qualcuno in questione!

Adesso una svista olfattiva, prendendo fischi per fiaschi, può capitare a tutti, ma è la reazione che fa la differenza tra persone galanti e paladini della menzogna. Basterebbe poco ad ammettere di essere stati inconsapevoli di certi meccanismi e di essersi sbagliati, bevendo tutt’altro che terroir toscano allo stato puro.

Compreso che i pm e i giornalisti di inchiesta hanno in comune che indagano per svelare la verità e che non hanno necessariamente la laurea nella materia su cui indagano, le magre figure le fa incontrovertibilmente tanto chi tace, per non perdere privilegi acquisiti, quanto chi ha lasciato naso, discernimento e senso del terroir a casa, capendoci poco o niente di quei vini, praticando quella meschina disonestà intellettuale pur di mantenere la nomea di esperto e un certo contegno da due soldi.

Ciò che Report non dovrebbe fare è mettersi contro la lobby costituita da cantine, enologi, agronomi, enti, associazioni di categorie e tutti gli addetti ai lavori della comunicazione enologica e vitivinicola, poiché questa smania di inchieste in questo settore, a detta dei diretti interessati, danneggerebbe il buon nome del Made in Italy, per non parlare dell’incompetenza e della maniera di lanciare accuse in maniera generalizzante, mettendo a rischio la reputazione di un intero comparto.

Nell’attacco a Report, tanto da parte di chi è a conoscenza dei fatti che di chi deve salvare le apparenze, c’è una parola che accomuna tutti: parassitismo. Luigi Veronelli è stato il fondatore della critica enogastronomica italiana e il primo a portare il vino in televisione. Proverbiali e attuali sono le sue parole quando asseriva che ci sono più parassiti nel mondo del vino che in vigna, intendendo appunto questo mentecatto opportunismo da parte del sistema vino accademico-comunicativo che darebbe volentieri fuoco al vero e giusto Made in Italy, pur di salvare i propri interessi.

In realtà quel che a Report non capiscono è che l’italiano medio non vuole stare dalla parte della verità ma dalla parte del più forte: sarebbe meglio mettersi a spalare tutta questa montagna monumentale di merda, col cucchiaino o il tastevin d’argento, trangugiandola, oppure ambire alle consulenze agevolate dell’enologo di grido, con i soggetti giusti a recensire il vino, scalare la gerarchia degli enti di settore ed avere una nomina importante, ottenere il gettone per il press tour e, perché no, una gran pacca sulla spalla con a seguire un “dai che se continuate a fare i bravi vi mandiamo a fare i giudici di gara a quel concorso enologico”?

Ranucci, per piacere, le basi!!!

Non ci si può mettere a rompere le uova nel paniere con certi reportage: questa è tutta gente per bene, sai? Non ama fare polemiche. È tutta gente che piace alla gente che piace! Suvvia Ranucci! Eppoi, non si può mica raccontare la verità senza prima imparare la corretta pronuncia dei vini? No perché il paradosso, per certe menti audaci, sarebbe che verità e pronuncia debbano andare a braccetto, sennò la seconda inficerebbe la prima.

Ciò che Report non dovrebbe mai fare è dimenticare che viviamo in un Paese ipocrita, ben disposto a sacrificare la verità pur di salvare le apparenze e gli interessi, anche a costo di immolare la parte sana, onesta e operosa del mondo del vino.

Ma poi, siamo proprio sicuri che la buona reputazione di un asset strategico per l’italica economia, quale è certamente il vino, sia messa in discussione dal tentativo di raccontare la verità, piuttosto che dall’andazzo generale di chi getta discredito sull’indiscussa qualità del vino a prescindere dalla regione di produzione? Questo fronte comune contro la trasmissione di Sigfrido Ranucci sembra piuttosto l’atteggiamento di un’Italia affetta dalla sindrome del deresponsabilizzato che, tra narcisismo, manipolazione e propaganda, tenta di accusare chi reagisce legittimante alle colpe altrui.

È certamente l’talia dei mediocri a dibattersi, tra il volere una stampa libera e il desio di sopprimere Report, perché in fondo c’è Italia e Italia e all’Italia del vino con le sue certezze, i circoli di potere ed amicizie istituzionali-accademiche ad ogni livello, affiancata da un’inesorabile macchina comunicativa a raccontare in maniera fiabesca le virtù di certi terroir precostruiti al consumatore, non piace affatto si parli di lei in certi termini.

In questa Italia che giurerebbe sulla Bibbia urlando “in vino veritas” a squarciagola, raccontare la verità è da spudorati, privi di rispetto e di ogni senso di solidarietà per il Made in Italy…. Si, ma il loro Made in Italy!

L’Italia che da sempre punta alla coerenza dell’informazione mediante cui il vino viene reclamizzato, all’etica enologica produttiva e alla qualità del vino, non ne verrà certamente scalfita proprio perché internazionalmente riconosciuta e apprezzata dagli amanti del bere buon bere, a partire dai nostri connazionali.

E la cosa bella è che il potere dell’industria enologica viene difeso strenuamente proprio da quei fessi che inganna o da quei furbi che paga: una folta schiera di amanti del vino e di esperti sommelier che, nel dubbio di dovere ammettere di non averci capito nulla e nella fatica di doversi rifare una verginità, fanno prima a coalizzarsi col sistema, continuando a vivere nell’illusione di sapere come annusare il territorio quando gli si rifila un calice di Super Tuscan delle aziende menzionate nella trasmissione. Eh sì, perché Report, a conferma di questa ipocrisia nevrotica, stavolta non ha sparato nel mucchio ma ha citato precisamente tutte le aziende coinvolte.

Ma allora qual è il problema? Nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa c’è ancora una verità italiana: tutto cambia perché nulla cambi.

Un piccolo parallelo: prima di Calciopoli tutti sospettavano di quanto fosse corrotto il calcio, ne parlavano schifati, poi quando sono venute fuori le magagne, scoperchiato il fatidico vaso di Pandora, cosa hanno fatto gli italiani? Ci si sono avvinghiati ancora di più al calcio, da quei bravi fessi che sono. E niente, siamo fatti proprio così.

Ma Calciopoli, tornando in tema, fa rima con Brunellopoli.

Il fattaccio, di cui non occorre riportare la vicenda, scoppiò grazie alle indagini dal 2003 e 2007. Su Velenitaly poi, le conclusioni della Guardia di Finanza preannunciarono all’epoca il più significativo scandalo nella storia del vino italiano dopo quello del metanolo. Come oggi, neanche all’epoca furono fatte le debite scuse ai consumatori e, a dimostrazione che tutto doveva cambiare perché nulla cambiasse appunto, non vennero intensificati i controlli. Altra barzelletta fu che venne modificato il disciplinare del Brunello di Montalcino: non più Prugnolo Gentile in purezza, come promettevano le cantine implicate e come osannava la comunicazione al solito, bensì venivano ammessi i cosiddetti vitigni migliorativi, cioè quelli sul banco degli imputati rifilati in bottiglie, poi declassate dopo lo scandalo per non essere da monovitigno.

L’Italia purtroppo è un Paese che ha un server di memoria collettiva pari a quello di un cellulare di venti anni fa: viviamo ancora nel fottuto Paese in cui le vittime del metanolo non sono mai state risarcite e da allora gli scandali, tra Velenitaly e Brunellopoli, non sono mai cessati.

Ce ne faremmo di grasse risate se i database sul dna dei vini, oggi ancora vergognosamente riduttivi, venissero aggiornati e rinfoltiti di tutte le informazioni, come si conviene per una banca dati ministeriale, la quale dovrebbe essere disponibile alle forze dell’ordine, con strumentazioni ancor più all’avanguardia, per garantire controlli seri sull’origine dei prodotti. È sin troppo evidente che c’è una volontà atta ad annichilire la possibilità che gli organismi di controllo possano dotarsi finalmente di informazioni complete, mantenendo costantemente quell’handicap che impedisce uno screening esaustivo sull’origine e composizione dei vini.

La verifica del rapporto isotopico sui campioni di vino prelevati dalle bottiglie commercializzate, da questo punto di vista, sarebbe un’indagine decisiva.

Ecco perché un’altra frase del celebre dialogo di Don Fabrizio Gerbèra, principe di Salina, torna utile e calza a pennello per il Bel Paese:

Il sonno caro Chevalley, il sonno è ciò che vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”.

Oggi ci riscopriamo, oltre che tecnici del calcio e virologi, degli impeccabili esperti di vino. E tale vogliono restare gli esperti, perché fa un male cane aver percepito il top della campagna bolgherese in vini un po’ veneti, un po’ romagnoli e un po’ abruzzesi, con sprazzi di nettare siciliano, che diventano indicazione geografica presunta, sorpresi a tracannare e riportare a pappagallo, in forma scritta e verbale, pure i pipponi maniacalmente costruiti sull’autenticità di uve altrimenti irripetibili, vendemmie manuali e l’ineccepibile interpretazione dell’annata.

Si, fa un male cane: è meglio essere intellettualmente disonesti che prendersela con chi ci ha gabbato con la comunicazione e spillato bei soldi per del vino pagato suppergiù 3 euro al litro. Macché scherziamo, il coraggio civile e l’onestà intellettuale di ammettere che siam tutti dei creduloni nella migliore delle ipotesi?

Cose da pazzi! Quello che Report non dovrebbe fare è tentare di risvegliare appunto le coscienze di certi winelover, enotecari, ristoratori e sommelier, salvo chi ragiona col suo naso e fatte le debite eccezioni, il cui imperativo categorico è “negare, assolutamente negare, negare sempre”: c’è più vantaggio a far parte del sistema perché lo scambio clientelare esiste e perché a certi soggetti fa più male l’orgoglio che la coscienza. Chiedere alle baronie del vino ed i loro lacchè di raccontarci la verità ed ammettere le defaillance del sistema è un po’ come, citando Giordano Bruno, chiedere al potere di riformare il potere stesso.

Occorre però che Report non incentri sempre il dibattito su ciò che nella produzione di vino possa essere legale o illecito, per quanto giusto e opportuno indagare: il problema del vino in Italia è anzitutto morale. Inoltre, per spostare l’ago della bilancia verso un’inchiesta più ragionevole, senza attirarsi troppe critiche insulse e far ridere i polli, sarebbe bastato, sin dalle prime puntate, esordire sottolineando ciò che è etico da ciò che non lo è, perché il confine tra legalità e frode, su ciò che si possa usare o meno in enologia, è davvero sottile e, se non trattato scientemente, rischia di diventare terreno accidentato per il giornalismo di inchiesta e facile attacco da parte dei detrattori.

Facciamo un esempio: supponiamo che Report affermi che nella pratica della stabilizzazione e chiarifica dei bianchi viene illecitamente usata bentonite con particole di arsenico… Facile attaccare Ranucci, poiché gli addetti ai lavori direbbero che l’arsenico, nella bentonite non ad uso dell’enologia biodinamica, è ammesso in determinate percentuali, assieme al piombo e al mercurio, addirittura dalle leggi comunitarie. Se Ranucci ne facesse una questione legale e urlasse allo scandalo ci farebbe la figura del sempliciotto e dello sprovveduto, se invece chiedesse se ciò sia etico dal punto di vista produttivo e della salute aprirebbe un capitolo legittimo e decisamente più interessante, impedendo vie di fuga a chi maggiormente si arrocca sull’ignoranza enologica del conduttore televisivo.

È altrettanto noto che bastarebbe aumentare la quantità di certi prodotti enologici, normalmente ammessi per fugare i rischi di ossidasi, garantire la fissione del colore e fugare l’instabilità proteica, per ottenere invece una correzione su certi parametri organolettici nel vino per commettere un illecito. La quantità fa la differenza, ma occorrerebbe dimostrarlo, ergo la presenza in azienda di certi prodotti enologici non costituisce una prova di illegalità. Dunque la domanda più opportuna in tal caso sarebbe: ma è lecito l’uso oltre una certa soglia quantitativa? Gli esperti, quelli che non hanno mai parlato, se non dopo Report, conoscono benissimo la risposta.

Viviamo in un Paese dove la comunicazione, persino quando si tratta di classificare le cantine per dimensione, narra che ve ne siano di piccole, di medie e grandi: salvo rarissime eccezioni, non esistono cantine grandi, ma industrie enologiche, che hanno oltretutto un ruolo politico e un peso specifico nelle istituzioni che regolamentano le leggi sulla viticoltura e sulla produzione del vino. In un sistema corrotto il problema non è Report ma tutti gli yes man che hanno a che fare con esso, avendone solo vantaggi, ecco perché in Italia la diffusione della conoscenza del vino, oltre tutto quello che c’è dietro, è irregimentata.

Il mondo del vino è un mondo arrogante, potente e contradditorio che non vuole essere contraddetto.

In definitiva, la credibilità del vino italiano non è certo attaccata né da chi è deputato a fare i controlli, né da chi si occupa di giornalismo serio, bensì da quelle cantine, ritenute serie e affidabili per il prestigio maturato, poi colte in fragrante, gettando discredito su un intero comparto, unitamente a tutte le altre, a diversi livelli, che commettono atti illegali, illeciti, poco etici e moralmente incerti, inclusa una certa maniera di fare storytelling creativo e per niente aderente al contenuto della bottiglia.

Fortunatamente la stragrande maggioranza delle cantine, in tutte le regioni italiane, lavora sodo per tutelare la viticoltura e garantire un prodotto etico al consumatore, così come non mancano ambasciatori del territorio che, grazie alla loro professionalità, narrano fedelmente storie vere di vini autentici, di persone oneste e operose.

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