Dicono che il silenzio non esiste. A Lollove c’è
. È un suono bianco, che sa di beatitudine e pace, crea accordi e atmosfere rare. Piccole casette di pietra, tagliate a metà dalla fitta nebbia d’autunno si stringono intorno ai vicoli stretti, toccano il cielo, in un caldo abbraccio. È un minuscolo borgo antico della Barbagia. Semplice, magico, dove l’acqua e l’aria sono buone, i cibi prelibati sanno di farina dolce e basilico, e spezie rare selvatiche. E la qualità della vita è ottima. Imboccato il bivio per Orune nella diramazione extraurbana secondaria della 131 verso Olbia, seguendo le indicazioni verso “La Solitudine”, la piccola chiesa che conserva le spoglie di Grazia Deledda, e la fonte sacra nuragica “Su Tempiesu”, il più è fatto. Una vecchia e malandata segnaletica blu, in piedi su uno spiazzo sterrato indica finalmente, con discrezione, la rotta verso Lollove: dritti lì, verso l’alto, non si può sbagliare. Al paese, appartato tra i monti e adagiato su un pendio, ci si arriva in macchina, attraverso una stretta e tortuosa strada (solo in parte asfaltata) che si arrotola a spirale nel verde della collina.
Allontanandosi, la sera, assume le sembianze di un piccolo presepe illuminato da poche e fievoli luci. È una minuscola frazione di Nuoro, dal quale dista 15 km, fuori dal mondo, da tutto. Un antico villaggio agro-pastorale, abitato oggi da una micro-comunità, che conta circa una decina di abitanti: accoglienti, disponibili, generosi. Le origini del suo nome non sono del tutto certe. Lollobe nella lingua locale, prendendo spunto dal termine sardo arcaico Lo’ ò significherebbe “corso d’acqua” o Lòbe che sta per “ghianda”, ma anche “salita ripida”, secondo alcuni anziani del paese che facevano risalire il nome a lontane origini fenicie.
Un nome molto bello. Il suono e le lettere che lo compongono hanno un sapore e un colore, sprigionano raggi di luce, trasformano in immagini di nuvole e vapore il paesello, e suggeriscono agli stessi abitanti combinazioni creative di altre parole in suoni anglofoni come “Lol” e “Love”.
Lol, acronimo di “lots of love” o “lot of laughs”, e “love” inscritto in un cuore di ferro battuto. Simboli del carattere stesso della comunità, affissi in una vecchia trave di granito, come scolpiti nei secoli.
Un posto incantevole dalle origini medievali che conserva ancora la tipica struttura urbanistica dei borghi storici. Tutte le piccole case si stringono intorno alla chiesetta di Santa Maria Maddalena, in stile tardo gotico, risalente al XVII secolo, il cui sguardo si innalza verso un panorama mozzafiato: l’altipiano dominato dal Monte Ortobene.
Giungere a Lollove è come galleggiare oltre la dimensione del tempo, dove leggende e storie si intrecciano, tra maledizioni, santi, pastori, suore, paradiso, memoria e consapevolezza della pace interiore. Un piccolo gioiello incastonato sui monti, pregno di una sua identità, unica, frutto di un ceppo dominante e di commistioni culturali tra paesi vicini. La lingua, non è il nuorese, ma il risultato dolce e armonioso dell’incontro tra l’orunese e l’orgolese.
Discreto, accoglie a braccia aperte i pochi turisti che vi giungono, e tutti combinano in modo bizzarro il loro idioma con quello antico lollovese, creando un piacevole gioco linguistico: francesi, inglesi, tedeschi, italiani, e sardi. È quello che si chiama oggi “turismo intelligente”, perché va alla ricerca dei piccoli luoghi, della vita comunitaria, genuina, fatta di terra e cultura.
Un piccolo villaggio, ormai quasi disabitato che non muta nel tempo, la cui bellezza si fa sempre più nitida tra le vecchie dimore in pietra e terra, ancora in parte conservatesi nei secoli, e tra le poche anime che oggi le abitano. Passeggiando per quelle viuzze di pietra, tra dolci frutti di mele cotogne e passiflora, si ha la sensazione di coglierne i ricordi e gli stati d’animo.
Attraverso la memoria degli anziani si tramanda da generazioni la leggenda secondo cui Lollove nacque molto prima di Nuoro. Un tempo in cui, probabilmente nel periodo medievale, doveva essere un comune fiorente e molto grande. Maria Giacobbe, Michele Siotto, Sebastiano Satta, Grazia Deledda: sono tanti gli intellettuali sardi che sin dai primi dell’800 ne hanno scritto e parlato, numerosi gli articoli che raccontano le condizioni tragiche in cui versava il villaggio. “La Madre”, della grande scrittrice nuorese, a partire dal 1919 raccontava a puntate su “Il Tempo” la storia di un sacerdote ambientata tra Nuoro e un minuscolo paesello denominato “Aar” che così descrive in questo breve estratto: “Povere casette arrampicate come due file di pecore su per la china erbosa, all’ombra della chiesetta che col suo esile campanile, riparato a sua volta sotto il ciglione, pareva il pastore appoggiato al suo vincastro”.
Oggi, malgrado il processo di modernizzazione, con l’adeguamento dei collegamenti, delle strade e dei servizi, e l’arrivo della tecnologia, il piccolo paese, luogo simbolo dello spopolamento delle zone interne della Sardegna, si va sempre più svuotando. Le famiglie residenti lollovesi sono pochissime, molte ormai si sono trasferite a Nuoro e altrove, ma il loro cuore è sempre, nel loro piccolo grande Lollove. Ritornano sempre nel fine settimana, o per le vacanze, non possono farne a meno.
Le cassette postali rosse, in fila indiana accolgono dritte in piedi i visitatori all’ingresso del paese, e piccoli e mansueti cani e gatti, assopiti al sole, danno loro un pigro e caloroso benvenuto. Talvolta può capitare di essere accolti da un fiero ed elegante cavallo. Con passo lento e un fare diplomatico porge agli ospiti i saluti in cambio di carezze, per poi ritornare al suo verde pascolo, con spiazzante lentezza e disinvoltura.
Non esistono negozi, bar, market, né fantasmagorie che caratterizzano la vita delle città. E non si sente affatto la loro mancanza. Anzi, proprio questo aspetto rende Lollove molto attraente, come uno dei pochi villaggi sopravvissuti all’era della globalizzazione. Si fa quasi tutto in casa, qualcuno ha l’orto, e quel che serve lo si può andare a comprare nei paesi vicini.
Il profumo intenso dei pomodori, stesi al sole a essiccare su antichi taglieri di sughero, colorano di rosso e bianco i muretti a secco al bordo delle piccole vie sterrate, e irrorano nell’aria ricordi sotto sale e aromi intensi della tradizione.
Da qualche anno l’unica locanda, “Sa Cartolina” di Toniedda, accoglie e coccola i turisti. L’insegna semplice, in perfetto stile “taverna medievale” sventola nell’aria tersa profumi dell’arte della cucina sarda. Autentica rappresentante della società agro-pastorale lollovese allestisce su prenotazione pranzi succulenti, che vedono rispettare i riti della preparazione dei cibi fatti in casa. Per prenotare basta digitare il suo nome sul motore di ricerca, e tra social e portali sul turismo, il pranzo (o la cena) è servito.
Inoltre, da diversi anni il borgo si veste a festa non solo per la celebrazione dei due santi protettori, Santa Eufemia e San Biagio, ma anche per la nota manifestazione “Autunno in Barbagia” che vede per questa occasione le “cortes” dei comuni barbaricini aprirsi ai visitatori. Tramite l’evento “Vivilollove” si è inserito in questo circuito promozionale all’interno del quale si può fare un percorso enogastronomico, artistico ed esperenziale nelle case lollovesi. I pochi residenti, custodi di antichi saperi, assumono il compito di raccontare le proprie tradizioni e la storia del paese, tra fragranze irresistibili e aromi decisi. E l’eco del silenzio, che rievoca ataviche credenze e leggende, si stringe attorno ai focolari degli antenati.
Come la leggenda della maledizione, che si trasmette oralmente da secoli, di generazione in generazione. Racconta delle origini misteriose di Lollove. Si narra che tutto ebbe inizio da un villaggio più antico che lo sovrastava chiamato Selene (dal greco “Seleni”, la luna). Da questo luogo sembra che provenisse un pastore che ebbe una relazione carnale a Lollove con una monaca del locale monastero (o che forse si trovava lì per chiedere l’elemosina), la quale tradì il proprio voto religioso. Le suore, costrette così ad abbandonare il piccolo borgo, gettarono la loro maledizione: “Lollobe, asa a essere che-i s’ abba ‘e su mare, no asa a creschere ne a morrere mai”, ovvero: “Lollove, sarai come l’acqua del mare, non crescerai né morirai mai”.
E così fu. Rispetto ai primi anni del Novecento la struttura non è infatti granché mutata. Oggi conta una decina di anime e quasi lo stesso numero delle case di tanti anni fa. Alcune di queste sono state ristrutturate con tanti sacrifici degli stessi locali, e sono ancora parecchie le antiche abitazioni abbandonate, diroccate. Ma i segni del tempo lasciano ancora intravedere il fascino di quegli angoli deliziosi attraverso i quali lasciarsi andare con la fantasia a quel lontano immaginario narrativo, che si rifà alla vita quotidiana del passato. Tra vecchi ruderi di camini spenti di pietra, legata con la terra argillosa degli antenati, e le piante grasse che vi abitano sopra come soprammobili eterni, restano orgogliosamente in piedi queste vecchie casette, metafora del carattere fiero e austero della longeva comunità lollovese. Così come le poche restaurate che conservano gelosamente la struttura originaria: piccole meraviglie da abitare, nel pieno rispetto della tradizione.
Zia Gavina
Non si può raccontare Lollove, luogo storico e di grande fascino, senza rispettare le sue tradizioni. E la quiete, che si srotola per i vicoli lasciando addosso a chi li attraversa un grande senso di benessere. Cercare di ascoltarlo allora, attraverso lo sguardo profondo e saggio di chi vi abita, lo sente, lo ricorda, lo vive. E Zia Gavina, a novembre novantaquattro anni, è una delle ultime testimoni anziane di una storia ricca di racconti e aneddoti, «in un angolo di paradiso che è un amore: “Love”», come lei stessa racconta. «Qui respiro bene, c’è acqua buona e aria buona. Mi sposto con mio nipote a Nuoro solo quando devo prendere la pensione, ma ogni volta non vedo l’ora di tornare a casa e respirare ossigeno». La “capanna”, così la chiama, è la sua piccola dimora, dove la cucina, suo regno incontrastato, comoda e accogliente, e il buonissimo aroma del caffè appena fatto, fanno sentire subito a casa.
Una casetta modesta, restaurata, dove tutto ciò che contiene al suo interno si raccoglie intorno a lei, quasi a proteggerla: come le sue vecchie foto, che la ritraggono con i suoi familiari quando era una bellissima giovane ambita da tanti pretendenti. Sulle pareti tinte di rosa pastello alcuni quadri di ricami a punto croce dipingono lo spazio della sua vita e parlano di lei. «Quella la chiamo la “Dolce Madonna”, l’opera che più mi piace. Quell’altro è il “Bambino di Praga”. Non importa se li ho fatti io. Li chiamo quadri d’autore. Ma è solo per ridere. Perchè il riso fa buonsangue». Tra le figure celesti spicca un ricamo di ninfee, tra le sue piante preferite. Sospese nell’acqua tra larghi tappeti di foglie verdi, irradiano nella stanza fragranze di luce bianca, paradisiaca, tra il rosa e il lilla dei lunghi petali.
Uno scialle di lana “verde autunno” fatto a mano appeso a un appendiabiti, crea contrasto, scalda l’ambiente, evoca il mantello del “Grande Saggio”, colei che può aiutare a decifrare i segni e a risolvere l’enigma di fondo dell’esistenza, alla ricerca del senso profondo della vita.
Su scannu, in piedi nella stanza, mostra con orgoglio gli intrecci del suo fondo impagliato, e si fa portavoce sacro della tradizione sarda. Gli antichi piatti di ceramica e le pentole di rame riposte nel tipico scaffale artigianale, celebrano i cibi dell’antica cucina e i sapori benedetti della vita familiare e della campagna, del fuoco a legna con i colori ambrati dell’inverno e l’azzurro dell’estate. Dall’altra parte sopra un piccolo mobile si fa spazio nell’angolo una piccola e analogica tv e sotto, nel minuto scaffale, uno sopra l’altro, accatastati fitti fitti come sedimenti rocciosi stratificati negli anni, i libri di Grazia Deledda, le riviste, le lettere ricevute negli anni, tantissimi articoli de La Nuova Sardegna sapientemente rilegati che raccolgono i fatti di cronaca accaduti nel corso della sua vita. Memoria viva, indissolubile, della sua, della nostra storia.
Sparsi qua e là sulle mensole, sui mobili, sul frigorifero, i soprammobili: ninnoli di tutte le dimensioni e colori ricevuti in regalo dai numerosi visitatori. Ogni oggetto marca in quel piccolo grande universo ogni periodo della sua esistenza: statuette, palle di vetro con la neve, gatti, oggetti di ceramica, cartoline, e soprattutto bambole, tante bambole. Lei non le colleziona, e nemmeno le piacciono, ma, suo malgrado, i turisti che giungono a Lollove da ogni parte del mondo, fanno tappa nella sua casa per conoscerla, portandole in dono sempre e solo bambole, di ogni tipo e fattura. E lei le accetta di buon grado, come un regalo prezioso. «Tutti quelli che vengono credono che sto facendo la collezione, e ognuno mi porta una bambola» – racconta zia Gavina nel corso di questa intervista nella sua casa – «E non sono tutte qua, ce n’è anche di sopra. Bah collezione faccio…». E chi gliele porta? «Tutte. Questa con il cappellino beige me l’ha portata una di Bologna, questa con il cappellino rosso una tedesca, quella invece da Bitti…».
Arguta e lucidissima scandisce il suo tempo lollovese tra visite, notiziari in tv, programmi di inchiesta, giornali, e naturalmente sbrigando le sue attività quotidiane. La sera, seduta nella sua comoda poltrona in vimini si trasforma nel guru che impartisce lezioni di vita ai suoi “discepoli”, ovvero chiunque abbia desiderio di ascoltare le sue storie.
E sono davvero tante le storie che si diverte a raccontare: piccoli frammenti di vita disposti in una sequenza narrativa che lei stessa governa e controlla, decide cosa escludere e cosa includere, in un frastuono di ricordi che vanno e vengono. Tutte le storie però contribuiscono a una ricostruzione possibile di una Lollove d’altri tempi, quando non c’era l’energia elettrica, e si andava in campagna a raccogliere le olive, a mietere il grano, la vita isolata in un luogo senza tempo. Salti indietro che rievocano i cibi genuini e la fragranza del pane di allora, dolce e saporito come se fosse impastato con lo zucchero, perché, lei stessa ricorda: «Tutti a Lollove avevano la mola in casa».
Ricordi della sua vita, come la sua storia, quella di una donna determinata e coraggiosa, autentica discendente di una grande civiltà matriarcale barbaricina, che malgrado la mentalità rigida dei suoi tempi (classe 1921) e i suoi trenta pretendenti tra i quali molti “altolocati”, ha preferito andare controcorrente scegliendo di non sposarsi mai, perché innamorata della sua libertà e della sua famiglia. E racconta ancora dei tempi in cui da giovane, pur non essendoci la televisione in paese, nessuno si annoiava, mai. Le ore trascorse nella vicina caserma dei carabinieri ad ascoltare il giornale radio e le vicende tragiche della guerra, o la condanna a morte nel 1958 del primo ministro Imre Nagy e del generale Pál Maléter, i due ungheresi che quella stessa notte le apparvero in sogno. E sempre mediante sogni e visioni, le apparizioni sacre, come quella di San Biagio, o la voce di Dio.
Oppure dei giochi che si inventavano da bambini con il legno, la stoffa, la carta. E di quando la sera si stava al fresco, tutti insieme, a raccontare storielle sotto una infinita volta stellata. E quel suo unico viaggio ad Alghero dove rimase un anno a casa degli zii, e il sogno ricorrente di ritrovarsi sempre e felicemente a Lollove, perché non amava stare lontano dal suo paese più di un giorno. Grande devota e custode per decenni di Santa Eufemia, patrona del suggestivo borgo, Zia Gavina si diverte a recitare i versi di Dante su Piccarda Donati dal cantico del Paradiso: terzine dantesche che volteggiano ancora nella sua memoria di ferro e che lei ama ricordare perché «stare a Lollove è come stare in Paradiso, è il posto più bello del mondo», ci tiene a precisare con quel sorriso delicato sotto i due piccoli occhi umidi e vispi. «E’ il Paradiso», sostiene ancora con elegante saggezza, «non è una dimensione che sta al di sopra di noi, ma una condizione, uno stato d’animo».
La sua istruzione scolastica si è dovuta interrompere alla terza elementare perché la famiglia non aveva disponibilità economiche, ma la sua onnivora sete di conoscenza si è comunque potuta abbeverare alla fonte della terra, così come dai libri, dalla tv e dai quotidiani, arricchendo il suo cuore e l’anima di una sapienza profonda, universale.
Dolcissima, ospitale e gentile, con una particolare “luccicanza” nello sguardo, “Zia Gavinedda” (così la chiamano affettuosamente tutti in paese) circondata e ben sorvegliata dall’affetto dei vicini e dei parenti, lascia che le sue parole inondino i suoi ospiti come un fiume in piena raccontando di santi, sogni e visioni, sempre in bilico tra la vita e l’aldilà, la fantasia, la profezia, la finzione e la realtà. Storie che pungolano l’immaginazione, offrono spunti interessanti per conoscere l’anima di questo luogo affascinante, intriso di tradizione, pace, ritmi senza fretta, vita. E silenzi, che trascendono il tempo, linfa vitale di un precario, straordinario e così raro, ancora intatto, equilibrio naturale.