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di Marta Capiluppi

Come si misura la povertà? Esiste un modo oggettivo per definire povera una persona? E’ sicuramente povero colui che non ha casa, dorme per strada, si veste di stracci e mangia, quando riesce, avanzi e rifiuti. Sono poveri i bambini che muoiono di fame e di malattie curabili. Ma è povero anche chi guadagna talmente poco da riuscire a malapena a sopravvivere, chi ha una famiglia e non riesce a mantenerla, chi si arrangia facendo mille lavoretti e vive con l’ansia di non arrivare a fine mese. E’ povero chi, colpito in pieno dalla bora della crisi, è stato spazzato via in un nanosecondo senza sapere più a che santo votarsi.

La perdita di un lavoro, la disoccupazione e la difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro sono una forma di povertà, non economica in un primo momento, ma sicuramente morale e psicologica, che porta alla possibilità dell’esclusione dalla vita sociale e in estremo all’emarginazione. I sondaggi europei riportano che una delle paure più grandi dei giovani e meno giovani oggi è la disoccupazione. Non solo: molti ritengono che la perdita di lavoro sia una delle cause principali di povertà ed esclusione sociale.

Voglio parlare della categoria che conosco meglio: i laureati. In generale non sono considerati poveri, nell’accezione più comune del termine. Eppure forse tra qualche anno lo saranno, o almeno saranno più poveri di chi non è laureato. E se non avranno un futuro andranno incontro anche a difficoltà sociologiche. Farsi accettare da chi pensa che tu non abbia fatto niente per almeno cinque anni e non poter nemmeno godere di un lavoro che attesti le tue qualità non è facile.

Ci sono almeno due generazioni di laureati che oggi hanno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. La prima è costituita dai neolaureati che usciti dalla bambagia in cui li aveva costretti l’università, si trovano ad affrontare la babilonia degli annunci di lavoro. Si accorgono che un lavoro inerente al loro titolo di studio si trova con difficoltà e che nella maggior parte dei casi è richiesta esperienza. Che loro non hanno. L’università non ti insegna a mettere in pratica tutta quella teoria imparata a memoria sui libri per dare gli esami. Quando esci dall’università non sai niente che possa applicarsi ad un eventuale lavoro. E così ripiegano su stage e corsi e tirocini sottopagati. Oppure rimangono all’università, nel caldo bozzolo di assegni di ricerca e dottorati (questi sconosciuti) che dopo qualche anno li ributteranno nella mischia di nuovo senza esperienza.

E poi c’è la generazione degli over 30 che devono affrontare il difficile dilemma dei nostri tempi: continuare a insistere sperando di trovare un lavoro inerente a ciò per cui hanno studiato e/o che hanno fatto fino ad oggi oppure tentare strade alternative usando l’arte tanto attuale del riciclo? Ma è difficile riciclarsi ad una certa età. E’ difficile accettare di fare uno stage o essere accettati per farlo. Ed è ancora più difficile mettere da parte sogni ed aspettative per fare un lavoro che non ti piace e non ti gratifica. Potresti anche accettare di fare lavori per cui certo non serve una laurea, ma sono altrettanto dignitosi e magari anche divertenti. Ma non ti chiamano. Perché sei sovraqualificato. E perché non vogliono che tu te ne vada appena trovi un’opportunità migliore! E’ questione di garanzie.

Così c’è Michela, 32 anni, laureata in Ingegneria informatica, un dottorato di ricerca, un anno in America, un anno di assegno all’università. Poi a casa per 6 mesi di vuoto. Ora fa la programmatrice con un contratto che sta per scadere. E no, non è come quella pubblicità, non ci assomiglia affatto. Poi c’è Marco, 35 anni, laureato in lettere moderne, ottimo giornalista, dopo vari lavoretti per giornali insignificanti, disoccupato per un anno. Ora gestisce l’ufficio stampa di un ente benefico, con un contratto che sta per scadere. Poi c’è Maria, 32 anni, laureata in ingegneria informatica, un dottorato con gli onori della commissione, un anno in Svizzera in un prestigioso istituto, 3 anni di assegno all’università. Il suo contratto termina tra poco e non ci sono prospettive.

Che futuro ci sarà per questi laureati senza esperienza, con poca esperienza, o con esperienza unidirezionale? Forse dovranno ridimensionare le loro aspettative, rivalutare professioni antiche o mettersi in proprio con grande coraggio. Di sicuro saranno più poveri di quello che erano i laureati di un tempo (ma parlo di tanto tempo fa, quando di laureati ce n’erano pochi). Forse andranno incontro a qualche discriminazione sociale. Probabilmente dovranno far fronte a periodi di disoccupazione e risparmio. Speriamo però che non manchi loro il coraggio di tirare avanti e di rimettersi in gioco. Perché la flessibilità è l’unica cosa che l’università ci ha insegnato.

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