di Laura Gatto
Cortei di protesta e scioperi della fame senza sosta hanno costituito lo scenario entro il quale i lavoratori precarizzati hanno cercato e stanno ancora cercando di fare riconoscere i propri diritti. Si tratta di lavoratori che credono in quello che fanno e non si arrendono passivamente a quel processo di danneggiamento qualitativo, oltre che quantitativo, che il mondo delle professioni sta subendo. Esistenze alla continua ricerca di un “senso professionale” che devono reinventarsi continuamente.
Il precariato non è solo una questione di numeri, una questione quantitativa di bilanci da far quadrare e di crisi da sanare. Ad ogni taglio corrisponde un taglio nella qualità di vita di ogni persona. Tagli in ogni settore e quindi tagli nella vita personale e sociale di ognuno di noi. Se prima il lavoro rappresentava e garantiva una certa stabilità in ogni sfera della vita di un individuo, oggi esso assume le destabilizzanti sembianze delle tesserine di un puzzle che ad ogni esperienza lavorativa vengono rimescolate e faticosamente rimesse insieme.
Prima, esercitare una professione era sinonimo di stabilità economica e di sicurezza dell’esistere, la base certa per fare progetti di vita a lungo termine. Oggi, invece, il lavoro è precarietà, instabilità, incertezza, mutevolezza perché i contratti sono limitati nel tempo, il corrispettivo economico difficilmente è proporzionato alle competenze professionali del lavoratore, le possibilità di carriera sono ormai una vana speranza essendo già una “fortuna” trovare un lavoro per un breve periodo di tempo.
Si delineano sempre più spaccati di precariato quotidiano che nella vita dei comuni cittadini non si riducono a liti politiche ma assumono l’entità di situazioni concrete di stenti, di delusioni e di paure. Vite professionali vissute in una instabilità che lede progetti di vita carichi di intimi desideri di realizzazione personale spesso accompagnati e ben nutriti da anni di formazione.
Nel tentare di rintracciare il motivo per cui l’instabilità lavorativa diviene anche instabilità esistenziale bisogna considerare l’uomo come temporalmente tridimensionale: è l’interazione tra passato, presente e futuro che conferisce consistenza al suo essere e al suo esserci. Questa visione non è un’ingenua lettura lineare dell’esistenza umana. Essa ammette la complessità che trova una direzione di senso e soluzione di continuità proprio nella possibilità di far tesoro del passato per vivere il presente e progettare il futuro in un continuo di rimandi proficui tra le dimensioni temporali. Quella che viene a delinearsi con la precarietà lavorativa è invece una complessità caotica.
È vero che l’uomo non è solo lavoro ma è pur vero che la nostra società ruota attorno a quest’ultimo e che esso impone un impegno individuale quantitativo e qualitativo notevole. Si comprende dunque come l’identità professionale sia una parte non indifferente dell’identità complessiva di una persona e come essa, se vissuta in modo frammentario e parcellizzato, finisca col riflettersi negativamente sulla percezione della personalità nel suo complesso.
I contratti atipici non sono solamente una questione di come fare allo scadere del contratto ma anche una questione di chi saremo ogni volta che arriva la fine di un periodo lavorativo. Oltre al contratto che scade, decade anche una parte di noi che è sì bagaglio esperienziale ma slegato da quello che abbiamo fatto finora e da quello che, se siamo fortunati, andremo a fare. In queste esperienze frammentate, indipendentemente dalla passione che mettiamo nel lavoro, siamo solo automi per raggiungere obiettivi prefissati. Se questi ultimi si raggiungono resta solo questa soddisfazione perché allo scadere del contratto più nessun legame intercorrerà tra lavoratore e datore di lavoro, rimanendo soltanto nessuna possibilità di crescere all’interno di quel ruolo momentaneamente rivestito e tanta agitazione per un futuro incerto.
La ricerca di una nuova sistemazione, inoltre, è accompagnata da una dispendiosa formazione per assecondare le esigenze professionali del momento e sbaragliare la concorrenza nella speranza di lavorare qualche altro mese o anno. Un circolo alienante in cui non è permesso il lusso di progettare la propria vita affettiva. Scelte di vita privata procrastinate e solo in alcuni casi compiute perché in questo tempo viva l’arte di arrangiarsi e di rimandare i propri sogni dato che l’unico lavoro a tempo indeterminato è quello di cercare lavoro nel tentativo frustrante di rimettere insieme le tesserine del puzzle della propria vita forzando gli incastri.