Effetti della TV
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“Non possiamo vivere da soli le nostre storie perché siamo personaggi in quelle di altri”

Daniel Taylor

Ci si narra, ci si dichiara, ci si ‘ama’, ed, al limite, ci si lascia, ma soltanto se c’è qualche ‘occhio’ virtuale, qualche ‘big brother’ (o sister) presente, se c’è qualcuno (o qualcosa) che si fa ‘terzo’, ‘testimone’ di ciò che potrebbe accadere, in quanto, altrimenti, sembrerebbe che, paradossalmente, nulla sia reale.

Ed è questo il ‘format’ che sembra originarsi continuamente nella Contemporaneità, e che si palesa nei mass-media, soprattutto in Tv e nel Virtuale (il cui contraltare, come afferma il filosofo francese Gilles Deleuze, non è la realtà, ma l’Attuale). E’ l’epoca dell’ostentazione dei sentimenti, del ri-flusso catodico del voler rappresentare a tutti i costi la propria intimità (che, s-velandosi, si s-vilisce, si riempie di non-significati, ma solo di immagini ad uso e consumo di chi ne dovrebbe usufruire, per offrire massicce identificazioni con chi, nello stesso tempo, al di là del principio massmediologico, si sente ‘chiamato’ da tale visione, e tenderebbe a farla sua e a riproporla nella vita quotidiana). E’, dunque, il caso di tutte quelle trasmissioni, di intere reti tv a volte, che dedicano molto della loro programmazione a raccontare sentimenti, di qualsiasi ‘segno’ ad un pubblico che, in-educato ormai al minimalismo intimo, preferisce sapere, conoscere, spulciare, le narrazioni altrui, restando però spettatore passivo di una tale messe di ‘sentimentalità’ artificiale, che non reggerebbe al di fuori del contesto mediatico (cosa che, spesso, accade, quando viene a cadere il significante dello spettacolo nel momento in cui ci si appresta ad affrontare l’attualità della vita concreta); un ‘usa e getta’ del senso dell’intimità relazionale, a scapito della possibile profondità della ‘scintilla’ che accenderebbe la possibilità che su soggetti umani, nell’accadimento dell’incontro, possano scoprire anche che non debba restare un’esperienza isolata.

Non è quindi più un caso che, nella televisione attuale, sia generalista che tematica, le trasmissioni che sogliono occuparsi di ‘cuore’, di sentimenti, di relazioni, siano sempre più in aumento (talvolta, occupando buona parte dei palinsesti negli orari che maggiormente rappresentano il bacino d’utenza più ampio), e contribuiscano a fare sempre più ‘tendenza’, tanto da entrare sempre di più nei riferimenti anche psichici dei soggetti che ne fruiscono quotidianamente.

Ora, per tentare di dipanare sufficientemente bene l’argomento, ci serviremo di alcune ‘suggestioni’ (Platone ed il ‘mito della caverna’) e ipotesi argomentative (l’idea di ‘jouissance’, godimento, proposta nei suoi testi da J. Lacan, psicoanalista francese, morto nel 1981), atte a cercare di di-spiegare ciò che tale situazione contemporanea porta in dote sia alla vita pubblica che a quella privata, sempre più avara di leggi e regole condivise su come gli individui possano relazionarsi, senza cadere nella drammatica banalizzazione del loro vissuto sentimentale, ed in una contro-retorica, che vorrebbe elevare a dimensione assoluta e pubblica ciò che, notoriamente, pertiene alla sfera più privata e personale, dando l’impressione che, senza telecamera (o macchina fotografica o display di un pc), non possa più esserci sentimento, ma solo tempo che passa inutilmente, in quanto la narrazione diadica non basterebbe a rendere conto di ciò che starebbe accadendo tra due singole persone.

Platone, la caverna, il tubo catodico (LED)

100 anni fa e più ci si riuniva, nella case rurali (ed in quelle che ne disponevano in città), intorno ad un camino, nelle fredde serate d’inverno (così come intorno al desco famigliare, altro vero e proprio ‘bersaglio’ quotidiano dell’insufficienza della famiglia a ‘costruire’ bene se stessa), per raccontarsi, per narrarsi, rispetto agli accadimenti della giornata, ed anche rispetto ai sentimenti che ne derivavano nello svolgersi dei percorrimenti relazionali che si andavano ad originare. Ma dall’avvento del televisore (forse, il più grande strumento mass-mediatico esistente ancora oggi), ciò si è radicalmente mutato, e la dimensione di ciò che sembrava solo un oggetto di cui poter usufruire per conoscere ciò che accadeva nel Mondo, si è passati ad una vera e propria ‘presenza’ stabile (in quasi tutte le stanze di un appartamento), che sembrerebbe anche scandire, con la programmazione degli eventi presentati, il tempo di vita in una famiglia: cartoni animati e/o infonews (mattina/colazione), Tg nazionali/regionali (pranzo), programmi di intrattenimento vari (pomeriggio/merenda), Tg e programmi di informazione/fictions/spettacoli (sera/cena), film e trasmissioni satiriche e/o di approfondimento (notte/fase pre-sonno).

Ora, ci è sembrato stimolante prendere a prestito una caposaldo della teoria platonica, il cosiddetto ‘mito della caverna, per rappresentare l’ambiente che ci compone davanti alla tv nelle case di coloro che la guardano, in quanto sempre più ‘oscure’ (nel senso che la dimensione narrativa ‘laterale’, ossia, tra i componenti presenti tende a diminuire, mentre si fa più pressante quella ‘verticale’, ossia, proveniente dalla trasmissione seguita, che va a colpire, in maniera abbastanza omogenea, i sensi di coloro che sono lì pronti a farsi ‘permeare’ dall’accadimento mediatico).

Il mito raccontato da Platone è contenuto nel Libro VII della “Repubblica”, proprio all’inizio dell’opera (scritta tra il 390 ed il 360 a.C.), e sembrerebbe fornirci delle ‘coordinate’ anche per la situazione della quale stiamo trattando (anche a distanza di 2500 anni). Eccone un primo stralcio: “considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardar solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda dietro di loro, in alto e lontano e che tra il fuoco e i prigionieri corra in alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui quali esibiscono i loro spettacoli.” Quegli ‘schermi’ citati sembrerebbero antichi e lontani parenti di quelli ‘reali’ composti prima da transistors e valvole, poi, da circuiti elettronici sempre più sofisticati, che ‘adornano’ sempre più spesso le stanze della maggior parte delle case presenti sul territorio nazionale, dove molti ‘giocolieri’ costruiscono ‘figure’ che serviranno come riferimento ed identificazione per i soggetti che ne fruiranno ampiamente (un altro riferimento, che qui non tratteremo per approfondirlo, potrebbe essere quello relativo al concetto di ‘simulacri’, espresso da Tito Lucrezio Caro nel Libro IV del suo “De Rerum Natura” (Sulla natura delle cose), composto nel I secolo a.C.)

Platone (sempre tramite l’oralità che fa di-stendere tramite la narrazione socratica), sembrerebbe riferirsi a qualcosa che si paleserebbe come ‘funzione di spettacolo’, ma che sembrerebbe indirizzarsi anche alla cognitività (nonché all’affettività individuale) dei soggetti umani, seppur non nella sua costruzione più strutturata. E come non pensare a quel significante allusivo, ‘giocolieri’, esposto da Socrate, che, riferito a coloro che abitano la ‘caverna’ (la non-conoscenza), potrebbe calzare altrettanto bene per rappresentare coloro che si adeguano ai modelli che osservano nelle trasmissioni televisive, ricevendo così passivamente, linguaggi, narrazioni, lessici, pensieri, che, nel loro utilizzo quotidiano, parrebbero una neo-lingua molto scarna, depauperata, ma, paradossalmente, molto più ‘significativa’ della lingua in uso nella trasmissione e ricezione di informazioni reali tra individui.

Tutto nell’ottica del ‘rabbuiamento’ delle menti che ne fruiscono, e che, similmente a coloro che vengono portati fuori dalla caverna alla luce del sole, restano ‘accecati’ nel momento in cui si possano rendere conto che ciò che ‘vedevano’ da lì non era corrispondente alla realtà (l’Attuale deleuziano) che si aspettavano, invece, essere omogeneo alle immagini delle quali avevano fruito fino a quel momento. E, soprattutto, della facile ironia che potrebbero palesare coloro che, vedendo uno ‘spettacolo’ differente da quello al quale avevano assistito, potrebbero anche opporsi a quella ‘visione-del-mondo’, per ribadire l’assoluta certezza di quella immaginaria ma ‘concreta’, osservata attraverso il display di quell’apparecchio televisivo (display che è consustanziale a quello che pertiene, in quanto monitor, ad un qualsiasi personal computer, altra ‘caverna’ nella quale, una volta entrati, e messi in collegamento tramite le ‘reti’ del Web, sarebbe difficile abbandonare, tanto da sviluppare un vero e proprio discorso di ‘dipendenza’ rispetto alla propria ‘posizione’ di individuo non virtuale, quasi a decretare il ‘successo’ dei se stessi come ‘avatar’ e non come soggetto umano vivente, ‘tridimensionale’, e fatto di carne, ossa ed encefalo).

Quindi, ‘caverna’ come ambiente umano de-strutturato di fronte alla tv (il rapporto uno-a-uno spettatore-tv, che si consuma in uno stato ‘monadico’, al riparo da altre reali interazioni possibili, e che tenderebbe a garantire una comunicazione sì asimmetrica, ma proprio per questo più tranquilla, meno impegnativa, soddisfacente senza l’impegno del desiderare), che ‘ripara’ da una (possibile) verità, preferendo l’artifizio costruito per ingannare e rendere ‘ipovedenti’ coloro che ne fruiscono, rispetto alla comprensione e alla conoscenza di storie altre, di soggetti reali, ed anche di sentimenti (e delusioni), vissuti in prima persona, e non tramite una ‘proiezione’ immaginaria, resa ‘corporea’ dall’evoluzione di un tubo catodico in ‘scatola’.

Ostentazione dei sentimenti e tv ‘reality’.

Oggi, nella Contemporaneità, l’idea che i propri sentimenti possano essere vissuti soltanto nella propria sfera privata, sembra, utilizzando un termine molto in voga attualmente, diventato ‘vintage’, ossia, una maniera più ‘politically correct’, per dire che ciò che è ormai diventato antico può avere sempre un suo perché, manifestandosi come un oggetto, un’idea, una moda ancora possibile da riciclare, ed inserita all’interno delle correnti attuali di pensiero, come un vissuto anacronistico e de-potenziato nella sua carica originale iniziale ma, sostanzialmente, ancora funzionante come ‘reliquia’ di un brandello di tempo che fu, che servirebbe a ricordare il ‘come eravamo’, ma in maniera simpatica, semplice, immediata, ma poco ‘cool’, legata ad idee non più rinvenibili nella trama sociale del mondo nel quale si vive. Quindi, anche il ‘catalogo’ dei sentimenti (amore, rabbia, odio, perdono, rancore, etc.), sembra essersi quasi completamente modificato, tanto che ciò che prima si viveva come un ‘movimento’ interno, intimistico, comunicabile solo a pochi soggetti scelti, oggi sembra essere quasi del tutto inutile se non trasferito in una dimensione più ampia, seppur virtuale o ‘fiction’, così da poter essere mostrata ad una grande platea, che tenderebbe ad identificarsi massicciamente con ciò che è la storia narrata (il ‘caso’ di cronaca attuale, la relazione amorosa che potrebbe nascere nel contesto di uno studio televisivo, l’atto eroico rivolto ad un drappello di persone) da presentare in tv (‘arricchito’, in maniera solerte, di tutti quei particolari intimi, anche inquietanti e non sempre così chiari, che servono a rendere le storie intriganti, ‘transferali’, sintomatiche, fruibili al meglio dal pubblico più vasto possibile).

Questo perché, utilizzando una metafora tratta dal pensiero di S. Freud, l’Io ideale (questa ‘formazione’ immaginaria positiva che servirebbe come potente identificazione per il soggetto che ne fruisce), arriverebbe a ‘compiacere’ il proprio Io a realizzare un ideale che garantisca una ipotetica ‘completezza’ e rappresentazione della propria persona, nelle ‘figure’ che quest’ultimo andrebbe ad incrociare nella propria vita quotidiana.

E, alla fine di un possibile sviluppo delle comunicazioni di massa, delle quali la Televisione sembrerebbe la rappresentante più eterogenea e disponibile a proporre nuovi modelli di riferimento per l’ethos degli spettatori, questa si sarebbe venuta quasi del tutto a sovrapporre verso il ‘format’ cosiddetto dei ‘Reality’ (che, paradossalmente, sembrerebbero non avere più nulla avente a che fare con una vera realtà, ma, piuttosto, con una sorta di Reale ‘suggerito’, che arrivi là dove i normali sentimenti non potrebbero interessare, se non amplificati ad hoc per la fruizione degli stessi da parte di un largo numero di individui). Tale ‘evoluzione’ della Tv da mezzo di presentazione della realtà a realtà più reale della stessa, più pragmatica, proposta di ‘modelli più (apparentemente) vere e desiderabili, si viene ad originale mediante la ‘complicità’ di alcuni dei sottogeneri che hanno preso luogo nell’ambiente della comunicazione visuale televisiva: l’Emotainment (programmi che mettono in scena le emozioni e i sentimenti più intimi della gente comune), il Celebrity Show (in cui personaggi famosi vengono coinvolti in competizioni, quiz, o situazioni di vita quotidiana, e accettano di mettere in scena la loro privata, scoprendo i loro aspetti più comuni), il Reality show (dove persone mai appare prima in tv si mettono alla prova con qualità artistiche, presunte o reali, gareggiando tra loro, per arrivare ad ottenere una successo finale, che dovrebbe poi aprire loro la strada verso un successo garantito e a più ampio raggio mediatico).

Questo fa sì che la televisione sarebbe arrivata a sostenere un’idea di ‘big all genre’ (grande genere del Tutto), nel quale il ‘melting-pot’ sarebbe formato da vari sotto-generi comunicativi, nei quali la micro-realtà del vissuto quotidiano si andrebbe a trasferire, drammaticamente ma inesorabilmente, in uno studio televisivo, con le telecamere che fungerebbero da ‘testimone’ dell’atto ‘reale’ che sarebbe trasmettendo valori e pensieri condivisibili (con tutto il portato di drammatizzazione e di identificazione che lo spettatore sarà portato a ‘sentire’, e sul quale prenderà posizione, esprimendosi magari anche in ‘diretta’ con un apposito televoto o intervento telefonico, atto a trasferire la dimensione della ‘caverna’ creatasi nella ‘domus’ alla sfera dello spettacolo che in quel momento si sta rappresentando). Infatti, nell’alveo televisivo si mettono a nudo i propri problemi personali, familiari, e sentimentali, si vorrebbero risolvere questioni relative a controversie giuridiche (con attori che si fingono reali protagonisti delle cause presentate, affermando il principio che non è vero ciò che è reale, ma ciò che sembra più che verosimile), ci si crogiola in (presunti) ideali di bellezza di entrambi i generi (maschile e femminile), si suggeriscono decine di modalità per cercare di stare bene ogni giorno (fitness, alimentazione salubre, vestiario adeguato, etc.), ma, soprattutto, vera novità nel panorama dell’intrattenimento televisivo, ci si innamora, ci si sposa e ci si separa, ci si ritrova e ci si rappacifica, e poi si scrive qualche testo su come tutto ciò sia potuto accadere (nella ‘agorà’ televisiva, molto più che nell’orizzonte epocale quotidiano). Tutto sembra ‘trasparente’, visibile, ma, probabilmente, nulla è davvero ciò che sembra, così da rinforzare il concetto argutamente presentato dal filosofo francese Gilles Lipovetsky di ‘era del vuoto’, l’assenza (valoriale) assurta a modello da imitare.

Quindi, la vita vissuta che si consacra alle immagini, a ciò che senza rappresentazione mediatica sembrerebbe non poter avere una propria vita autonoma. Tutto questo da leggere anche all’insegna del concetto di ‘jouissance’ (godimento, non inteso nel senso classico di piacere all’acme, bensì di un mix si sofferenza e pseudo-piacere che si avvale della ‘ripetizione’ di un certo clichè esperienziale, che tenderebbe a mettere un soggetto umano in una condizione di apparente soddisfazione che, però, non lascia tracce di reale benessere, ma solo di una spiacevole sensazione di incompletezza, di ‘vuoto’, di coazione a ripetere gli stessi errori, attribuendo spesso ad altri la colpa dei propri fallimenti) del quale si è accennato all’inizio, ossia di quel fenomeno psichico che Lacan presenta nella sua intera opera, e che parrebbe ‘lavorare’ sotterraneamente nell’inconscio umano.

In questa ostentazione mediatica dei ‘fattori’ speranza e sentimento (amore, affetto, delusione, etc.), c’è un’inconscia ricerca di approvazione, di commiserazione, di condivisione del proprio ripetersi (erroneamente) come individui, ma unita anche ad una dimensione dell’effimero, della ‘felice precarietà emotiva’, che non desidera essere ri-solta (nel senso di ‘soluta’, completata, definita), ma, anzi, trova il suo estremo punto di interesse nell’instabilità qualitativa e quantitativa del proprio ‘milieu’ quotidiano, che non vuole assoggettarsi a responsabilità, ad impegno, al vero e proprio ‘percorrimento’ del proprio desiderio (che vive nella ‘mancanza’, ma strutturale, e dunque, propositiva), ma soltanto a rapide ‘incursioni’ negli aspetti più leggeri di una vita intima e sentimentale che non può che rappresentarsi nella parola (che da’ godimento, nella sua reiterazione continua seppur non densa di significazioni importanti) comunicata a tutti (si veda l’esempio dei Social-network, dove tutta la propria quotidianità si può ‘consegnare’, in parole, apparentemente libere, alla fruizione di chiunque, che si conosca prima o meno, ma, realmente, cariche di solitudini inesprimibili, di delusioni cogenti, di rancori apparentemente ineludibili, di ‘rivendicazioni’ che rivelano la forte connotazione isterica con la quale si approccia spesso l’Altro nei ‘frammenti di un discorso amoroso’- R. Barthes, 1977 – e che lascia scorgere quanto di ‘incompleto’, di irrisolto, ci sia in molti soggetti umani, di entrambi i generi), nella carica di illusorietà, di avallo di un modello di relazione ‘cool’ (ossia, se ne entra e se ne esce nel breve volgere di un ‘format’ televisivo, che nel suo durare alcune puntate, rappresenta il massimo della dimensione spazio/temporale che si rapporta, al meglio, per vivere).

Questa apparirebbe oggi, in breve, la dimensione etica e morale del vissuto emozionale di molte persone, che nella irrealtà condivisa di una trasmissione televisiva, di un ‘format’ pre-confezionato su contenuti molto ‘easy’, immaginano di poter(si) risolvere in qualche storia/narrazione/racconto, al di là del loro reale quotidiano, lasciando che quell’Ideale (dell’Io) agisca, incessantemente, sul loro strutturarsi come soggetti (in)completi e, sottilmente ma inesorabilmente, legati ad una società dell’apparenza, che non vuole, forse, pensare, ma, soprattutto, ‘rappresentarsi’ immaginariamente, ovunque e comunque.

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