Per capire l’anima di un popolo, i suoi essenziali tratti psicosomatici, basterebbe osservare con occhio ‘sensibile’ i suoi luoghi. Quelli in cui ha dimora, che ha riplasmato conformemente alle proprie esigenze, ambizioni, fantasie e capacità creative.
La fisionomia di una regione, infatti, tradisce i segni della vita di chi l’ha percorsa; ci racconta di fatiche umane, spargimenti di sangue, sudore e speranze.
La nostra penisola è un libro: se la si legge, attraversandola anche solo idealmente, da nord a sud lascia intravedere una plurimillenaria storia che l’ha resa una Nazione affascinante e ‘colta’.
Le mura che circoscrivono deliziosi borghi toscani, ad esempio, narrano di un periodo storico, quello dell’età comunale, in cui la nuova comunità di mercanti, appena costituitasi, gestiva autonomamente il proprio assetto economico e sociale; dicono del bisogno di circoscrivere i propri confini e difenderli da ingerenze esterne. Sono la prova, quindi, della paura di mettere a rischio la propria incolumità in un frangente storico in cui si stava uscendo dal buio Medioevo e, nell’intermezzo dell’età comunale’, ci si avvicinava ad un nuovo modo di gestire il potere con l’avvento della Signoria.
Ancora, clima e conformazione geografica di una regione influiscono, indelebilmente, sugli uomini che la abitano. Il fascino misterioso ed incontaminato di un’isola come la Sardegna è la prova che il suo stesso popolo ha lottato per conservare la propria autonomia; non è un caso, infatti, che il suo entroterra sia denominato ‘Barbagia’, dal greco β?ρβαρος, appunto, “straniero, forestiero, balbuziente, che parla una lingua inintellegibile” e in origine designava chi non parlava il greco e quindi non ne condivideva la cultura.
Allo stesso modo, i sardi erano ‘stranieri’ rispetto ai romani che non riuscirono a colonizzare l’isola ed inglobarla all’interno del loro vasto impero. La capacità di custodire, intatti, luoghi e persone dalla contaminatio dei numerosi dominatori (fenici, cartaginesi, greci, romani, arabi, spagnoli..) che nei secoli si susseguirono è comprovata anche dalla conservatività della lingua sarda la quale, più di tutte le lingue neolatine, ha mantenuto una stretta contiguità con l’impianto sintattico-grammaticale del latino, limitando la sua esposizione ai vari influssi linguistici – inevitabili – derivanti dal contatto con altri popoli.
E i punti ‘strategici’ in cui sono situati i suoi quasi settemila nuraghi, baluardi di difesa, lasciano il ricordo di questa storia di genti che, con forte spirito d’indipendenza, rivendicarono da sempre la propria autonomia e identità.
L’ecletticità che invece connota la Sicilia, che è molto meno ‘isola’ della Sardegna (anche per la sua vicinanza allo Stivale) è il risultato delle molteplici dominazioni che l’hanno resa una terra multiforme, crocevia di tante genti e frutto della commistione di cultura normanna, araba, greca, spagnola (…) esotica, insomma. L’essenza stessa dei siciliani, estroversi e predisposti alla conoscenza, all’esperimento del ‘mischiarsi’ con culture diverse dalla propria, è certamente figlia di questa antica tendenza all’incontro con il nuovo. E i risultati, talvolta, possono essere stupefacenti.
Scriveva Goethe (1749-1832), poeta e drammaturgo tedesco, durante i suoi viaggi in Italia: “chi vive deve sempre essere pronto ai mutamenti” e colse nel segno quello che avviene quando l’uomo incontra un luogo, una radicale metamorfosi in continuo divenire. E in questa simbiosi la natura ‘mitica’ e incontaminata arretra di fronte alla terra coltivata. L’uomo separa, pone limiti e confini e organizza lo spazio, che è divenuto ‘suo’, secondo fini utilitaristici che vogliono sfruttarne le risorse; e prendendo coscienza di questa sua invasività nel territorio ha pure l’esigenza di definirlo e attribuirgli un ‘identità, dandogli un nome, appunto, e facendone anche una realtà storico-sociale oltre che fisico-geografica.
Proprio dal momento in cui l’interazione uomo-ambiente ha inizio, quello che è sempre stato un ‘elemento’ della natura, un semplice luogo, diviene un territorio.
Oggetto di studio di una disciplina come la Geografia Umana, nata alla fine del XIX, che si caratterizzò come la sintesi tra scienze naturali ed umane, i rapporti tra l’uomo e il territorio furono concepiti come una formazione di elementi umani e storici inscindibilmente legati. Studiare un territorio e le sue caratteristiche fisiche non poteva prescindere, perciò, dal contatto con altre discipline quali la psicologia, l’economia, la storia, la filosofia, l’urbanistica, l’archeologia etc .. poiché la conoscenza di un territorio può dirsi esaustiva ed integrale solo se sa carpire il modo in cui l’uomo lo interpreta, lo usa, lo vive. Quindi, dopo una prima descrizione obbiettiva e oggettiva delle caratteristiche fisiche di una regione, ci si deve addentrare nella sfera della soggettività che compete le Scienze Sociali e induce a parlare, più correttamente, di Geografia ‘Antropica’.
Solo quando si supera l’approccio utilitaristico nei confronti di un luogo e si smette di considerare cosa può offrire, e si va maturando quel giusto e necessario distacco oggettivo da esso, ci si può creare quel gusto estetico che permette di contemplare le sue bellezze, senza alcun altro scopo. Si può allora parlare di Paesaggio.
L’esperienza – e quindi coscienza – del paesaggio non è mai priva di influssi culturali, poiché in relazione alla sensibilità, conoscenze e stati d’animo di chi osserva, le percezioni che di esso si hanno possono assumere connotati sempre diversi.
Il godimento delle bellezze della natura che a sua volta influenzerà a più livelli tutti i vari campi dell’arte, vien fatto risalire al periodo settecentesco e la letteratura ci attesta i primi tentativi di ‘definizione’ del paesaggio come un “tableau in cui la cornice realizzata dalla cultura investe qualcosa di più della mera forma.. “; perché sì, alla percezione sensibile ed estetica della natura presiedono dei preconcetti culturali (idee), rappresentazioni mentali, che il soggetto osservante possiede in relazione alle proprie esperienze di vita e che lo portano ad attribuire a questo o quel luogo delle valenze simboliche, dei significati particolari che rendono un territorio veicolo di significati ‘altri’, fortemente collegati alla soggettività di chi lo guarda.
Di qui la varietas di punti di vista che, per intrinseche sfaccettature emozionali, fan sì che esistano tante “cornici” di un territorio quanti sono i soggetti sociali che lo scrutano e di esso ritagliano, per rappresentarlo, gli elementi più congeniali alla loro sensibilità.
Una vera teoria del paesaggio si affermerà solo nel XX secolo, in Germania, quando J. Ritter asserirà che la Natura diventa paesaggio solo per colui che, senza alcun fine, sappia uscirne e, considerandola come un “tutto”, ne sappia trarre godimento, contemplandola.
Siamo a lungo rimasti sprovvisti di un etimo che designasse l’idea di paesaggio così come noi oggi lo intendiamo, infatti il greco tοποσ (luogo, posto) e χωρα (spazio, regione) e il latino prospectus (vista, panorama) non rimandano alla accezione ‘moderna’ del termine la quale, solo durante il Rinascimento italiano, nelle forme dell’arte pittorica e dell’ architettura farà la sua prima comparsa. L’arte dei giardini e la pittura paesaggistica cinquecentesche, in virtù dell’acquisizione delle teoria della ‘prospettiva centrale’, concepiranno lo spazio nella sua profondità, rompendo con la tradizione della spazio ‘bidimensionale’ medioevale, che traeva le sue origini da quello ‘piatto’ e geometrico dell’antichità classica.
E’ nel campo delle arti che, elementi artistici, letterari, linguistici e architettonici, in un interscambio reciproco, forniranno varie interpretazioni della natura, inventandola come paesaggio; tutte funzionali ad esternare e dare forma concreta allo stato d’animo di un personaggio, a motivare e contestualizzare certi soggetti e/o situazioni ( amore, guerra, avventura ..), una sorta di ‘locations di sentimenti’ in cui si dipana una corrispondenza reciproca tra luogo e autore.
E’ questo il paesaggio letterario, quello in cui un artista proietta le proprie idee e sensazioni trattandolo alla stregua di veicolo di immagini allegoriche e metaforiche, attraverso parallelismi in cui i tratti di un luogo contemplato si trovano in perfetta correlazione con i suoi stati d’animo.
La proiezione dei “luoghi dell’anima” di poeti – e artisti in generale – in geografie ora verdeggianti e rigogliose ora desertiche e desolate, ha prodotto illustri esempi di paesaggi letterari capaci di rappresentare viaggi introspettivi del soggetto narrante e offrire importanti spunti di riflessione. Fu proprio l’esempio di Teocrito (310-260 a. C.), con la sua poesia ellenistica degli Idilli, a ispirare Virgilio che, con le Bucoliche (42 a. C.), diede un esempio di poesia pastorale i cui protagonisti, Titiro e Melibeo, immersi nell’otium letterarium di una isolata e tranquilla campagna, si dedicano alla Poesia; un ideale arcadico di posto beato e isolato tra le montagne in cui i due pastori rifuggono la triste e problematica realtà del loro tempo: confische dei terreni nelle campagne del mantovano e disordini seguiti all’assassinio di Giulio Cesare che inducono l’autore, con la scelta di questo genere poetico, ad evocare – quasi profeticamente – il lungo periodo di benessere e pace che di lì a poco sarebbe seguito con l’avvento al potere di Augusto e l’inizio dell’età imperiale.
Altro esempio in cui la collocazione geografica contribuisce ad enfatizzare uno status interiore di meditazione ci è offerto dal Sonetto XXXV del Canzoniere del Petrarca, “Solo e pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti;/ e gli occhi porto, per fuggire, intenti/ ove vestigio uman l’arena stampi”. Il poeta va, con incedere lento e meditabondo, alla ricerca di sé passando per luoghi solitari, deserti e aspri, come la sua interiorità.
Egli cerca nel libro della natura significati ed equivalenze che rinviino alla sua dimensione spirituale e costituisce, con la sua arte poetica, il fondamento stesso del paesaggio letterario. Dopo Petrarca ci sarà una rottura, infatti la lirica che seguirà offrirà immagini lontane dalla realtà e, fatte rare eccezioni, solo nel periodo o a cavallo tra XVIII e XIX tornerà ad essere concreta nelle sue rappresentazioni. Il Romanticismo, appunto, è foriero di produzioni letterarie che vedono salire in cattedra il paesaggio stesso, ovvero lo sguardo sulla natura accompagnato dal piacere, e la nascita di un filone, quello della Letteratura di viaggio, che vedrà susseguirsi importanti nomi quali Schiller, Hölderin, Byron, Goethe, per citarne alcuni.
E quando il linguaggio si esaurisce, perché ha già detto tutto di una società popolata da uomini disillusi e senza meta, allora passa il testimone alla plasticità di una natura scarna e povera che, nel “Teatro dell’assurdo” (1950-1960) di cui il principale testimone fu S. Beckett, diviene scenografia molto eloquente. En attendant Godot è proprio questo: Estragone e Vladimiro, disperati ed infelici attendono, sotto un albero ‘senza fiori’ lungo il ciglio di una strada deserta, Godot. Con dialoghi privi di significato logico riempiono l’attesa snervante di quel qualcosa (o qualcuno?) di cui non sanno niente se non il nome. Anelano verso quest’arrivo la cui identità si presta a molte interpretazioni (il destino, la morte, il denaro .. Dio) e che non vedrà mai il compimento. E’ il dramma esistenziale dell’uomo moderno perfettamente esemplificato dal grande albero solitario che domina la scena.
Quanto il ‘taglio’ soggettivo che lo sguardo di chi osserva opera sulla natura influisca nell’elaborazione del concetto di paesaggio, anche letterario, ha un’importanza non trascurabile. Un’opera d’arte vede la luce anche in virtù di tale processo. E, senza niente togliere alla immensa veduta paesaggistica offerta dal monte Tabor, certamente quell’ermo colle assunse la forma di alta poesia quale è L’Infinito perché a scorgerne i tratti vaghi e suggestivi, oltre la siepe, furono gli occhi sensibili e creativi di un genio come Giacomo Leopardi.
Fonti
LA DIMENSIONE SACRALE DEL PAESAGGIO, ambiente e architettura popolare in Sicilia. S. F. Flaccovio, Editore, 1984
“Briciole paesaggistiche” di Federico Guastella, in SENZATEMPO, pagine di memoria degli Iblei. La Rinascita Casa Editrice, 2010
PAESAGGIO E LETTERATURA, Michael Jakob. Leo S. Olschki, 2005.