Il villaggio ipogeico di Sant’Antioco
Questa potrebbe essere la storia del mare contro la terra, e invece no, è la storia di uomini contro uomini, meglio di alcuni che attaccano, trasportati dal mare e di altri che si difendono, nascosti sotto la terra. Questa è la storia di Sant’Antioco e del suo villaggio ipogeo.
Come in ogni storia ci sono i cattivi, che sbarcano, violentano e uccidono, che si prendono quello che vogliono e lo fanno con la forza, e ci sono i buoni, che poi tanto buoni non lo sono, perché stiamo parlando di gente povera, disposta, per sopravvivere a far di tutto, gente che i cittadini a bene chiamavano is gruttaius.
E come per ogni storia c’è un inizio e anche una fine, e l’inizio è lontano di duemila anni. E’ nel VI secolo a.C. che le nicchie ipogee, quelle che poi vennero chiamate is gruttas e che vennero abitate da is gruttaius furono costruite. Non le utilizzarono come case da subito, non per i vivi per lo meno. Chi le scavò ci posizionò per secoli i propri morti, che a lungo andare dovettero diventare un bel po’, dato che la necropoli arrivò ad estendersi per oltre sei ettari.
Gli archeologi, che delle volte giocano a fare i matematici, hanno ipotizzato che se ogni tomba occupava circa quaranta metri quadrati e se di tombe ce n’erano circa 1500, la popolazione dell’antica Sulky doveva aggirarsi intorno ai 10.000 abitanti; insomma una metropoli mediterranea dell’epoca. I nostri gruttaius però non arrivarono né con i fenici, né con i punici, arrivarono molto più tardi, da molto più vicino, e attraversando un lungo e solido ponte romano che guadava il mare; arrivarono nella seconda metà del XVIII secolo.
Sulky era rimasta disabitata per secoli, perché bella era bella e pure ricca, e fin da subito aveva fatto gola a quelli che vivevano oltre mare. Sfiorala oggi, sfiorala domani, alla lunga si erano decisi a saccheggiarla fino a che sull’isola non rimase proprio nessuno.
Agli inizi del seicento doveva apparire come un piccolo Eden infestato di palma nana e topi, dalle coste inviolate e dalle campagne impigrite. Il Vescovo, che proprio non ce la faceva a vedere quel ben di Dio buttato in balia dei venti, lo capì subito: c’era bisogno di qualche folle che avesse più fame che paura, c’era bisogno di qualcuno disposto a ripopolare l’isola.
Ma perché la sua idea prendesse forma, dovette attendere lo zampino di un santo, del Santo. Nel 1615 le ossa di Antioco, martire nero, patrono di tutta la Sardegna, vennero ritrovate sotto quella che diventò la chiesetta del paese.
Non che ci fossero dubbi che il Santo riposasse sull’isola. Ogni anno, anche nei lunghi secoli di abbandono, Sulky veniva ripopolata in occasione della festa di Sant’Antioco da una folla di fedeli che ne curavano la sepoltura e ne onoravano le spoglie.
Ma una cosa è raccontare che un santo sia sepolto nell’isola, altra cosa è averne in mano le ossa, e il Vescovo decise di trovarle per davvero quel pò di ossa sacre che riposavano nelle catacombe.
La voce del ritrovamento circolò per tutta la Sardegna e per ingolosire i più poveri, si promise di regalare loro terre e possedimenti a patto che quell’isola la ripopolassero per davvero, sfidando la sorte, sfidando il mare. L’operazione di marketing andò ben oltre quel che ci si attendeva, di gente ne arrivò più di quanta si immaginasse, e le terre non bastarono per tutti.
Ma il viaggio era stato fatto e anche chi una proprietà tutta per se non l’aveva trovata, decise di rimanere. D’altronde, poco distanti dal centro città c’erano quelle strane grotte scavate nel tufo, grandi come case e meglio nascoste delle case vere e proprie.
La sistemazione in quelle tombe-case doveva essere temporanea, ma visto che quando quelli cattivi, quelli che arrivavano dal mare, non riuscivano a trovare gli abitanti delle grotte, i buoni, e dato che quelle case erano sì umide, ma anche gratuite, is gruttaius decisero che vivere sotto terra non era poi così male.
C’era differenza fra quelli che abitavano le grotte e quelli che abitavano le case, perché anche se entrambi erano i buoni, e anche se di abitanti sull’isola ce n’erano pochi, qualcuno doveva pur interpretare il ruolo di guardia e qualcun altro quello di ladro.
E dato che vivevano nelle grotte, quelli vennero chiamati is gruttaius e la loro zona sa arroga de is gruttas. Era gente povera quella, nera come i cattivi che venivano dal mare, che la gente delle case, pulita e ricca, non voleva nemmeno per zappare la terra.
Ma vivere si doveva pur vivere, e per farlo is gruttaius iniziarono a raccogliere funghi, cardi, carciofi selvatici, legna, ma soprattutto iniziarono a chiedere al mare che trasportava sì i nemici, ma in fondo li aiutava quando poteva. Tanto per farsi perdonare offrì loro bocconi, pesci, arselle e quella bella palma nana che cresceva nei suoi dintorni. E is gruttaius, che sapevano come arrangiarsi, iniziarono a barattare il pesce e ad intrecciare la palma nana, con le mani e con i piedi, barattando ciò che trovavano e producevano con quelli delle case, quelli che vivevano sotto la luce del sole, quelli puliti, ricchi e per bene, che nel loro quartiere nemmeno ci passavano e che quando arrivavano dal mare i cattivi, non sapevano dove nascondersi.
Strano come vadano a finire certe storie; i gruttaius abitarono le proprie grotte fino agli anni 70 del novecento quando vennero sfrattati ed in cambio ottennero una casa, di quelle vere, con il tetto e con le porte, e quelle grotte oggi sono cantine e ripostigli, perché dal mare non arrivano più i cattivi, ma solo profumi e ricordi di ieri.