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Un tempo maritato agli alberi di fico bianco del Cilento, al pioppo oppure all’olmo l’Aglianicone era molto diffuso in terra cilentana, soprattutto verso l’area dei Monti Alburni, fin tanto che per un lunghissimo periodo non se ne perse traccia. Questa cultivar di vitis vinifera è stata menzionata per la prima volta nel 1596 sul trattato di ampelografia di Andrea Bacci, intitolato “De Naturali Vinorum Historia”.

Tra gli studiosi che meglio descrissero le cause che hanno condotto quest’uva all’oblio e all’abbandono, è il caso di menzionare Michele Carlucci: infatti, nel suo libro del 1904, dal titolo “Ampélographie”, sostenne la tendenza dei grappoli alla marcescenza, ma al tempo stesso citò la vigoria della pianta e la grandezza del grappolo, ragion per la quale il nome attribuito risulta essere accrescitivo di Aglianico e motivo di un certo interessamento negli anni a venire.

Aglianicone, un vitigno tipicamente salernitano

Si dovette attendere il 1960 perché il giovane Giuseppe Capo scoprisse casualmente una delle ultime vigne di Aglianicone, allevata in simbiosi con le piante precedentemente citate, un po’ come accade oggi con l’alberata aversana per intenderci, e sopravvissute alla fillossera. Negli stessi anni purtroppo gli espianti, con la conseguente introduzione di uve come Barbera e Trebbiano, unitamente alle necessità di coltivare il grano, costituirono l’ultima stangata e il declino definitivo.

Non tutto era perduto però: una volta diventato enologo, Giuseppe Capo avviò negli anni ’80 una disperata ricerca degli esemplari superstiti, scoprendo un ceppo a Felitto, precisamente nella frazione di Giuprino, franco di piede e risalente all’epoca prefillosserica, sopravvissuto nonostante venisse tagliato e bruciato annualmente, perché integrato in una siepe prossimale a un muretto a secco di confine; fu così che il prof. Capo iniziò a preservare le marze e quindi a riprodurre le barbatelle, consentendo un reimpianto ufficiale di 100 giovani piantine nel 1999 nel comune di Castel San Lorenzo su un portainnesto di tipo SO4, di origine tedesca e scelto molto probabilmente sia per la sua capacità di adattamento al terreno che di rigenerazione dell’impianto radicale, oltre che di favorire la messa a frutto, anche grazie all’aiuto fornito dal Dipartimento della Facoltà di Agraria di Portici.

I biotipi dell’Aglianicone

Al di là del fatto che la sola varietà di Aglianicone è quella cilentana, in quanto accertato che quella lucana altro non fosse che Ciliegiolo, sono stati classificati i seguenti biotipi: l’Aglianicone di Castel San Lorenzo tipo A, l’Aglianicone Amaro o Aglianicone di Castel San Lorenzo tipo B, l’Aglianicone di Campora, detto anche Aglianicone del Corvo, l’Aglianicone di Monteforte Cilento e infine l’Aglianicone di Postiglione. Le proprietà chimiche, nutraceutiche ed organolettiche, unitamente alla resa per ettaro, variano moltissimo a seconda dell’areale in cui viene allevato, mentre sono mediamente accertate caratteristiche come la straordinaria resistenza alla siccità, all’oidio e allo sviluppo della Botrytis Cinerea, piuttosto che la maturazione più precoce, rispetto all’Aglianico, e mosti dall’elevato tenore zuccherino.

L’Aglianicone e il suo territorio…

Ad oggi l’Aglianicone viene coltivato ad Aquara, Bellosguardo, Campora, Castel San Lorenzo, Felitto, Laurino, Postiglione, Prignano, Rodio di Pisciotta, Sant’Angelo a Fasanella e Torre Orsaia, e costituisce una cultivar che, oltre a variare resa per ettaro, modifica il suo spettro aromatico a seconda dei terreni in cui viene allevato e del territorio che lo circonda, costituendo in sé un patrimonio di grande biodiversità vitivinicola: ne deriva un vino di grande austerità e opulenza al tempo stesso, con grandi aspettative di equilibrio per il minor apporto di tannicità, rispetto all’Aglianico, e una maggiore tendenza alla morbidezza.

A Postiglione una cantina che interpreta l’Aglianicone

Tra le cantine più valenti nell’interpretazione di questo vitigno non può mancare la menzione di Tenuta Macellaro, situata nel comune di Postiglione, borgo salernitano di circa 2000 anime, incastonato sui Monti Alburni e parte del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, vicino ai corsi dei fiumi Calore, Sele e Tanagro; in quest’area dalla vegetazione lussureggiante e pressoché inviolata dalla cementificazione selvaggia, ricadente attorno al 40º parallelo Nord, si è abbastanza lontani dal mare e il clima del mediterraneo ne risulta attenuato, tanto che a prevalere è quello tipico delle aree interne dell’Appennino Campano, caratterizzato da inverni non troppo rigidi ed estati fresche, con piovosità frequenti ma non consistenti.

Presumibilmente l’attuale nome di questa cittadina venne stato dato dalle famiglie di Paestum tra il IX e X secolo d.C., trovandovi riparo dagli attacchi dei Saraceni e dei pirati Turchi, per quanto i primi insediamenti siano di molto anteriori.

Proprio qui a Postiglione, soprannominato “il Balcone degli Alburni“ che Ciro Macellaro decide di valorizzare il lavoro del suo nonno paterno, di cui porta il nome e che negli anni ‘50 diede vita ad una piccola attività agricola-zootecnica a conduzione familiare, fondando Tenuta Macellaro nel 2011, dopo un grande lavoro di recupero sui sette ettari vitati lasciati in eredità con l’instancabile aiuto del padre Giovanni, ex militare dell’arma dei carabinieri, e di sua moglie Carolina, arrivando a realizzare il suo sogno nel 2013, imbottigliando le prime tremila bottiglie del suo blend di Fiano e Falanghina, chiamato Ripaudo.

Attualmente l’azienda si estende su un totale di 12 ettari complessivi, coltiva le vigne con i criteri dell’agricoltura biologica, ha ampliato la linea enologica portandosi a sei referenze, ed ha avviato un interessante progetto di agriturismo che si concretizzerà tra qualche anno, unitamente ad un’offerta di gastronomia tipicamente territoriale.

Poste ad un’altitudine media variabile che talvolta supera i 600 metri dal livello del mare, i vigneti di Aglianicone da cui nascono le uve impiegate per vinificare il Quercus vengono gestiti col sistema di allevamento a spalliera, su terreni argillosi di natura sia vulcanica che carsica, con presenza di limo, originati sia dai cloni di Postiglione che di Castel San Lorenzo, vendemmiati attorno alla prima decade di ottobre.

Il Quercus Colli di Salerno Igt 2020 di Tenuta Macellaro, ha consumato il suo processo di macerazione e fermentazione intorno ai dieci giorni, con passaggi che hanno visto batonnage per circa cinque mesi, fermentazione malolattica ed affinamento esclusivamente in acciaio, non oltre i dodici mesi, con ulteriore riposo in bottiglia per altri 18 mesi, uscendo sul mercato nel 2023. Il Quercus si palesa robusto, come il suo nome, già a partire dal suo colore rosso rubino profondo e non ancora scalfito dal tempo, con archi e lacrime che denotano somma consistenza.

Si avverte ancora l’estro giovanile grazie alla percezione vinosa ed il floreale della viola, a ricordare gli odori del mosto, subito sostituiti da note fruttate di mora di rovo e cassis, seguite dalla confettura di lampone e di amarena, con un accenno appena di ciliegia sotto spirito, cioccolato fondente, melassa di fichi e pepe nero. In bocca è massiccio ed elegante al tempo stesso, grazie ad un tannino presente ma non invadente, ben controbilanciato dalla freschezza, dal sapido e dal saporito. Il sorso, reso appunto agile da questo equilibrio, riconferma tutte le note fruttate e veicola una nota di tè nero di sottofondo. Chiusura finemente ammandorlata e lunghissima per un vino che è ancora ben lungi dalla piena maturazione e che si apprezza da subito con uno stufato di cinghiale quant’anche fosse estate.

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