Articolo di Milena Fadda
È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.
Criminali, balordi, banditi di ogni genere, anche loro ingredienti necessari a un equilibrio squisitamente sociale.
La faccia del crimine, come nell’ immaginario popolare, cambia al cambiare delle mode, dei costumi, nella sua rappresentazione.
Il detto “il crimine non paga”, ultima consolazione di quanti mirano ad arginare il fenomeno, decade nella società dell’ immagine.
Se fino agli anni Ottanta, le fattezze del “bruto” di turno rispecchiavano almeno in parte un’ aspettativa lombrosiana, e alla bassezza del personaggio spesso erano collegate anche qualità fisiche poco allettanti: il famigerato “brutto sporco e cattivo”; ultimamente l’ immaginario collettivo ha subìto uno scostamento di canoni estetici, andando a posizionare il criminale nella lista dei desiderata generali.
Bandito ormai è sinonimo di cool.
Partiamo dalle origini. Nell’ Ottocento c’ è il gaglioffo giovane e aitante, che come direbbe De Gregori vendica l’ “antica miseria, il torto subito”. Dopo le gesta di Byron, che tra una rissa e l’ altra riesce a trovare il tempo di aderire alla Carboneria, nella finzione è l’ Heathcliff di Emily Brontë, ad aprire le danze di quella che sarà l’ ascesa a sex symbol del furfante.
La letteratura, prima forma di intrattenimento, a volte imita la realtà, a volte ne viene imitata.
Il cinema e la moda, un secolo e mezzo più tardi, non possono mancare all’ appuntamento. Ed ecco la trasposizione di 007, agente segreto con licenza di uccidere. Canaglia poco galante, sbruffone ambiguamente schierato dalla parte del bene pubblico, tutto si fa perdonare in nome dell ‘avvenenza fisica. E se nel 1947, per la prima volta viene distribuita la fragranza Bandit, ad opera della casa cosmetica Piguet, divenuta ben presto must have per collezionisti, Antonio Marras, nel 2010 riporta in auge Paska Devaddis, orgolese banditessa vergine, a testimonianza che anche le donne, volendo, possono.
Siamo al cinema degli anni 2000, che da buon registratore di cassa, tiene conto di quelle che saranno le tendenze future. James Bond perde le sembianze rassicuranti dei primi interpreti, Roger Moore e Sean Connery, per il piglio arcigno di Daniel Craig, che appunto basandosi sul proprio aspetto, in origine si dice si fosse presentato per la parte del “cattivo”. Il bandito non è più gentiluomo. L’ Arsenio Lupin, dall’ aristocratica allure, esperto di furto con destrezza, che mai avrebbe torto un capello a chicchessìa, si arma di violenza inaudita.
Nascono e crescono come funghi i Vallanzasca, le Bande della Magliana nostrane, e i Joker d’ oltreoceano, persino Sherlock Holmes, da buon schermidore, forte di una fisicità reattiva, smette l’ impermeabile per assumere le sembianze del palestrato divo Robert Downey Jr, che nell’ ultima modaiola versione tira calci e pugni, esibendosi in combattimenti corpo a corpo degni di un maestro di arti marziali. Sguardo sfuggente, fisico prestante, poche parole e molte donne. L’ identikit del nuovo clichè da botteghino.
Ma se fino a una certa data il delinquente è l’ antagonista il cui destino inesorabile è soccombere alla giustizia, in questo momento assistiamo a un capovolgimento dei ruoli: variamente rintracciabile tra l’ uscita nelle sale delle ultime fatiche di Martin Scorsese e Kill Bill di Tarantino, in cui, come sempre, delinquenti lo sono tutti.
Ed ecco torme di fanciulle commuoversi per l’ uscita di scena di Vallanzasca, fiaccato dal lungo braccio della legge, adolescenti che reclamano un sequel del Cavaliere Oscuro, spettatori che all’ uscita dalla proiezione di Romanzo Criminale commentano “bello finché non muore Il Libanese”.
L’ escamotage del delinquente da romanzetto rosa sembra diffondersi a macchia d’ olio tra registi e sceneggiatori. Con risultati disastrosi sulla trama e sui connotati degli stessi personaggi.
La noiosa e stanca interpretazione del supereroe Batman, non verrà ricordata. Quella del Joker- Heath Ledger, rapinatore piromane affetto da sindrome monomaniacale, sì. Ma è l’ azione stessa a risentirne. In Romanzo Criminale, sia De Cataldo, sia la regia di Michele Placido, tendono all’ assoluzione tout-court di una gang efferata, le cui vicende sono ispirate ai più sanguinosi fatti di cronaca della Roma anni ’70 e ’80. Non solo finzione, quindi. Quando l’ idea e la struttura latitano, il regista in genere sopperisce con l’ effetto scenico, il frastuono, la rissa, il montaggio serrato.
Nel Cavaliere Oscuro, l’ atavica disputa tra bene e male, senza la quale un supereroe non avrebbe motivo di esistere, si trasforma in thriller caotico, in cui sono inseguimenti ed esplosioni, i veri protagonisti della scena. In Romanzo Criminale si parteggia apertamente per la “Banda”. Anche Woody Allen si è prestato in passato a un racconto oscuro, tragico come Match Point, ma almeno qui, il regista non ci risparmia il lato viscido dell’ assassino. In Scorsese il fuorilegge diventa ingiustificabile, incomprensibile. È il crimine fine a sé stesso, ad animare la trama. Come in The Departed, su cui si sono affannati per mesi psicologi e sociologi, alla ricerca di quel “dato in più”, quel quid che potesse almeno riassumere il perché della carneficina finale. Il male nella sua banalità, per citare Hannah Arendt sconcertata dalle atrocità naziste.
Insensibile ai timori di emulazione sollevati da molti critici e non (anche se la solita baby-gang italiana è stata da poco arrestata intenta a imitare i protagonisti di Gomorra, e dopo ben 11 rapine), la cultura cinematografica popolare rispecchia fedelmente alcuni di quei luoghi oscuri della natura umana, in cui l’ unica legge vigente è l’ istinto di conservazione, col suo lato brutale, con le sue vittime, e i suoi non-eroi.