REREPRE
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Nell’immaginario comune, l’editoria è un mondo dorato ambitissimo, dove fare cultura non può che essere la prerogativa per un lavoro meraviglioso, nobile, integerrimo, carico di responsabilità alte. In pochi, invece, sanno che nella realtà si tratta di un ambito in cui i diritti dei lavoratori sono violati quotidianamente, in nome di leggi del mercato durissime e di un prestigio ormai effimero, che “ricatta” e “schiavizza”.

Rerepre, la Rete dei Redattori Precari, una libera associazione nata a Milano, ma diffusasi in tutta Italia, si adopera per squarciare questo velo dorato, nel tentativo di migliorare le condizioni dei lavoratori editoriali. Abbiamo intervistato Beatrice E., parte attiva di Rerepre e redattrice precaria da molti anni in una grande casa editrice.

Quando e come è nata la Rete dei Redattori Precari?

Rerepre è nata nell’aprile del 2008, su iniziativa di due degli attuali iscritti del gruppo. In molti ci eravamo accorti che a rendere sempre più precario il mondo del lavoro editoriale era anche la mancata comunicazione fra colleghi nelle stesse condizioni di difficoltà e ricattabilità. Loro hanno avuto l’idea, molti altri si sono uniti subito. Il sito www.rerepre.org, la nostra principale cassa di risonanza, è stato messo online nel dicembre del 2008. Oggi siamo più di 140. Fra noi non ci sono solo redattori puri e semplici, ma anche traduttori, editor, grafici, impaginatori, responsabili diritti, addetti ufficio stampa, copy e altre figure “misconosciute” del settore editoriale.

Quali sono gli obiettivi della categoria, cosa si chiede alle istituzioni?

Ovviamente ci opponiamo alla precarizzazione selvaggia del settore editoriale, soprattutto quando sotto lo schermo di contratti cosiddetti “atipici” si mascherano situazioni di lavoro dipendente. Se ci vogliono flessibili, la flessibilità deve essere reale, anche nell’organizzazione del lavoro, non solo nella possibilità di essere lasciati a casa. Inoltre la flessibilità andrebbe pagata profumatamente, mentre ora i compensi stanno andando sempre più al ribasso. Per questo vorremmo introdurre anche delle tariffe di riferimento per le nostre professioni: è indegno che case editrici e studi editoriali ci paghino così poco… Pensa che da un sondaggio effettuato qualche mese fa tra i colleghi risulta che il 60% di noi guadagna meno di 1200 euro lordi al mese!
Che cosa chiediamo alle istituzioni? Innanzitutto una seria politica di contrasto alle irregolarità contrattuali e l’introduzione per via legislativa di meccanismi che rendano conveniente ricorrere a forme di lavoro a termine solo quando strettamente necessario. In una prospettiva più ampia, poi, crediamo che l’attuale sistema di ammortizzatori sociali sia inadeguato a fronteggiare la precarizzazione generalizzata e strutturale del mercato del lavoro italiano. Perciò siamo favorevoli all’introduzione di un reddito di cittadinanza che serva a garantire un’entrata mensile minima a tutti, a prescindere dalla condizione lavorativa e familiare individuale. Non sarebbe troppo costoso per le finanze pubbliche, è stato dimostrato: quello che ci vuole è solo la volontà politica di farlo.

Com’era la situazione lavorativa prima dell’introduzione di questi contratti e com’è, invece, oggi?

In editoria, per la specificità della filiera produttiva, le collaborazioni esterne sono sempre esistite, ma in passato di norma erano usate per far fronte ai picchi di lavoro. Si pagavano profumatamente, al punto che spesso l’azienda preferiva assumere a tempo indeterminato il collaboratore piuttosto che usufruire dei suoi servizi da esterno. Oggi, invece, i contratti precari sono diventati un espediente che le case editrici usano per non assumere più. Si mandano in prepensionamento i dipendenti per sostituirli con “collaboratori” interni, le mansioni meno qualificate vengono affidate spesso agli stagisti inviati dai tanti corsi e master professionalizzanti spuntati negli ultimi anni. Il passo successivo della precarizzazione è l’obbligo di apertura della partita Iva, che svincola totalmente il datore di lavoro da ogni responsabilità; molti accettano pur di lavorare, ma quasi tutti se ne pentono, perché gli svantaggi che questa forma contrattuale comporta sono troppi. Le assunzioni invece si contano sulle dita di una mano, spesso rispondono a logiche familistiche e clientelari e raramente riguardano i “semplici” collaboratori di lungo corso.

Quale sarà la situazione pensionistica di un lavoratore editoriale con un contratto atipico?

Sarà quella di tutti i lavoratori precari. I compensi bassissimi impediscono gioco forza di provvedere con pensioni integrative. Chi propone questa soluzione non sa di cosa parla. Inoltre, è di questi giorni una polemica sull’INPS: l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, infatti, ha annunciato che invierà una lettera a tutti i lavoratori, ma nel caso di quelli parasubordinati non darà la possibilità di capire allo stato attuale dei loro contributi quale sarà ipoteticamente la loro futura pensione. Temono un “sommovimento sociale”. Questa è una situazione che non potrà rimanere invariata a lungo…

Infine, possibile che non ci siano proprio vantaggi per voi ad avere questo genere di contratti?

Alcuni vantaggi potrebbero essere rappresentati dalla possibilità di gestire meglio i propri tempi di vita senza essere “fagocitati” dal lavoro e di guadagnare di più rispetto a un dipendente, a discapito di maggiori sicurezze. Questo, se nella realtà le cose andassero davvero così. Finché l’autonomia dei “flessibili” rimarrà sulla carta e le aziende ricorreranno a contratti simili solo per abbattere il costo del lavoro, sul piatto della bilancia penderà sempre di più il lato degli svantaggi. L’unica cosa, infatti, che ci resta è la “fortuna” di fare un lavoro più in linea con le nostre aspirazioni rispetto ad altri, anche se le condizioni in cui siamo costretti a svolgerlo spesso lo rendono meno apprezzabile. Il lavoro editoriale non è quella chimera di cui si è soliti fantasticare e in molti, dopo aver sondato la dura realtà, cambiano settore… Chi resta lo fa per spirito di abnegazione, sopportando ogni giorno piccole e grandi umiliazioni pur di continuare a “fare libri”. La verità di questo mondo “dorato” è che le case editrici sfruttano le capacità intellettuali e le ambizioni di noi lavoratori privandoci sempre di più dei nostri diritti.

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