E’ di tutti i popoli il riso e l’ironia, l’umorismo che strappa via dal ricordo una giornata scura e il sorriso che rincuora.
E si dovrà concedere che alcuni popoli sorridano più di altri; sarebbe bello dire per un attitudine del tutto personale, ma a far la differenza è spesso l’ambiente nel quale si è piantati e all’interno del quale volenti o nolenti ci si trova a germinare. Merito del sole, merito del mare, merito del cielo di un azzurro intenso spruzzato di nuvole dalle forme melliflue se l’uomo mediterraneo più di alti sorride. Eppure il sole e il mare non sempre bastano, dato che l’uno potrebbe essere fin troppo intenso e l’altro burrascoso.
La Sardegna è un ambiente che fa capitolo a se. Riso e ironia sono vissute con una partecipazione diversa, e si rendono difficili da individuare perché a loro, nella vita di ieri veniva concesso poco spazio. Qualcuno direbbe che c’era poco di cui ridere, eppure il riso aveva il suo peso. Moneta di un certo valore se lanciata poteva assumere due facce. Quella amara del riso sardonico, indotto dall’erba che avrebbe fatto affrontare anche la morte in maniera audace come l’indole nuragica voleva, e quella più dolce che dava di se il meglio durante momenti particolari, condivisi, è bene ricordarlo, dalla comunità intera o da frange importanti di questa.
Si rideva dunque, ma quando?
Durante il ballo ad esempio. In Sardegna prende il nome di ballu tundu anima della tradizione popolare. I valori rituali, magico religiosi e di coesione sociale che in passato questa espressione comunitaria doveva avere oggi sono un ricordo, e all’uomo moderno resta l’idea del ballo tondo festoso, portavoce di particolari momenti di allegria, fase conclusiva di feste religiose, agricole e pastorali.
Sigismondo Arquer nel 1558 ricordava che “Ballano i sardi nel tempio durante tutto il resto del giorno e della notte, cantando canzoni profane. Gli uomini conducono le danze con le donne, uccidono animali e si nutrono di quelle carni con grande allegria in onore del Santo”, e Fuos a mezza strada tra lo scandalizzato e il sorpreso scrive dei sardi di fine settecento che ballavano durante tutte le feste ecclesiastiche, spesso anche nella stessa chiesa e davanti all’altare.
Celebrazione del sacro che in Sardegna in maniera del tutto originale si collega al divertimento, alla condivisione e alla risata. L’evangelizzazione dell’isola, tarda, non riuscì a scardinare del tutto il rapporto molto forte fra uomo e comunità per instaurare il binomio uomo-Dio e le proibizioni ecclesiastiche pur in vigore fin dal VI secolo d.C., non riuscirono a impedire che il ballo tondo fosse danzato in prossimità delle chiese e durante le feste religiose.
Gli elementi rituali a tutt’oggi si possono intravedere, mescolati con quanto di profano esiste. Il simbolismo magico del cerchio, come chiusura di un territorio sacro e possesso dell’oggetto abbracciato dovrebbe essere chiaro, ma anche l’impossibilità di rompere la catena di danzanti se non in forme ben stabilite è da tenere in considerazione. Basti pensare che l’indiscreto che rompeva l’unione della catena inserendosi o uscendo non rispettoso delle regole compiva nei confronti del sardo un offesa punibile con la morte. Questo almeno a detta del Valery.
Del ballo come mimica propiziatrice d’amore resta davvero poco oggi, eppure che anche in passato dovesse essere un momento di divertimento particolarmente piacevole; a dircelo la statuetta in bronzo proveniente da Ittiri che raffigura il suonatore itifallico.
Impossibile non figurare la gara poetica come momento d’ilarità e divertimento. Durante sa gala, o sa gara Logudorese i sardi si confrontano a suon di ottave. Poeti con l’arte dell’improvvisazione nel sangue, i cantadores nel loro poetare in rima trattano spesso argomenti a carattere satirico. Ieri come oggi a far ridere sono soprattutto rime sulla suocera, sa sogra, o sa nura, la nuora o argomenti quali l’incontro della figlia, del padre e del pretendente. A chiudere la gara ci pensano sas battorinas, quartine in rima dal carattere esclusivamente satirico e scherzoso in connessione con un canto in onore del santo per non rompere la tradizione che vuole il sacro pericolosamente vicino al divertimento ed al sorriso.
E a sottolineare che le ambientazioni del riso di ieri non dovevano essere poi troppo diverse da quelle di oggi diremo che gli uomini ridevano soprattutto in compagnia all’interno delle piccole osterie al suono di quelli che emblematicamente la tradizione ricorda come contus de imbriaghera e contus sproccusu, mentre le donne le immaginiamo più facilmente ridere al bordo della fontana, in attesa che asciugassero i panni, sedute in compagnia de su bixinau intrecciando cestini e filando, in attesa che il pane venisse sfornato.