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Le esperienze umane sono imprevedibili nei loro innumerevoli effetti, diretti ed indiretti. Il progetto Navigare i confini, promosso e realizzato da Carovana Smi, ha creato legami, spazi comuni, piattaforme di comunicazione, condiviso pratiche artistiche, sentimenti e culture diverse. Tutto ciò in un territorio urbano, Sant’Elia, con tanti problemi ma con la stessa esigenza di sognare dei migranti, di passaggio o innamorati inevitabilmente di questa terra.

Il quartiere si affaccia interamente sul Mediterraneo. Non è un luogo di passaggio, ad uso e consumo balneare, il quartiere vive un rapporto vitale con il mare. Dallo spazio dell’orizzonte arrivano e partono le barche, che da secoli fanno dell’isola di Sardegna un porto sicuro.

Il rapporto con lo spazio urbano è una continua scoperta se lo si sa guardare. Ognuno vive nel proprio mondo quotidiano, senza notare nulla se non le azioni che si compiono meccanicamente. Una monotonia che ha bisogno di confronti esterni, di altri sguardi per vedere con un orizzonte più ampio o solo diverso, senza dubbio più ricco. Il rapporto con l’altro è una crescita della nostra stessa vita, e non è uno slogan di qualche ente benefico. No, il confronto o anche il contrasto civile, è sempre una possibilità di migliorare il nostro mondo, alla peggio si rimane con le nostre piccole abitudini di pensiero, e si perde comunque tanto.
La tradizione ha senso se viene continuamente arricchita dall’esperienza contemporanea. Una regola che vale in ogni ambito: dalla medicina alla politica, dall’arte all’azione sociale. Anche la linguistica si rafforza con l’incontro di altre lingue -culture, per la precisione-, arricchendo il vocabolario che unisce sempre di più il pianeta.

Nel territorio circoscritto di un quartiere si possono notare meglio i cambiamenti del tessuto urbano, le strade e le piazze che aiutano una migliore socialità interna ed esterna. Un lungomare che unisce il quartiere alla via Roma, centro della città. Pochi accorgimenti che hanno senza dubbio aiutato a far cambiare lentamente il giudizio generale su un quartiere che ha prodotto fiumi di articoli a sfondo sociologico/paternalistico. Ma ciò che nel quartiere può fungere da vero volano per un miglioramento sociale è il Centro culturale Lazzaretto. Struttura simbolica, quasi catartica: da luogo di reclusione, che proteggeva la popolazione dai malati di ogni epidemia, a centro che produce epidemie culturali, col fine ultimo di diffondersi in ogni angolo del territorio.

Le parole, i laboratori sul corpo, gli incontri che si sono susseguiti nei mesi del progetto Navigare i confini (da febbraio a luglio 2016), hanno contribuito ad allargare gli orizzonti, a superare i confini del nostro piccolo giardino. Ragazzi e ragazze di vari paesi, dall’Africa all’Asia, hanno dialogato con gli abitanti del quartiere durante le varie occasioni di incontro: laboratori, seminari, convegni ed eventi che hanno contribuito a creare un nuovo modello di conoscenza reciproca.
Non è stato un incontro triste, anzi. Non si sono condivise le sfortunate esperienze di chi ha affrontato mille difficoltà per arrivare in Sardegna con chi combatte ogni giorno per sopravvivere. Non si è trattato di una comunanza di sventure e disagi, ma di uno spazio aperto verso il futuro. Si sono create le condizioni, attraverso le esperienze artistiche o sportive, che hanno aperto uno spiraglio a chi possiede un talento, un “saper fare” da utilizzare e mettere in gioco nella nostra comunità.

La nostra, rischia di diventare una società stanca, demotivata dal pessimismo organico, una cancrena difficile da eliminare. Siamo affascinati dagli estremi, le esagerazioni. Super ricchi e super poveri, super talentuosi o incapaci senza speranza, comandanti e sottomessi. Guardare la telecronaca di una partita di calcio in serie A ci piace di più di quella della piccola squadra di provincia. Apprezziamo e tifiamo per un giocatore nigeriano, ivoriano, camerunense che guadagna milioni di euro, ma ci fa paura un calciatore delle stesse nazioni arrivato in Italia con un barcone dopo un viaggio devastante.
Categorizziamo per facilitare il compito della comprensione, semplifichiamo per avere più sicurezza. Allora pensiamo che chi arriva dall’Africa sia una massa di persone tutte uguali, simili perché vivono nello stesso continente: quasi tutti hanno la pelle scura, sono musulmani e odiano chiunque sia diverso da loro. Facili affermazioni che non reggono il confronto con la realtà.
Solo in Nigeria, un paese di quasi 200 milioni di abitanti, esistono centinaia di lingue diverse, non si capiscono da una regione all’altra. Sono in maggioranza cristiani, di varie confessioni, i musulmani sono una minoranza e concentrati nel nord del paese. Di questi la stragrande maggioranza subisce la violenza del gruppo di terroristi islamisti, unico argomento di quando si parla di quel paese, in continua (e diseguale) crescita economica.

Le sovrastrutture che ci permettono di guardare la realtà, i filtri negativi che quotidianamente vengono forniti dai media, intossicano la capacità di ragionare.

La maggior parte dei giovani che arrivano qui sono persone che vivono nel mondo globalizzato, usano la rete come noi: si informano, vivono sui social network, creano gruppi di amici. Hanno voglia di provare a costruire un futuro, ognuno con i propri progetti. E’ difficile trovare differenze con i diciottenni italiani, europei. C’è chi ha letto Gramsci e crede fermamente nel cristianesimo, chi ha il dono della voce e incanta il pubblico con le sue christian songs, chi sogna di diventare un campione di basket o un famoso chef.
I sogni sono liberi, e queste occasioni sono linfa vitale per chi arriva in Sardegna o per chi ci vive da sempre.

1 thought on “Rivivere lo spazio urbano navigando i confini culturali

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