Articolo di Francesca Fiore
Di sicuro c’è solo che è morto. Questo è il titolo con cui comincia l’inchiesta di Tommaso Besozzi, pubblicata su L’Europeo del 16 luglio 1950, sulla fine del bandito Salvatore Giuliano. Con questo incipit, in una delle inchieste migliori della storia del giornalismo italiano, il giornalista di Vigevano ricostruisce la notte del conflitto a fuoco, mettendo in luce, già nel 1950, le contraddizioni e i punti oscuri di una storia, da sempre sottovalutata, ma che rappresenta per l’Italia un vero spartiacque.
Gli studiosi parlano spesso di strategia della tensione, termine noto a chi studia la storia italiana, ma sconosciuta ai più. Perché dell’Italia, dal dopoguerra in poi, esistono due storie parallele: una che riguarda le verità giudiziarie, confuse e contraddittorie, il più delle volte approdate a un nulla di fatto, dopo anni di indagini e inchieste; la seconda riguarda invece la cosiddetta “verità storica”, ossia una serie di ipotesi fatte da ricercatori e giornalisti, che raccontano di “un’altra Italia”. L’Italia contesa fra Nato e Patto di Varsavia, l’Italia invasa dagli agenti dei servizi di USA e URSS, l’Italia delle stragi mai risolte, l’Italia della strategia della tensione, appunto.
Ma questa verità storica, che attesta come il nostro paese sia stato al centro di una precisa strategia per quarant’anni, non ha il suo punto di inizio nella strage di Piazza Fontana, come si è soliti ricordare. La contesa del territorio italiano fra forze americane e pressione comunista, inizia molto prima, inizia dalla Sicilia, pochissimo tempo dopo la caduta di Salò. Inizia con la storia della banda di Salvatore Giuliano.
Spiegare chi era Salvatore Giuliano è difficile, quasi quanto spiegare la sua morte. Era un bandito, era un romantico, era un indipendentista, era un uomo spietato. Forse era tutto questo e molto altro, ma sicuramente era una pedina nelle mani di forze più grandi.
La situazione post conflitto è complessa, ancora di più nella Sicilia del 1947 quando, alle elezioni regionali, in contro tendenza rispetto al resto dell’Italia, il Blocco del Popolo – che riuniva tutte le formazioni di sinistra- vince su DC, monarchici e separatisti. La necessità di tenere sotto controllo il territorio siciliano diventa fondamentale per gli americani, che trovano in Giuliano l’uomo perfetto da utilizzare nella lotta anticomunista.
Lo sbarco americano in Sicilia era stato concordato con i capimafia locali che, in cambio del sostegno politico e strategico della mafia, avevano ottenuto posizioni di potere in vari comuni, compreso Villalba- paese di provenienza di Giuliano- in cui il sindaco, Don Calogero Vizzini, intratteneva stretti rapporti con la neaonata OSS, la proto-CIA. Sono proprio quei capimafia che aiutano Giuliano a preparare la strage di Portella della Ginestra.
L’immagine del bandito romantico s’infrange il primo maggio del 1947 quando, dal Monte Pelavet, la banda di Giuliano spara sulla folla riunita a Portella della Ginestra, per festeggiare i risultati elettorali appena conseguiti. Quei dodici morti e quei trentatre feriti sono il primo atto della strategia che si consoliderà dagli anni sessanta in poi: destabilizzare per stabilizzare.
Giuliano aveva dei motivi “ufficiali” per organizzare la strage: i sindacalisti avevano infatti convinto molti contadini a non far passare più sulle proprie terre mafiosi e banditi. Il Ministro degli Interni di allora, Mario Scelba, nega che dietro al strage ci sia una strategia politica. In realtà negli anni in cui si discute di riforma agraria, i sindacalisti uccisi da mafiosi e capibanda locali sono molti, come racconta la vicenda di Placido Rizzotto, o le azioni violente di Terrasini, Partinico, Monreale.
La versione ufficiale parla di un solo punto di fuoco, quello della banda Giuliano. Ma già pochi giorni dopo ci sono testimonianze che parlano di altri gruppi presenti sul Pelavet, quel giorno. La banda di Giuliano usa armi da guerra, come il mitragliatore Breda, in grado di sparare da molto lontano. Negli anni, testimonianze e inchieste di vario tipo hanno portato alla luce elementi cruciali a sostegno dell’ipotesi che la banda di Giuliano non fosse l’unico gruppo a sparare contro i sindacalisti di Portella.
Come ad esempio il ritrovamento, nel 1997, di un caricatore di mitra calibro 9, in uno dei canali sotto il Pelavet, o il ritrovamento di resti di granate. Non solo si ipotizzano altri due punti di fuoco, ma si ipotizza anche la presenza sul territorio di forze americane, probabilmente squadre speciali, oltre a quella dei gruppi mafiosi e della banda Giuliano. Salvatore Giuliano a quel punto diventa l’uomo più ricercato del momento. Nessuno lo riesce a trovare, né polizia né carabinieri. Tranne un uomo: un giornalista americano, di nome Mike Stern, che riesce ad intervistarlo.
Dopo la strage, le azioni di polizia e carabinieri sembrano mirate a uccidere tutti i componenti della banda rimasti in vita, come fossero testimoni sconomdi. Uccidono perfino Salvatore Ferreri, detto Fra Diavolo, uno dei primi luogotenenti di Giuliano, diventato negli anni informatore della polizia. In questa storia, un altro elemento cruciale è appunto il ruolo delle forze dell’ordine: per anni, infatti, ci sono incroci di informatori, a volte doppi e tripli, fra polizia e carabinieri, e tentativi documentati, di sabotare le indagini dell’una o dell’altra parte. Anche nel processo sulla morte di Giuliano sono molti i tentativi di depistaggio ad opera proprio delle forze dell’ordine.
Sulla morte di Giuliano ci sono 16 versioni diverse, alcune contraddittorie, benché inserite in atti giudiziari. C’è una versione che dice che Giuliano non è morto lì ma a Villa Carolina, a 100 km di distanza e altre dicono che sia stato Luciano Liggio, il famoso boss, a farlo uccidere. Salvatore Giuliano muore il 5 luglio del 1950, in un conflitto a fuoco della polizia. Dalle prime ricostruzioni giornalistiche, come quella di Besozzi, si capisce immediatamente che il racconto dei carabinieri è falso e che la scena del crimine è stata manomessa. Il corpo di Giuliano è stato messo in un certo modo per simulare un conflitto a fuoco con gli agenti, esito di un suo tentativo di fuga.
Cos’è successo davvero quella notte? Questo, dopo più di cinquant’anni, non ci è ancora dato saperlo. L’ipotesi più accreditata è quella del tradimento di Gaspare Pisciotta, amico fraterno e alleato della prima ora, poi convinto a consegnare alle forze dell’ordine il bandito. Ed è vero che Pisciotta vide quella sera Giuliano, anche perché il bandito si autoaccusò dell’omicidio. Ma questa versione non viene in un primo momento accreditata. Anche il documento contenente le prime deposizioni di Pisciotta viene fatto sparire.
Dopo la morte di Giuliano, Gaspare Pisciotta avrebbe dovuto godere della protezione segreta dei carabinieri, mentre ufficialmente sarebbe stato comunque un latitante. Ma la polizia lo va ad arrestare. Durante il processo sulla strage di Portella della Ginestra, per cui è imputato, Pisciotta fa delle importanti e, allo stesso tempo, inquietanti dichiarazioni, come “ Siamo un unico corpo, banditi, polizia e mafia”. L’esito del processo lo condanna all’ergastolo: Pisciotta, infuriato, parla di una verità nascosta, che racconterà al processo d’appello. A quel processo in realtà non arriverà mai: viene infatti avvelenato, nella sua cella, il 9 febbraio del 1952. La versione ufficiale parla di stricnina nel caffè, rivolgendo l’accusa verso il padre, unico presente in cella al momento della colazione.
Ipotesi impossibile da considerare plausibile: una tale dose di stricnina nel caffè avrebbe reso imbevibile la bevanda, perché troppo amara. In ogni caso, ancora oggi questa è l’unica versione della morte di Gaspare Pisciotta. I quattoridici quaderni di appunti, che Gaspare Pisciotta aveva scritto sulla vicenda Giuliano, spariscono poco dopo.
Questa è una storia complessa e densa di punti oscuri e, come altre mille storie italiane, non ha ancora avuto una soluzione. Si può considerare la versione “complottista” priva di prove ufficiali, ma non certo prima di fondamenti. Come altre mille storie italiane, necessita ancora di indagini e analisi, perché non venga dimenticato che non esiste una sola versione delle vicende accadute al nostro paese dal dopoguerra ad oggi. Perché senza una solida memoria storica- basata sulla verità- non esiste ogni sforzo per costruire un’identità comune, si dimostrerà per sempre vano. E questo vale per le altre mille storie irrisolte del nostro paese.
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