Due adolescenti
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Mi è capitato molto spesso di sentire persone ormai adulte definire l’adolescenza come l’età migliore, quella della spensieratezza, la fase della vita che ciascuno di noi ricorderà con maggior nostalgia. In teoria è così per la maggior parte degli individui, ma ripensando a queste frasi mi viene in mente la prima volta che ho messo piede in quella casa, quella grande casa dove vivevano dei ragazzini, tutti in età adolescenziale, ognuno dei quali portava con sé la sua storia, i suoi disagi, le sue angosce, e soprattutto tanti interrogativi. Forse il punto interrogativo più grande era rappresentato da un semplice “perché?”, domanda che sicuramente accomunava ciascuno di quei ragazzi arrivati lì senza averlo chiesto, senza niente in comune se non la sfortuna di avere alle spalle un’infanzia infelice.

Si, un’infanzia infelice, da quanto si poteva intuire dalla serie di documenti che li riguardavano. Ma che poi, a guardarli in faccia uno a uno si presentavano a te con un tale sorriso che a pensarli così sfortunati sembrava incredibile. Eppure ciò che era scritto in quei fascicoli, nero su bianco, loro lo avevano vissuto davvero, e io in quel momento potevo solo pensare a quante volte mi ero lamentata per questo e per quello, e a quando per me, a quell’ età, anche una piccola cosa poteva di colpo trasformarsi in tragedia. Invece le vere tragedie sono altre. Da adulto questo lo si capisce, ma quello che più mi toccava era il fatto che loro, invece, erano stati costretti a capirlo troppo presto.

Questa era la loro realtà, ragazzi adolescenti allontanati dalle loro famiglie, che si affidano totalmente alle figure che in quel momento loro vedono come un punto di riferimento. Io ero diventata uno di quei punti fermi per loro, insieme al resto dell’équipe. Educatrice di otto adolescenti che, a parte i difficili avvenimenti che potevano averli colpiti, non erano affatto diversi da tutti gli adolescenti che vivono tranquillamente con le loro famiglie. Ragazzi, quindi, che come tutti (ma loro più che mai), erano alla ricerca di valori stabili e saldi, quelli che nessuno era stato in grado di trasmettergli, ma che allo stesso tempo cercavano un modo per esprimere a tutti i costi il loro spirito oppositivo.

Questo è per tutti i ragazzi il modo più diffuso per affrontare la sfida della crescita, della differenziazione dall’adulto. Questa sorta di protesta è in qualche modo funzionale alla crescita, in quanto se ben ponderata fa in modo che il ragazzo sperimenti che anche le forze aggressive possono essere creatrici, innovatrici, e non solo distruttive.
All’interno della grande casa eravamo tutti una grande famiglia. La condivisione della vita reale si esplicava nella semplice quotidianità, si ricreava quello che loro fino a quel momento avevano vissuto in maniera totalmente distorta o non avevano conosciuto per niente.
Quotidianità. Si tratta di situazioni semplici, di gesti e riti, forse senza un apparente prestigio pedagogico, ma che in realtà hanno una grande influenza sull’equilibrio fisico e mentale degli individui. La quotidianità della casa, con i suoi riti, le sue regole, i suoi ritmi, aiuta il ragazzo a sperimentare e costruire delle “rappresentazioni” che servono per elaborare il rapporto col mondo.

La vita quotidiana con i ragazzi era però anche un fertile terreno di scontro. Per gli adolescenti la contraddizione si avviava dal contrasto tra ricerca di sicurezze e voglia di novità, tra provocazione e desiderio di relazione con l’adulto: da una parte tendevano a riprodurre ciò che assimilavano in casa o nei luoghi di riferimento, dall’altro c’era la naturale tendenza alla trasgressione, ad infrangere le regole.
Ma il fatto è che i ragazzi stessi fin dal principio richiedevano (più o meno inconsciamente) le regole. Cercavano dei punti di riferimento per poi poter trasgredire, provando a conoscere i confini del loro agire. Alcune volte queste stesse regole venivano messe in discussione prima ancora di averle vissute, cercando di essere completamente autonomi, nonostante la loro età comportasse una immaturità emotiva ed un’inesperienza pratica.

Il fatto è che l’autonomia dei ragazzi deve essere il frutto della relazione, non dell’assenza dell’adulto. La sola regola non risolve i problemi, mentre l’eccessiva vicinanza dell’adulto, che può essere vissuta come invadenza, non crea un buon clima educativo. L’obiettivo principale non deve essere solo “piacere” agli adolescenti ma fare in modo che riescano, laddove necessario, a mettere in discussione anche i loro modelli di comportamento, che nella vita quotidiana tendono ad emergere prepotentemente. Autonomia non è sinonimo di lasciar fare, sempre e comunque, e questo forse è il principale problema dell’educazione che subiscono gli adolescenti di oggi, troppo poco accompagnati dalle proprie figure di riferimento.
Essere autonomi, quindi, è un percorso di apprendimento che porta a mettere in discussione gli stereotipi e i luoghi comuni, riflettendo anche sulle proprie cattive abitudini. Sicuramente per i giovani, in qualunque situazione si trovino, assume un valore inestimabile la possibilità di valorizzare tutto ciò che concerne la loro quotidianità, in quanto è proprio in quei momenti che si stabiliscono importanti relazioni affettive e di sicurezza.

All’interno della grande casa, infine, si creavano delle relazioni vere, di fiducia, nelle quali i ragazzi comunicavano le proprie idee, le proprie emozioni. Ho constatato che è importante per i ragazzi avere di fronte una persona che sappia ascoltarli, che abbia un atteggiamento di accoglienza. Per loro è fondamentale inoltre il fatto di sentirsi riconosciuti, di sapere che l’adulto è in grado di farlo sentire una persona con una soggettività, una testa e un cuore, ed è in grado soprattutto di considerare degno di valore ciò che un giovane dice e ciò che ha da raccontare.

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