“Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”
La psicoanalisi ci indica che veniamo al mondo con un corpo frammentato, disarticolato, dipendente totalmente dall’altro e che solo attraverso l’immagine speculare, in quel che Lacan ha indicato “stadio dello specchio”, ci costituiamo come unità e forma corporea compiuta. Solo nell’immagine riflessa dallo specchio si costituisce l’immagine unitaria, l’identità di ogni soggetto e “Io sono l’altro”, nel senso che l’io, la mia identità è data dall’altro ed è nell’altro.
La prima idea di corpo, dunque, è che il corpo biologico sia un corpo frammentato e solo attraverso l’immagine dello specchio si costruisce in un corpo umano, umanizzato, ossia come identità corporea: è l’altro a fare del nostro organismo, del nostro corpo biologico, un corpo umano, un corpo di linguaggio. Tale immagine cattura, sostiene e orienta la vita del soggetto. L’essere umano non è un corpo; l’essere umano ha un corpo. E’ noto ai più come il rapporto con gli specchi non sia per niente semplice: può capitare di detestare e disprezzare l’immagine di noi che essi ci rimandano, può apparire diversa da noi. A volte sembra lei a disprezzarci oppure può accadere di non poterne fare a meno, di cercarla ovunque, o addirittura si può avere la sensazione che sia lei a cercarci.
I disturbi del comportamento alimentare, come l’ anoressia nervosa, sono considerati attualmente tra i più seri disordini psicologici. Il loro crescente incremento, sia in Europa che in altri Paesi industrializzati, e le serie conseguenze che determinano nel paziente sul piano fisico, psicologico e sociale ne fanno oggi la terza patologia cronica più grave in psichiatria.
Fra le principali cause personali ed esistenziali dell’anoressia consideriamo una insicurezza di fondo che caratterizza la natura dell’anoressica, accompagnata quasi sempre da una buona intelligenza e da un lavoro personale sulla conoscenza del sé. L’anoressica, infatti, riflette molto su se stessa, non è quasi mai soddisfatta degli obiettivi che ha raggiunto e chiede a se stessa come migliorarsi. La risposta che trova alla propria insoddisfazione si riflette sul corpo, simbolo del fallimento e della mancanza di perfezione che caratterizza l’essere umano, del suo limite innato, della sua manchevolezza. Il perfezionismo, la bassa autostima, l’intolleranza alle emozioni e i problemi interpersonali, uniti a una serie di variabili altre (tra cui una dieta ferrea che consenta di mantenere un peso corporeo al di sotto di quello naturale) sono fattori di consolidamento e mantenimento di tali disturbi.
Il cibo e il corpo si trasformano così in bersagli per la patologia e soprattutto in strumenti per esprimere l’impossibilità di trovare alternative per dichiarare di esserci e di raccogliere attenzione.
Esser magra è più importante di stare in salute. Tutto ruota intorno al corpo e all’apparire, quindi può succedere che proprio il corpo si faccia portavoce di una qualche forma di sofferenza e in alcuni casi di patologie vere e proprie, le cui radici vanno inscindibilmente ricercate nell’ambito socio-culturale, familiare, personologico e relazionale.
Un corpo odiato, vissuto come deforme, un corpo da distruggere, assottigliare, offendere, annullare; un corpo erroneamente percepito, che diviene il bersaglio di ogni insoddisfazione e senso di colpa. Un corpo che diviene lo strumento di comunicazione di ogni sofferto disagio e di ogni paralizzante bisogno di attenzione, mai dichiarato, mai chiesto, ma sempre agognato nel silenzio.
Questo, ormai lo sappiamo, è il quotidiano tormento vissuto da ogni ragazza anoressica.
L’enorme pressione sociale verso la magrezza, ha portato all’utilizzo di pratiche dietetiche sempre più frequenti in tutta la popolazione, e nelle adolescenti, in particolare. Tuttavia la dieta sembra essere un fattore necessario ma non sufficiente a causare l’anoressia nervosa o la bulimia nervosa. Modi comportamentali e l’ambiente possono rivelarsi concause. Sulla rappresentazione mentale del proprio sembiante pesano molto i fattori ambientali, sociali e culturali.
Il lavoro di Richard A. Gordon muove dall’ipotesi che il rapido e recente dilagare dei disturbi dell’alimentazione nelle nostre società, sia l’espressione estrema del mutamento radicale delle aspettative sociali nei confronti delle donne, che ha avuto luogo a partire dagli anni sessanta. La giovane malata esprimerebbe perciò, inconsapevolmente, una crisi culturale diffusa riguardante i dilemmi dell’identità femminile in un clima culturale in cui il ruolo della donna è definito in modo ambiguo e ancora limitato da un controllo prettamente maschile.
L’identità femminile nella società odierna è soggetta a spinte contraddittorie difficilmente conciliabili: da una parte viene promosso un modello di femminilità del genere “superdonna”, con forti pressioni al successo e nella condivisione del mito che la donna debba essere forte per compensare le presunte inadeguatezze maschili; dall’altro, tuttavia, continua a permanere nelle donne una percezione del proprio valore legata all’esigenza di aiutare ed assistere gli altri, la tendenza ad essere compiacenti, condiscendenti, passive e particolarmente sensibili alle richieste provenienti dall’esterno.
Oggi è difficile parlare di “anoressia”. In una società che rincorre il mito dell’apparenza e che propina l’equazione bellezza = magrezza, la magrezza viene rinforzata, premiata e in alcuni casi è strapagata. E l’anoressia può essere spiegata anche partendo dalla nozione di imitazione.
Il mito della bellezza-magrezza, esibita, fotografata e photoshoppata, è diventata un imperativo etico. La globalizzazione promuove il modello idealizzato occidentale della donna magra come obiettivo a cui uniformarsi ad ogni costo, anche della propria salute. L’ideale di bellezza standardizzato e irrealistico, che esalta la perfezione e demonizza il grasso, costringe le donne ad un continuo automonitoraggio del proprio fisico e a pratiche per modellarlo.
L’insoddisfazione per il proprio corpo e la mania della dieta sono cresciute negli ultimi anni con una rapidità impressionante. Il nuovo fenomeno del “dieting”, cioè la tendenza a stare sempre a dieta, porta a vivere un rapporto malato e conflittuale con il cibo e con il proprio corpo. Si è venuto a creare uno scarto significativo tre l’aspetto fisico reale e quello ideale, con la conseguenza che l’insoddisfazione per il proprio corpo e le pratiche dietetiche sono sempre più diffuse tre i giovani. L’ideale della magrezza è diventata una moda, se non addirittura il simbolo stesso del progresso. Il fenomeno della “dismorfofobia”, l’errata valutazione della propria immagine e l’incapacità di valutare in modo oggettivo la propria fisicità, spinge le donne a ricercare soluzioni drastiche a problemi spesso inesistenti ma reali per il loro modo di pensare e percepire se stesse ed il proprio corpo. La magrezza a tutti i costi, fino anche a non mangiare e ad assumere solo caffè e antinfiammatori.
Tuttavia, avverte U. Galimberti “quando la posta in gioco non è tanto dimagrire e apparire agili e leggeri, quanto essere socialmente accettati e quindi esistere, allora la persona che non mangia per esistere o che vuol dimagrire per la stessa ragione, incarica il cibo, la palestra, la dieta e persino i lassativi a tenere un discorso che a queste pratiche non compete e per il quale non dispongono di parole. In gioco non è la gola ma l’insicurezza circa la propria esistenza che non ha trovato dove ancorarsi. In questa sfida per esistere, incontriamo quelle figure diafane e leggere che la psicopatologia nomina anoressiche perché riescono a trasformare ogni cibo in un dannoso concentrato di zuccheri e grassi”(Galimberti, 2006 ).
Ecco, dunque, che l’anoressia da fenomeno psichico, malattia sporadica e personale diviene (in particolare nel corso degli anni novanta del secolo scorso) malattia e fenomeno sociale come l’alcolismo e la droga. L’ossessione per la bellezza è una delle componenti: si cerca il perfetto e se non lo si trova fuori di sé lo si riversa su di sé. L’anoressica vuole il meglio per sé e se la vita non l’accontenta lo proietta su di sé, perfezionando il proprio corpo, cercando di raggiungere un ideale di perfezione che si traduce nell’esercizio del dimagrimento cronico. Un percorso questo che la rende prigioniera di uno sforzo sovrumano per mantenersi in relazione positiva con l’ideale comune della società occidentale: la magrezza che nell’immaginario dell’anoressica si trasforma in una corda tesa tra l’esercizio minimo delle funzioni vitali e il collasso irreversibile.
E’ innegabile come nella nostra società la donna magra rappresenti l’ideale di donna potente, ricca, di successo, sessualmente attraente e vincente. Il culto del valore estetico è tale che solo ciò che è bello può anche essere buono, e tende a porre la bellezza come presupposto implicito delle qualità della persona. Ecco, allora, che proprio l’anoressia si lega strettamente al mito della bellezza.
Il nostro è un tempo che celebra il trionfo dell’immanenza assoluta: tutto si gioca e si decide sul terreno dell’apparire, non abbiamo più un corpo, siamo il nostro corpo e un corpo non piallato assume i tratti di un inestetismo da nascondere.
La moda in particolare riverbera su spot e riviste il mito di una magrezza estrema imponendo di lasciare scoperto e di esibire un fisico efebico; mito che si radica soprattutto nelle giovanissime che vivono già una fase critica, quella dello sviluppo adolescenziale, in cui devono fare i conti con cambiamenti evidenti del loro corpo, spesso difficili da accettare e fonte di disagio. Nell’adolescenza, infatti, fase di metamorfosi del corpo, il tempo dello scorrere della vita obbliga ad affrontare il processo ineludibile del confronto, non solo con l’altro da sé, ma soprattutto con il proprio sé, con un sé nuovo che ha bisogno di essere nuovamente conosciuto e reinvestito.
Il corpo, dove di fatto vengono convogliate tutte le energie esistenziali, è non solo “vittima sacrificale”, ma paradossalmente anche il mezzo attraverso il quale cercano di farsi strada un tentativo di evoluzione psichica e un abbozzo di identità, È una piccola rivoluzione silenziosa, un modo per riguadagnare uno spazio, per esprimere i propri bisogni, quei bisogni che la mente non riesce a pensare. Il corpo, che urla la sua denuncia al mondo, che esibisce la sua sofferenza fatta per essere vista, rappresenta, perciò, ciò che la mente non può pensare.
I modelli sociali, prototipo dell’effetto sono le top models; man mano che queste sono diventate uno status symbol lo è divenuta anche la loro magrezza che si è accentuata sicuramente negli anni novanta grazie alla moda minimalista che esigeva una donna magra perché più adatta ad essa. Ma come sempre succede quando un modello diviene uno status è più difficile da sgomberare ed eliminare. Il bel mondo che le top models hanno rappresentato e che ancora rappresentano è un mondo di magri, di diete, di cibi macrobiotici e salutari a cui successivamente si è aggiunto il mondo delle palestre e delle beauty farm per apparire sempre al meglio: meglio se magre.
In tutto ciò non ci sarebbe alcunché di male se non divenisse una mania e per alcune donne si trasformasse in ossessione e in rifiuto del cibo, quindi in malattia.
Alcuni potranno obiettare che ultimamente la moda sta tentando di rilanciare le forme generose: la riscossa delle Curvy (celebrata anche da Vogue) oggi è infatti una realtà. Tuttavia, non c’è donna che ogni giorno non pensi con scontentezza al proprio fisico, affidandosi a palestra e a diete miracolose per snellire, tonificare, dimagrire. Alla luce di ciò, non deve stupire se attualmente vanno imponendosi nuove manie psicofisiche. Tra queste la “thininspiration” e la “dieta visiva”. La prima, che ha già fatto scattare l’allarme tra dietologi e nutrizionisti, indica un fenomeno che ha preso piede sul web e sui social network in cui gli utenti vengono esortati alla “magrezza a tutti i costi”. Essa nasce come “superamento” del concetto di anoressia mentale per fare una correlazione “positiva” con le scelte sane e salutari di un buon regime alimentare. La “dieta visiva”, a dispetto del nome, non consiste nel guardare il cibo anziché mangiarlo: si tratta piuttosto di essere esposti continuamente alla visione di corpi eccessivamente magri, come quelli che bombardano l’immaginario femminile occhieggiando dalle riviste di moda. La conseguenza di questa “dieta” consiste nel non riuscire ad apprezzarsi per come si è, agognando costantemente la taglia 38 e finendo magari per sviluppare un disturbo alimentare.
Naturalmente, non tutte le donne hanno la costanza e la voglia di seguire una dieta. Alcune preferiscono scegliere delle scorciatoie, trucchi molte volte dannosi per la salute. Fabiola De Clercq, fondatrice di Aba (Associazione per lo studio e la ricerca sull’anoressia: www.bulimianoressia.it) in una recente intervista a proposito dei rituale messi in scena delle pazienti anoressiche o bulimiche sostiene che il 50% di esse, circa 3 mila l’anno in tutta Italia, si affida a un rituale pericolosissimo: mangiano in pubblico, vomitano di nascosto, bevono alcolici e sniffano cocaina, “per stare su e non sentire la fame. Si prova ogni cosa pur di non accumulare etti. Tutto pur di essere magre come adolescenti”.
Uno dei vissuti più angoscianti delle anoressiche è legato ad una errata percezione del proprio corpo, che viene vissuto come sgradevole e perennemente inadeguato. L’inadeguatezza potrebbe rispecchiare in parte l’esigenza di conformarsi agli standard proposti dalle tendenze della moda, ma l’inadeguatezza più dolorosa è rispetto al proprio ideale di corpo, in altre parole rispetto a ciò che si vorrebbe essere.
Tormentarsi per qualche chilo e centimetro in più significa attribuire una forma e dare un peso alla nostra paura di vivere. Significa ricondurre il nostro smarrimento complessivo a una serie di atti pratici con i quali operiamo esorcisticamente contro le mille cause della nostra insicurezza, del nostro mal di vivere. In fondo è più semplice modificare il proprio aspetto che cambiare il mondo.
La cura di sé diventa il vero imperativo morale: non un semplice stare a dieta quanto piuttosto una vera e propria dittatura della magrezza che modella i nostri corpi come una scultura sociale, non obbligatoria, eppure subdolamente coercitiva (Niola, 2012).
Nell’agito quotidiano di ogni anoressica è presente una sorta di minimo comune denominatore che rappresenta per coloro che desiderano comprendere meglio la natura del disturbo, un’importante chiave di lettura dello stesso: la nozione di “controllo”. Essere anoressica significa essenzialmente “stare sotto controllo”, mortificare ogni diritto e pulsione vitale, punirsi senza sosta per evitare l’aumento ponderale e con esso la crescita delle dimensioni del corpo, privarsi di ogni più piccola gratificazione, come pure di qualsivoglia sensazione piacevole possa scaturire da un’emozione qualsiasi, anche da un pasto. Conservare in maniera incessante e totalizzante il controllo di questa perenne privazione è rendersi consapevolmente e volontariamente carnefice di sé stessa. Un controllo che spesso finisce con l’investire perfino la sfera sessuale; non è infatti raro che l’anoressia generi una caduta degli appetiti sessuali, che può cronicizzarsi fino all’anorgasmia.
Sentirsi “satura di corporeità” per l’anoressica rappresenta quel pensiero costante e ossessionante per il quale il corpo è sempre percettivamente presente ed incalzante nella sua opacità. Consisterebbe proprio in questo il “sentirsi troppa” di alcune giovani che appetiscono l’assoluta magrezza, nella mitizzazione delle figure della leggerezza (Ripa di Meana, 1995).
La ricerca della magrezza a tutti i costi significa l’autodistruzione del corpo che divora se stesso invece che rimanere forma suprema del piacere. Un corpo che è nello stesso tempo bisogno e desiderio. Ma bisogni e piaceri pulsano e si esperiscono nei medesimi luoghi, per questo è molto difficile vivere con serenità i bisogni naturali se si rifiuta la naturalità del piacere. Alla luce di ciò non deve destare stupore se nell’immaginario dell’anoressica sia ricorrente il richiamo onnipotente ad una condizione di dissolvimento dei bisogni carnali a favore di una esaltazione del potere della mente che può controllare ogni esigenza appetitiva, sostituendola con immagini di forza e purezza priva di compromessi.
E’ proprio attraverso questa prospettiva deformata e tormentata dell’esperienza che si compie il suo stare nel mondo. Le sue labbra non si apriranno più nemmeno per pochi grammi di cibo, né per una parola di spiegazione e, sottolinea Galimberti, inizierà a guardare con disprezzo quelli che definisce “uomini a tre dimensioni che vivono per mangiare, dormire, scopare”, laddove, invece, lei ritiene che il cibo ottunda la mente, il sonno sia una perdita di tempo e il sesso una pratica che trasuda di corpo e corporeità. “In questa magra, emaciata e pallida figura, a volte quasi scheletrica, la femminilità appare negata, l’identità sessuale confusa, la carnosa fecondità ripudiata, quasi con orrore” (Galimberti, 2006).
Completamente affidata agli occhi e al giudizio degli altri, per riceverne conferma o orripilante disconferma, tutte le mattine, l’anoressica si prepara ad affrontare il mondo con una maschera che nasconda il vero impresentabile sé segreto, che seppure sconosciuto, è comunque “sicuramente” ripugnante e inaccettabile. E se di tutte le maschere la più convincente è il corpo, un corpo magro sembra indubbiamente la migliore. Un corpo sacrificale in realtà, perché se per lei non c’è posto al mondo, allora non chiede nulla, riduce perfino il suo spazio d’ingombro. La magrezza diventa così l’unico aspetto di sé che si possa esibire in quanto dimostrazione della capacità di rinunciare a tutto e a tutti tra persone che sembrano invece dipendere da mille bisogni. Il non provare desiderio, il non sentire né dolore né fame, l’amputazione di aspetti di sé, di una parte di vita dove sono collocati emozioni e bisogni, galvanizzano in modo paradossale ogni suo comportamento e sembrano offrire un’autonomia mai avuta.
E’ il gioco del limite trasceso: l’indeterminato rimane la meta da raggiungere e proprio perché è indeterminata, è impossibile da fissare, non ha un limite. Ciò significa che tale limite viene continuamente superato proprio perché la meta, l’ideale della perfezione implica l’indeterminatezza della propria infinitudine e si va avanti ad oltranza. Non c’è altra via, altra possibilità, il gioco del limite trasceso finisce da dove è iniziato: dal limite stesso che non si può evitare. Tentando di superare sé si arriva alla fine di sé ma la fine di sé è solo la morte.
“Dal momento che il cibo è la prima condizione d’esistenza, spetta al cibo mettere in scena un tema che alimentare non è, ma esistenziale, perché va alla radice dell’accettazione o del rifiuto della propria esistenza. Il materialismo della nostra cultura è approdato alla rarefazione dei nostri corpi, condannando alla leggerezza anche le parti migliori di noi. Una leggerezza che rende tutto diafano, inespressivo e soprattutto conforme a quell’ideale che una volta che ci ha catturati, ci porta lontano da noi e da quello che su questa terra avremmo potuto esprimere, se invece di costruire ossessivamente il nostro corpo secondo quell’ideale di leggerezza che la nostra cultura ci ha imposto, l’avessimo semplicemente abitata in tutta serenità, compiacenza e gioia” (Galimberti, 2006).
Quando si diventa anoressiche per emulazione si insegue un mito, si crede ad una favola, quella della magrezza come vita migliore e mezzo per la felicità. Si pensa che le donne magre siano più belle, che abbiano una vita sentimentale più fruttuosa, che possano comprarsi tutti i vestiti che vogliono (e qui un fondo di verità c’è dal momento che la moda veste la magrezza perché le stoffe scivolano su un corpo magro, donando all’abito un effetto magico che appare bello, tanto è vero che si sta pensando alla robotica per le sfilate. L’abito deve essere al centro della scena più che il corpo e quindi più il corpo è sottile più l’abito appare rubando la scena alla persona) (Finazzi).
E’ un mito effimero, la magrezza, di cui è veicolo la società che la mostra come modello di salute e benessere fisico. Una favola fallace, una menzogna immaginosa capace di incantare, ma che analizzata razionalmente è possibile decostruire e smontare.
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