Grazia Deledda e famiglia
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Di Carla Cristofoli

I ragazzini schiamazzano nel cortile. C’è rigore. Dalle estremità del campo improvvisato, voci bambine ribelli e faziose si azzuffano. La mischia si apre e dà scena ai due avversari. Dalla risma emerge un piccoletto fragile e deciso, che parla con sorrisi e brevi risate, sembra dire ‘Non è niente, il rigore non c’è. Al massimo un calcio d’angolo’. E la risolve: il rigore non c’è. Il piccoletto si gonfia di gioia, dà una pacca sulla spalla al più grosso, trattiene a stento un abbraccio. I due lo guardano con rispetto e disprezzo, si separano a malincuore e ritornano in posizione, ridando gioco al cortile.

Ernesto segue la scena dalla finestra della cucina, tira una boccata di sigaretta, sorseggia il caffè freddo, non perde di vista il piccoletto. L’acido del caffè gli si blocca sullo stomaco. Un riflusso rimonta in superficie il ricordo: Mattias bambino giocava così, tanto per giocare, non litigava mai, sorrideva gentile e gioioso. Nato per sorridere al mondo, rimettere sereno nella tempesta, tirare il pallone al cielo per scommettere su quale stella sarebbe andato a sbattere. Mai che tirasse in porta.

Un rantolo passa attraverso la porta. Ester si lamenta dalla camera da letto. Ester dai lunghi capelli neri ora ridotti ad una raspa chemiotica. Tre cicli e una testolina minuta coperta di ciuffetti ostinati come un deserto sudafricano. Ester dalle labbra dense, ora sono due fili, cuciti stretti sulle parole strozzate nel lamento. Morire si deve, Ester mia, ma così potevi evitarlo, potevi fare come tuo figlio, andartene e basta. Male mi avresti fatto comunque, maledetta ti avrei, come maledetto era quel figlio, bello e buono come te.

Ester si lamenta, forse chiama, ma Ernesto sta alla finestra, segue il piccoletto che ha appena infilato un goal: si è lasciato prendere dal gioco e ha segnato. Gli altri esultano, lui consola il portiere.

Ester, te le ricordi le tue dita lunghe che accarezzavano lente il viso di un me lontano. Te li ricordi gli angoli bui dei portoni nei vicoli ciechi del paese. Nel buio degli abbracci sentivo scorrere l’acqua nelle cunette, baci frettolosi mi soffocavano e mani affannate e appiccicose cercavano dappertutto. Ricordo il suono di quello scorrere d’acqua, che montava il senso di colpa e il desiderio di un piacere che sentivo arrivare in lontananza. Poi mi hai detto andiamo via. Via da questo paese stretto, incastrato tra colline ruvide, infossato nella fonda depressione di quest’isola incarcerata dal mare. Andiamo nel continente, hai detto, dove tutto continua, si chiama continente, mi hai spiegato, proprio perché tutto continua e non si ferma mai, che mare non ce n’è a fermarlo. Non c’è strada che finisca. E io ti ho creduto, ti ho seguito, insieme siamo andati via. A Roma siamo venuti, che Roma, mi hai detto, tu che leggevi e sapevi tutto più di me, è Caput mundi, la cima del mondo, da là sopra si vede tutto. A Roma ci sono le colline, proprio come al paese e fa caldo senza aria di mare. Dalla finestra il panorama è di cemento: un palazzo davanti, uno a destra e un altro a sinistra, a far quadrato bloccando l’aria. Tu invece eri così contenta. Libera di andare senza sosta, non smettevi mai di camminare, tutte le hai percorse quelle strade, non smettevi di stupirti per i palazzi eleganti, i negozi scintillanti, le chiese maestose. Quella grandezza ti rendeva felice, avevi sempre le braccia larghe ad abbracciarla. Guardando il cupolone mi dicevi Ma non è bellissimo? E io guardandoti ti dicevo di sì. Eri bellissima e come facevo io a dirti che quelle strade senza fine mi angosciavano, quelle strade tutte nuove e tutte da imparare mi facevano sentire solo e perso.

Ester mia, te la ricordi l’alba della nostra fuga. Il cielo carico di nuvole sembrava pioggia, ma neanche una lacrima è scesa. Si apriva rassegnato lasciando strada al sole. Ci ho pensato spesso a quel sole. Ogni sera uscendo dal lavoro, dopo le molte ore chiuso dentro a montare e smontare la catena, rivedevo il cielo illuminato di rossi diversi, scendere come i gradini della Basilica, che dall’alto scende a mare. Ogni sera uscendo da fabbrica abbagliato dalla luce del sole avevo come una vertigine.

È vero, tante volte me l’hai detto, tanto abbiamo realizzato. Abbiamo comprato casa, prima un pezzo, poi un altro ancora. Via via che la tua pancia si gonfiava, prima Noemi, poi Adela e poi, finalmente, Mattias. Quanto ti assomigliava.

Lui era l’unico che tenesse il tuo passo, non smettevate mai di ridere e camminare. Tutta Roma avete attraversato. Poi un giorno lui ha detto che Roma era troppo stretta e soffocante tra quelle colline. Ha detto che voleva ritrovare la terra dei padri, cosi ha detto, ti ricordi? Allora il cielo si è aperto e tu hai pianto. Non ti avevo mai vista piangere. Mattias ha detto che avrebbe riscattato il poderetto al paese, quello sul mare. Aveva bisogno di spazio, aria. Infinito, propio cosi ha detto, me la ricordo ancora quella parola, mi ha fatto paura. E cosi ha fatto. Se n’è andato a mare, a coltivare limoni e arance, li vendeva a forza di sorrisi candidi nei mercati di paese in paese. Ti scriveva che era felice, che al mercato era sempre festa e che tutte le sere tornava al poderetto e si tuffava in acqua a nuotare per ore. A forza di bracciate il mare se l’è mangiato. Una sera non è più tornato. Non l’hanno mai ritrovato.

E il mare si è preso tutti noi con lui. È sceso sulla casa il silenzio di risacca, le ragazze se ne sono andate, le stanze si sono svuotate. Tu hai smesso di camminare e ora hai i piedi inchiodati a letto, due stanze più in là. Il tuo respiro sempre più lento sospira lungo il corridoio. Conto i tuoi respiri, Ester mia, ché lo so che sono gli ultimi e presto te ne andrai. Prima della morfina, che ti ha tolto le parole, hai fatto testamento, l’hai fatto firmare da un notaio, senza dirmi nulla. Hai fatto scrivere che da morta vuoi tornare nella terra di tuo figlio.

Stavolta, Ester mia, non vengo con te. Ti lascio andare da sola. E quando te ne sarai andata, penso proprio che comincerò a camminare. Lo voglio proprio vedere se è come dicevi tu, che le strade qui nel continente non finiscono mai.

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