“…Errava un giorno lungo le rive del fiume, quando, tra sole e ombra, scorse una bionda e bella giovinetta. Era Dafne la figlia di Peneo, divinità fluviale del luogo. La vide Apollo e si accese d’amore per lei e fece per avvicinarla. Ma Dafne era timida e ritrosa, e fuggì via. Una paura folle la incalzava. Il Dio accelerava la corsa; le era ormai vicino, sempre più vicino, stava per raggiungerla; e a lei la lena mancava e la paura cresceva.
– Terra madre, aiutami! – implorò.Ed ecco sentì che la terra la tratteneva nell’impeto, la radicava a sé, l’avvolgeva tutta di una carezza materna. Il ritmo affannoso del cuore si placava lento, lungo. Il sangue ardente per la corsa, diveniva fluido e fresco.– Dafne!Con un ultimo slancio, con un grido di vittoria, il Dio le fu accanto e tese le braccia e le mani;e le mani divine urtarono a una scabra corteccia di albero. Dafne in sé stessa rideva sicura: una dura scorza ormai l’inguainava; le sue braccia levate e le sue mani aperte nell’ultima invocazione di aiuto e le sue chiome agitate nella corsa erano fatte rami e ramicelli e si infogliavano di verdi foglie lucenti. Un alloro!Apollo guardava smarrito, deluso, triste. Con un sospiro staccò una fronda dall’albero e se ne cinse le tempie.E la risata di Dafne, che or ora scoteva le fronde in un lieto sfrascare, non fu più che un soave mormorio di foglie nel sospiro del vento.”
(Dafne e Apollo, Eugenio Treves, “Dei ed eroi”)
Sembra risalga al 1873 la definizione di anoressia isterica da parte di Lasègue o anoressia nervosa da parte di Gull (1874): da qui in poi i comportamenti misteriosi ed enigmatici, nonché angoscianti, di astensione dal cibo e ricerca di un corpo esile saranno sempre più connessi all’area della medicina.
In precedenza tali comportamenti erano, invece, appartenuti al mondo del magico o dello spirituale o del mistero.
Il mito, le fiabe, la letteratura ci narrano storie di abusi alimentari o di deprivazione e il cibo è spesso foriero di sciagura. Nella fiaba di Hansel e Gretel i due fratellini a causa della loro sfrenata ghiottoneria rischiano di finire nel forno della strega. La fame li conduce in una situazione di pericolo ma poi scoprono il pericolo e nel forno finisce la strega. Il forno è il luogo che trasforma i cibi in alimenti e permette la sopravvivenza, ma è anche un luogo di morte. Ancora, tra le fonti letterarie troviamo la nozione di cibo “cattivo” come distruttività nell’abbondanza o nella deprivazione, al quale si oppone il cibo “buono” che porta amore, emozioni nuove. E’ il caso di Babette, la protagonista del racconto della scrittrice inglese Karen Blixen, che attraverso un pranzo, curato minuziosamente in tutti i suoi ingredienti, risveglia lo spirito, le passioni e i desideri di una tranquilla cittadina norvegese fino ad allora votata per scelta ideologica alla rinuncia dei piaceri terreni, considerati fonte di illusione. Di esempi se ne potrebbero fare tanti altri: potremmo citare Vianne la protagonista di Chocolat, romanzo della scrittrice britannica Joanne Harris, che durante il digiuno quaresimale apre una cioccolateria al centro di un tranquillo paese stravolgendo le abitudini dei suoi abitanti. Il cioccolato peccaminoso diventa la tentazione che induce al male finché il Conte, il maggiore sostenitore della guerra contro Vianne, perderà il controllo dei suoi abitanti e deluso e affranto deciderà di distruggere con ogni mezzo la cioccolata. In realtà sarà sopraffatto dalla sua bontà e dal potere del sapore, e, dopo il lungo digiuno forzato, anche in lui si riaccenderanno i desideri e si aprirà così alla possibilità di una nuova vita più ricca di emozioni e di amore.
Sono certamente tanti e diversi i modi di avvicinarsi ai problemi dell’alimentazione: indagare nel mito e nella tragedia può rivelarsi utile ad esplorare alcune tematiche riguardanti l’immagine corporea, l’ossessione per la perfezione, l’incapacità di usare il proprio corpo per trarne piacere. Nelle Baccanti di Euripide il digiuno viene utilizzato per allontanarsi dalle tentazioni della carne e andare verso la purificazione dell’anima.
La storia del digiuno, l’interazione tra l’individuo e la cultura nel tempo, può avvicinarci al mondo interno delle attuali anoressiche e capirne meglio i loro vissuti.
Di anoressia intesa come domanda di aiuto, richiesta di conforto e di riconoscimento di un dolore tanto forte e lacerante da non riuscire ad articolarlo se non in un linguaggio universale che è quello del corpo, parla appunto la mitologia. Nel mito dell’eroe tessalo Erisittone questi, per aver abbattuto un pioppo nero nel bosco sacro consacrato a Demetra, viene condannato a una fame incessante e devastatrice, violenta e insaziabile che niente può soddisfare. Erisittone divorerà così tutte le risorse che ha nella sua casa e alla fine, impazzito, divorerà se stesso. Un mito questo che può essere elaborato anche nei termini di confini tra interno ed esterno, desiderio e divieto, colpa e punizione. Fame è l’allegoria della fame, il suo nome è la traduzione di Limos, Ovidio la collocherà nell’inferno accanto alla povertà. Erisittone muore per la fame che pur soddisfacendo con le sue ricchezze non riesce a placare.
La pericolosità che sottende l’abbondare di cibo si ritrova anche nel suo opposto, il deprivarsene. Morire per fame è nell’antichità il male peggiore che possa accadere, eppure nella mitologia e nella letteratura sono molti i casi di scelte di rifiuto volontario del cibo. Sempre Ovidio nelle sue Metamorfosi racconta come la sofferenza consumi il corpo di Eco che viene punita da Era perché con le sue chiacchiere la intrattiene proteggendo gli amori di Zeus con le ninfe della montagna. La punizione consiste nel poter solo ripetere le ultime lettere delle parole gridate da qualcuno e questo le impedirà di comunicare il suo amore a Narciso. Per il dolore non mangerà facendo deperire il suo corpo di cui rimarrà solo la sua voce. Narciso si innamorerà della propria immagine riflessa e l’impossibilità del suo amore lo porterà ad astenersi totalmente dal cibo e trasformarsi in un fiore. Anche in questo mito è possibile intravedere il comportamento alimentare dell’anoressica: nello specifico, la Grande Madre Era impedisce alla figlia di esprimersi e non la educa alla relazione con l’altro sesso.
Euripide nella sua Medea racconta come la sofferenza procuratale dal tradimento di Giasone l’avesse fatta sciupare e tra gli eroi anoressici troviamo anche Fedra che a causa del suo amore segreto per il figliastro non riesce a mangiare più nulla. La malattia di Fedra è l’amore, la cura l’anoressia. Fedra cerca, nella mortificazione degli istinti primari, tra i quali la fame, la purezza e un corpo non contaminato, tutto questo per l’impossibilità di vivere il suo amore incestuoso nei confronti del figliastro. Nel deperimento del corpo, nella mortificazione degli istinti primari, su cui trionfa la fame, Fedra, con la determinazione delle eroine tragiche, ricerca purezza, invocando il controllo della mente su un corpo impazzito, che impallidisce e smania senza controllo. L’obiettivo principale di Fedra consiste nell’evitare che la sua passione diventi nota e sceglie di perseguirlo attraverso l’anoressia, la ricerca di un corpo androgino, asessuato; il desiderio di kryptein, di coprirsi, l’imposizione del sigàn, del silenzio quasi a negare l’esistenza stessa dell’amore adultero ed incestuoso.
Sintomo opaco, criptico, mimetico, l’anoressia può anche essere letta come l’affermazione di un potere intrinseco che non ha potuto svilupparsi e affermarsi e che trova la sua espressività nell’interessarsi e nel prendersi cura degli altri, come gli dei della mitologia che prendevano parte alle vicende dei loro eroi, ma sorridevano con distacco della loro fragilità e debolezza. Rivolgersi alla Grecia, ai suoi miti, al grande mondo delle opere tragiche, leggere le storie cliniche e di vita delle pazienti anoressiche attraverso i protagonisti delle tragedie greche se da un lato ci consente di riportare le esperienze dolorose dell’uomo al loro fondamento mitico, dall’altro ci permette di capire che la sofferenza umana, prima di divenire patologia psichica, rappresenta soprattutto sfondo simbolico e tragico dell’uomo.
La storia delle figure tragiche del teatro greco fornisce, nello specifico con Antigone, un interessante modello paragonabile alla vicenda personale dell’anoressica. Sia Antigone, sia l’anoressica, condividono l’ostinazione nel perseguire i propri obiettivi e a nulla valgono seduzione, violenza, ricatti, tenerezza, richiami all’intelligenza o al buon senso, messi in atto da coloro che praticano un discorso differente.
Immerse entrambe in una sterilità mortifera e in un rifiuto di aprirsi all’altro ed alla sessualità dell’altro, narrano l’inquietante presenza del fantasma materno e paterno. Calate in una cerimonia di sacrificio in un atto che rimanda all’ordine simbolico, fondamento dell’ordine umano, laddove più confusi appaiono i registri del reale, del simbolico e dell’immaginario, condividono una mimesi del morire, dunque, un essere.
Antigone, come l’Anoressia, manifesta un sentimento di familiarità con la morte, privo di timore e di disperazione e quasi animato da una fiducia mistica. Le anoressiche, come evidenziato dalla Bruch, sono portatrici di un’identità femminile ambigua e limitata. Se le anoressiche, allorché innescano il meccanismo della perdita di peso, sono in grado di influenzare il proprio ambiente ed imporre il proprio destino, Antigone, da parte sua, si pone come alternativa al controllo maschile istituzionalizzato.
Giorgio De Santillana che ha riscoperto nella mitologia la necessità di fermare la realtà e il suo movimento perché si compia l’atto magico, sostiene che la magia della mente della anoressica si realizza fermando il corpo e con esso la realtà. Proprio questo desiderio di tener bloccato il corpo e con esso la realtà in modo da non doverci pensare più è il nucleo folle della ragazza anoressica. La fame dirompente e assoluta che le anoressiche tentano invano di cancellare per inseguire il mito radicale della magrezza solo in apparenza è rivolta al cibo. In realtà è un’insaziata fame d’amore, fame di rapporti autentici, una brama di una vita più piena e più ricca di significato. Paradossalmente il loro non vivere sembra l’unica possibilità di vivere. L’anoressica vorrebbe avere tutto, vorrebbe “mettersi dentro tutto”, ma nel suo corpo non c’è sufficiente spazio, così preferisce dichiarare di non voler niente. Mette così il suo corpo fra sé e l’altro come difesa, per metterlo a bada e tenerlo a distanza, perché teme che la divori con quella stessa voracità che percepisce dentro di sé.
Non si sono mai sentite libere, da bambine, le anoressiche: libere di essere infantili, e diventate adolescenti, l’aumento del carico sociale, l’importanza dell’aspetto estetico, determinante nei rapporti interpersonali e nella stima di sé, possono dare adito a una messa in crisi dei valori nella quale sono cresciute. Un evento banale per gli altri, l’inizio di una dieta, una relazione difficile, un voto scolastico deludente può assumere i tratti di un evento foriero di destabilizzazione. Prive di appetito, hanno paura del loro desiderio, del desiderio dell’altro e di desiderare, temono il contraccambio dell’amore, Antheros. Il diniego del bisogno di coinvolgimento, l’imbarazzo, il disagio nel dover ammettere di essere coinvolte le porta a prosciugare tutte le riserve a disposizione, inaridendo gli istinti di sopravvivenza a favore di un’intellettualizzazione che sembra non conoscere limiti.
Dafne sentendosi braccata è costretta a chiedere alla madre Terra, protezione. Le sue passioni rimarranno intatte solo se non si scontreranno con il principio ordinatore estetizzante. La dura scorza la illuderà di poter mantenere un confine forte tra le sue incomunicabili passioni e l’arte della comunicazione. Un ritorno alle radici, la illuderà di poter trovare nutrimento prestando fede alla forza naturale ma indifferenziata della Madre. La passionalità primigenia di Dafne si scontra con la freddezza apollinea.
Nell’anoressica, se l’incontro con la funzione sociale apollinea (e la nostra società lo testimonia, se non altro nelle apparenze e nelle intenzioni) acquista i caratteri di uno scontro, può accadere che il “conosci te stesso” e il “rispetto del limite” la faccia improvvisamente sentire mancante di qualcosa e senza chiedere, ci costringerà a prenderci cura del suo nutrimento, poiché come una pianta in un vaso non ha la capacità di procacciarselo autonomamente.
L’anoressica esprime contestualmente distanza e dipendenza, freddezza e tenerezza, rabbia e compassione.
Anoressia, del resto, è parola che deriva dal termine greco “orexis” che significa brama, desiderio, passione e l’anoressia a ragione può essere considerata anche come una passione, uno stato di violenta e persistente emozione erotica in contrasto con le esigenze delle ragione, la realizzazione della sessualità, la concretezza di un corpo sessuato, che implica la discontinuità tra la sessualità perversa polimorfa infantile e la sessualità adulta, incarnata dal periodo della pubertà, e impone la scelta di appartenenza di genere.
Il corpo dell’anoressica ci parla, infatti, di un sé che rifiuta la pubertà e la femminilità, la fertilità, la floridezza delle curve della donna anticipatrice di accoglienza e promessa di maternità. È come se il sé volesse regredire al corpo bambino, per restare tale per sempre, prigioniera in un corpo efebico che non può, non sa, non vuole affrontare il passaggio d’Acheronte che porta a quello che vive come l’inferno della corporeità e della esistenza adulta. Quasi volesse resistere a oltranza a questo passaggio, con tutte le tragiche forze di un’ossessione inconscia, radicale, violentissima, spesso giocata oltre che sul controllo del cibo, in nicchie difensive ossessivamente controllabili quali lo studio, l’esercizio di professioni o di sport che richiedano elevati livelli di autocontrollo e di perfezionismo.
Muovendo dal valore simbolico della malattia e del linguaggio enigmatico dei sintomi, riletti attraverso il mito, è possibile prendere le distanze dalla visione riduttiva delle discipline medico-cliniche (e psicoanalitiche) e riconnettere, attraverso il simbolo, la vicenda della storia personale a quella della cultura. Questo approccio ci consente di “vedere” nelle ragazze in anoressia che vivono tutte intente a calcolare le calorie e a sottoporre i loro corpi a estenuanti esercizi fisici, un dramma ben rappresentato dal mito: quello dell’anima fanciulla che viene rapita da una oscura forza sovrapersonale e gettata in un mondo altro e sconosciuto. Il corpo della ragazza così svuotato della sua anima, tenderà a scomparire, forse nell’inconscio tentativo di seguirla e di farsi simile ad essa. Mari Ela Panzeca, scegliendo una chiave di lettura mitica dell’anoressia ci offre la possibilità di vedere gli scenari profondi e inconsueti dell’anima fanciulla “corteggiata” dalla morte. Da questa tensione di opposti può scaturire la “terza via” che Jung ha sempre indicato come “soluzione”, vale a dire come contatto fra il mondo interiore e quello esteriore.
Fonti:
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